Magia della comparazione

Jonathan Z. Smith, Magie de la comparaison. Et autres études d’histoire des religions (« Histoire des religions », 1), éds. D. Barbu et N. Meylan, Préface de P. Borgeaud, Genève, Labor et Fides, 2014, 200 pp. (*)

magie

La figura di Jonathan Z. Smith non dovrebbe aver bisogno di presentazioni. Nato e cresciuto a Manhattan, dopo studi di agraria e botanica Smith fu il primo a conseguire un Ph.D. in Storia delle religioni a Yale (nel 1969, con tesi di dottorato sul metodo comparativo di Frazer). La sua folgorante carriera di docente e studioso di religioni comincia con un piccolo incarico presso il Dartmouth College, nel New Hampshire (1965-1966), dove Smith stringe amicizia con un giovane Jacob Neusner; prosegue presso l’Università della California a Santa Barbara (1966-1968), dove avviene l’incontro fatale con Mircea Eliade (di cui si considererà sempre un allievo, seppure «eretico»); e si consolida a Chicago, dove lo studioso darà vita a un corso di Introduzione alle religioni che lo terrà impegnato per più di quarant’anni (dal 1968 al 2011).

Nel campo degli studi religiosi e antropologici, il nome di Smith è universalmente noto per alcune raccolte di saggi, come Map Is Not Territory: Studies in the History of Religions (Leiden, Brill, 1978), Imagining Religion: From Babylon to Jonestown (Chicago, The University of Chicago Press, 1982) e Relating Religion: Essays in the Study of Religion (Chicago – London, The University of Chicago Press, 2004), ma anche per due volumi che hanno contribuito a una radicale ridefinizione dei confini teorici – e della pratica stessa – del comparativismo religioso: To Take Place: Toward Theory in Ritual (Chicago – London, The University of Chicago Press, 1987) e Drudgery Divine: On the Comparison of Early Christianities and the Religions of Late Antiquity (Chicago – London, The University of Chicago Press, 1990).

I lavori di Smith, che si sono concentrati soprattutto su questioni legate al problema della comparazione e dello studio critico dei fenomeni religiosi (con una particolare attenzione nei confronti dei sistemi religiosi di età ellenistica), hanno influenzato intere generazioni di studiosi, e sono oggi alla base di un rinnovamento metodologico che coinvolge direttamente anche gli studi sul cristianesimo primitivo, come testimoniano gli incontri del gruppo di ricerca su “Ancient Myths and Modern Theories of Christian Origins”, che dal 2000 si riunisce nel corso dei convegni annuali della Society of Biblical Literature (tra i membri del gruppo, oltre a Smith, figurano personalità di primo piano nel campo degli studi sulle origini cristiane, come William E. Arnal, Richard S. Ascough, John S. Kloppenborg, Burton L. Mack e Stanley K. Stowers; alcune ricerche prodotte dal gruppo sono confluite negli importanti volumi curati da R. Cameron e M.P. Miller, Redescribing Christian Origins, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2004, e Redescribing Paul and the Corinthians, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2011).

Come chi scrive ha già avuto modo di osservare altrove (si veda L. Walt, “L’origine delle origini. Jonathan Z. Smith e la storia naturale del cristianesimo”, in Annali di Storia dell’Esegesi 32/1 [2015] 199-216), è sorprendente constatare quanto la produzione scientifica di Smith, al di qua dell’oceano e soprattutto in area non anglofona, non abbia ancora ricevuto un’adeguata ricezione critica. Nel nostro paese, per esempio, sono davvero pochi gli studiosi che si siano realmente confrontati con le sue proposte teoriche (si possono fare i nomi di Giovanni Filoramo e Mauro Pesce), e sarebbe interessante soffermarsi sui motivi che hanno spinto anche un autore ed editore di peso come Roberto Calasso, in un’intervista concessa al giornalista francese Alain Jaubert (trad. it. in V. Cecchetti, Roberto Calasso, Firenze, Cadmo, 2006, 215 ss.), a liquidare frettolosamente il contributo di Smith (in quel caso, su un tema cruciale come quello del sacrificio).

