La Bibbia, altrimenti

di Stéphane Briand

Riportiamo alcuni stralci di una recensione di Stéphan Briand al libro di André Paul, Autrement la Bible. Mythe, politique, societé (Bayard, Paris 2013), apparsa nel sito nonfiction.fr (versione integrale qui). La traduzione dal francese è nostra.

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Che la Bibbia sia il risultato di un lento e complicato processo di scrittura, è un fatto che gli esegeti ammettono ormai da più di tre secoli. L’esegesi moderna, tuttavia, non ha mai smesso di interrogarsi sulle modalità di composizione della Bibbia. Mentre il dibattito, in età antica e di nuovo a partire dal XVII secolo, ha coinvolto soprattutto questioni legate all’autorialità del testo (pensiamo ai lavori di Filone e di Flavio Giuseppe) o all’identità dei suoi redattori (con il Leviatano di Hobbes e il Trattato teologico-politico di Spinoza, che sollevarono dubbi sull’attribuzione del Pentateuco a Mosè), è soltanto dal XIX secolo che l’interesse degli studiosi ha cominciato a spostarsi sul problema concreto della redazione. Noi ci troviamo ancora in questa fase della ricerca, e Autrement la Bible di André Paul si iscrive pienamente all’interno di questa prospettiva. […]

Il processo di produzione dei testi biblici

Diviso in tre parti (I. Introduzione. Dalla terra al metodo; II. Per un abbandono dei modelli acquisiti; III. Sintesi, risposte e lezioni), il volume di André Paul prende le mosse da una sottile distinzione tra l’“oggetto-chiamato-Bibbia” e il “fatto-chiamato-Bibbia”. La prima parte del libro si sofferma pertanto sull’insieme dei “processi sociali, culturali e religiosi di produzione letteraria” che hanno portato alla creazione della Bibbia: e questo con l’obiettivo, né più né meno, di “comprendere a fondo il processo di produzione del testo, più che il risultato finale di tale processo”. In altri termini, l’autore intende dire qualcosa di nuovo su quella particolare “archeologia del sapere” che presiedette all’elaborazione della Bibbia, a partire da una ridefinizione del concetto di “intertestamento” (un termine introdotto negli studi biblici dallo stesso Paul), considerato non più come un semplice intervallo di tempo [il cosiddetto periodo “intertestamentario”], quanto piuttosto come un insieme di rapporti. I tre secoli che precedettero l’inizio dell’era cristiana diventano così un momento cruciale, durante il quale la letteratura biblica si sviluppa nel quadro di ciò che l’autore definisce “antichità giudaica”.

Genesi e statuto della Bibbia

Dalla considerazione di questa peculiare fase storica, che rappresenta in primo luogo uno spazio sociale, si passa quindi a una più ampia riflessione, tutta incentrata sullo statuto dell’oggetto-Bibbia. L’autore ci ricorda anzitutto che solo il corpus del Pentateuco, con la sua divisione in cinque libri, può contare su una concreta attestazione pre-cristiana, e che il problema della sua attribuzione a Mosè, così rilevante per noi, ha avuto una scarsa importanza nei tempi biblici. È stata invece la scoperta dei manoscritti del Mar Morto, nel 1947, a rivoluzionare davvero la nostra comprensione della Bibbia: circa un quarto delle opere rinvenute a Qumran è costituito infatti da differenti versioni di singoli libri della Bibbia (è il caso per esempio della Genesi, presente in 15 o 16 copie, di Isaia, in 20 copie, o di Ezechiele, in 10 copie), e questo ha spinto gli studiosi a un progressivo smantellamento, per così dire a una “decostruzione”, dell’intero edificio biblico; quello che troviamo alla base della Bibbia non è un testo stabile, ma una pluralità di testi. L’autore illustra quest’idea con un esempio: “Quando Gesù e gli evangelisti parlano dei Salmi, si riferiscono a qualcosa di molto diverso rispetto al nostro salterio”.

In questa stessa sezione del volume, un intero capitolo è consacrato alla dimensione ideologica della figura di Mosè: l’immagine del legislatore è interpretata come riflesso di un progetto di storiografia militante, che intende contrapporsi, anche a distanza di tempo, ai diversi racconti che circolavano sul personaggio. Bisogna comunque attendere il quinto secolo a.C., e il contesto dell’occupazione persiana, per assistere allo sviluppo di una vera e propria coscienza nazionale, che condurrà alla formazione – e all’affermazione – di una sola versione del racconto di Mosè: quella appunto della Torah.