In effetti, almeno fino alla pubblicazione del volume che intendiamo presentare ora, si era potuta registrare in Europa la traduzione di un unico saggio di Smith (“The Domestication of Sacrifice”), all’interno della versione francese di Violent Origins: Walter Burkert, René Girard, and Jonathan Z. Smith on Ritual Killing and Cultural Formation (ed. R.G. Hamerton-Kelly, Stanford, Stanford University Press, 1987). Vale la pena di notare, tuttavia, come l’editore francese si sia risolto a presentare questo volume collettivo sotto il solo nome di Girard (Sanglantes origines, Paris, Flammarion, 2011), lasciando intendere il carattere meno rilevante, o quantomeno subordinato, degli altri interventi presenti in esso: il libro, in tal modo, è stato fatto passare in Francia come una sorta di tavola rotonda sulle tesi di Girard, laddove in origine esso raccoglieva i materiali di un colloquio interdisciplinare attorno ai temi della violenza, del mito e del rito (il colloquio, organizzato da B.L. Mack, si tenne a Pajaro Dunes, California, nell’autunno del 1983).

Tanto più meritoria, da questo punto di vista, appare la decisione di rendere finalmente disponibili a un pubblico di lingua francese alcuni saggi scelti di Smith, che coprono un arco temporale che va dal 1974 al 2004, e che contribuiscono a formare il primo volume di una collana (« Histoire des religions », per le edizioni Labor et Fides) i cui sviluppi si annunciano già promettenti. L’operazione si deve all’intelligenza di due giovani studiosi, facenti capo a quella che possiamo ormai definire come scuola ginevrina di storia delle religioni, e che trova oggi espressione nella rivista Asdiwal (attiva dal 2006): Daniel Barbu, maître assistant presso l’Institut für Judaistik dell’Università di Berna, e Nicolas Meylan, maître assistant presso l’IRCM dell’Università di Losanna. I due curatori si sono occupati personalmente della selezione e traduzione dei vari saggi smithiani, e li hanno fatti precedere da una limpida introduzione (« Avant-Propos », 11-20). La premessa del volume (« Préface », 7-10), non a caso, è stata invece affidata alla penna di Philippe Borgeaud, professore emerito di Storia delle religioni a Ginevra e già allievo in giovinezza di Smith (ne seguì i corsi a Chicago, nell’a.a. 1972-1973).

Considerata l’ampiezza e la versatilità degli interessi di ricerca di Smith, non deve essere stato semplice operare una scelta bibliografica, ma bisogna ammettere che ai due curatori l’impresa è riuscita benissimo. Il risultato è un volume agile e compatto, che raccoglie sette interventi tra i più importanti (e dibattuti) di Smith, tutti accomunati dal tema della comparazione storico-religiosa e della definizione teorica dell’oggetto di studio “religione”.

L’antologia si apre così con il testo « Imaginer la religion » (23-27), che non corrisponde propriamente a un articolo di Smith, ma riproduce alcuni passaggi dell’introduzione di Imagining Religion (1982, xi-xiii). Vi fanno seguito, nell’ordine: « Religion, religions, religieux », testo-chiave che ripercorre la storia moderna delle categorie concettuali collegate al termine “religione” (29-52; or. “Religion, Religions, Religious”, in M. Taylor, ed., Critical Terms for Religious Studies, Chicago – London, The University of Chicago Press, 1998, 269-284; ora anche in Smith, Relating Religion, 179-196); « Magie de la comparaison », una rassegna critica delle varie modalità attraverso le quali è possibile pensare (e ri-pensare) la comparazione storico-religiosa (53-80; or. “In Comparison a Magic Dwells”, in Smith, Imagining Religion, 19-35); « Ici, là, où que ce soit », geniale tentativo di riclassificare i sistemi religiosi del Mediterraneo tardo-antico attraverso un’analisi del loro rapporto con gli spazi (81-101; or. “Here, There, and Anywhere”, in S.B. Noegel, J. Walker, B.M. Wheeler, eds., Prayer, Magic, and the Stars in the Ancient Late Antique World, University Park, Pennsylvania State University Press, 2003, 21-36; ora anche in Smith, Relating Religion, 323-339); « La topographie du sacré », sulla genesi storica, ma anche sugli usi e gli abusi, dell’ambigua categoria di “sacro”, a partire da un’analisi della trattazione ormai classica di Durkheim (103-121; or. “The Topography of the Sacred”, in Smith, Relating Religion, 101-116); « Une question de classe », sulla necessità e sui limiti dell’elaborazione di una classificazione scientifica delle religioni (123-146; or. “A Matter of Class: Taxonomies of Religion”, in Harvard Theological Review 89/4 [1996] 387-403; ora anche in Smith, Relating Religion, 160-178); e infine « Une carte n’est pas le territoire », grandioso appello a una riformulazione radicale delle categorie analitiche utilizzate per lo studio scientifico della religione (147-173; or. “Map Is Not Territory”, testo di una lezione inaugurale tenuta a Chicago nel maggio 1974, poi ripreso in Smith, Map Is Not Territory, 289-309).

A chiudere il volume, come bonus track in una compilation di pezzi classici (e trattandosi di Smith, non vi faremmo torto a considerare il tutto come un disco jazz), è una preziosa intervista rilasciata dall’autore a Philippe Bornet, nell’aprile del 2010, « Jonathan Z. Smith par lui-même » (175-195; versione riveduta di un testo apparso originariamente in Asdiwal 6 [2011] 23-37). Come è già accaduto in altre occasioni (si vedano p.es. S. Sinhababu, “Interview with J.Z. Smith”, in Chicago Maroon, 2 giugno 2008; e T. Pearson et al., “The Devil in Mr. Smith: A Conversation with Jonathan Z. Smith”, in Teaching Theology & Religion 17/1 [2014] 61-77), anche qui è il dialogo a briglia sciolta, nella dimensione dell’oralità, a restituirci un’immagine più completa e profonda dello studioso (oltre che dell’uomo) Smith.

Al di là degli inevitabili aneddoti, pure utilissimi a ricostruire il clima intellettuale in cui Smith si è formato e si è poi trovato ad agire negli USA, la lettura di questa intervista si rivela preziosa anche per la comprensione del metodo e dello stile di ricerca perseguiti dall’autore (un metodo fondamentalmente intrecciato all’enorme passione di Smith per l’insegnamento, come dimostrano i saggi recentemente raccolti nel volume On Teaching Religion, ed. C.I. Lehrich, Oxford, Oxford University Press, 2013), dei suoi autori e problemi di riferimento, come pure delle sue opinioni sullo stato di salute delle discipline storico-religiose. Decisamente interessante, per esempio, è la domanda che viene posta allo studioso sulle tendenze attuali della ricerca, cui Smith risponde indicando tre mutamenti epocali cui staremmo assistendo in questi anni, specialmente in ambiente statunitense, ma con ovvie ripercussioni a livello internazionale.

In primo luogo, avremmo «il passaggio dallo studio delle religioni, al plurale, allo studio della religione, al singolare»: un passaggio non privo di controindicazioni e di qualche incidente di percorso. «In effetti – avverte Smith con una certa amarezza – sono abbastanza vecchio per inquietarmi del fatto che oggi è possibile ottenere un dottorato in teoria critica della religione senza aver mai studiato alcuna religione. […] E cominciamo a vederne gli effetti: abbiamo persone molto formate dal punto di vista teorico, ma i cui “esempi” non valgono nulla» (190). Questo problema, secondo lo studioso, non mancherebbe di riflettersi anche sul piano della comparazione: «Oggi formiamo studiosi che affrontano problemi ad ampio raggio, e un comparatista sarebbe tentato di vedere tutto questo di buon occhio. Ma bisogna ammettere che si tratta di discorsi molto spesso superficiali. Non c’è vera comparazione, ma tanto chiacchiericcio. Si comparano teorie, mai cose reali» (ibid.).

Più positivo, ma solo fino a un certo punto, è invece il bilancio sugli altri due cambiamenti epocali: l’internazionalizzazione della ricerca, che implicherebbe una sempre maggiore apertura da parte degli studiosi americani ed europei al confronto con tradizioni accademiche diverse, percepite un tempo come minoritarie o marginali; e il rinnovato impulso alla costruzione di una «scienza generale delle religioni», in particolare grazie all’apporto degli studi cognitivi, ma con l’inevitabile rischio, secondo Smith, di vedere attribuito a questi ultimi il ruolo di vernice teorica che fu occupato nel secolo scorso dalla fenomenologia.

Il lettore, in conclusione, troverà in questo volume un’ottima occasione per leggere – o rileggere – Smith, un autore che è indubbiamente destinato a diventare un grande classico nella storia delle religioni, nell’attesa (o nella speranza) che qualche editore italiano si decida a raccogliere la sfida di una traduzione dei suoi scritti anche nella nostra lingua.

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(*) Recensione apparsa in Annali di Storia dell’Esegesi 32/1 (2015), pp. 253-255.