Ciò che André Paul descrive come “la sintesi tardiva di una storia in frantumi” si troverà poi a fare i conti, nei primi secoli della nostra era, con la nascita di un sistema religioso rivale. In un capitolo intitolato “Conflitto o assenza di conflitto tra le due alleanze”, l’autore mostra quindi come il cristianesimo primitivo, desideroso di affermare la propria dimensione ideologica e culturale, farà dell’idea di “compimento” la pietra angolare del proprio edificio dottrinale, avvalendosi di “un modello ermeneutico già presente nella società ebraica pre-cristiana, come oggi sappiamo grazie agli scritti del Mar Morto”. L’autore sottolinea anche come il nostro concetto di Bibbia (analogamente al termine stesso di “Bibbia”) sia di fatto un’invenzione cristiana: “a rigor di termini, non potremmo parlare di una Bibbia ebraica, [dato che] il testo che si legge in sinagoga è quello della Torah, non quello della Bibbia”.

Decostruire la storiografia tradizionale

Questa rimessa in discussione di alcuni modelli acquisiti si accompagna a un deciso spostamento di interesse dalle questioni letterarie e teologiche alla storia sociale e politica. La terza e ultima parte del libro, composta in forma di sintesi e di risposte a questioni particolari, insiste pertanto sulla necessità, per gli studi biblici, di porre al vaglio “le concrete condizioni sociali, culturali e religiose” che hanno determinato l’atto di produzione del testo biblico, più che il testo il biblico in sé. In altre parole, l’autore fa appello a un lavoro di esegesi che riesca a svincolarsi dal quadro storiografico tradizionale della Bibbia. André Paul porta l’esempio degli Atti degli apostoli, la cui impostazione cronologica viene spesso accettata e riprodotta tale e quale dagli storici delle origini cristiane. Ne deriva una sorta di “storiografia al quadrato”, che soltanto una seria decostruzione dei racconti di fondazione può aiutarci a superare. In definitiva, l’autore richiama lo storico delle religioni al suo compito, che dovrebbe essere in primo luogo quello di concentrarsi sul processo che “portò la nazione degli Ioudaioi a trasformare il proprio bagaglio di tradizioni e di leggi in una sequenza di narrazioni storiche […], culminando nello straordinario tentativo di sintesi operato dal grande storico ebreo Flavio Giuseppe”.

Nonostante il volume di Paul offra una visione sintetica delle principali tendenze dell’esegesi contemporanea, ci si può rammaricare del fatto che l’autore non si sia sempre preoccupato di rimandare apertamente ai lavori che discute. Basti pensare alla questione del rapporto tra giudei e cristiani, “che condivisero la strada per molto più tempo di quanto si ammetta comunemente”: la cosiddetta “separazione delle vie”, osserva Paul, “non appare come un fatto compiuto almeno fino al IV secolo”. In questo caso, un riferimento all’opera di Daniel Boyarin, e in particolare a Borderlines: The Partition of Judaeo-Christianity (2004), sarebbe stato più che doveroso, quantomeno in una nota a piè di pagina. Ma il punto essenziale, agli occhi dell’autore, si trova altrove, e risiede appunto nella proposta di uno sguardo diverso sulla Bibbia.

L’appello a due ermeneutiche

Questo volume, in un certo senso, rappresenta infatti un invito ad affrancare il lavoro dello storico da quello dell’esegeta. […] Il problema, secondo Paul, è che “il tempo dell’ermeneutica storica si è fermato alla canonizzazione delle Scritture”, e che ad esso è seguito “il tempo dell’ermeneutica teologica”. Questo significa che l’attenzione degli esegeti si è rivolta quasi esclusivamente al prodotto finito (il testo biblico nella sua forma canonica), senza considerare l’atto stesso della sua produzione. L’autore, affermando questo, non intende fare appello allo studio diacronico dei singoli testi della Bibbia (un’impresa già avviata da tempo), quanto piuttosto richiamare l’attenzione sui vari “processi di canonizzazione di un testo, che passano attraverso i percorsi obbligati della produzione e della selezione”. Si tratta di una decostruzione dall’interno della storiografia biblica, ma anche di un invito a de-sacralizzare la Bibbia, vittima ancora oggi, troppo spesso, di una sorta di “feticismo mondano”.

Queste, a detta dello studioso, sono le sole condizioni che potranno permettere di “essere laici con la Bibbia”, distinguendo “da un lato un’ermeneutica storica attenta al suo significato, e dall’altro un’ermeneutica teologica interessata al suo senso” […]. Il libro di André Paul, col suo eloquente sottotitolo (Mito, politica e società), rivendica quindi la necessità di una lettura diversa della Bibbia, di una visione del testo svincolata dalle strettoie degli approcci confessionali, capace di addentrarsi in una più ampia riflessione di tipo sociale e politico. […]

(Testo integrale: qui)