di Pierre Vidal-Naquet
Il testo è tratto, con qualche modifica, da P. Vidal-Naquet, Il buon uso del tradimento, trad. it. di D. Ambrosino, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 53-61 (ed. or. Paris, 1977).
Grazie a un accidente storico di portata considerevole, e grazie a un’ermeneutica che avrebbe molto sorpreso il nostro autore, l’opera di Flavio Giuseppe ha avuto il privilegio assolutamente eccezionale d’essere conservata per intero. L’accidente storico è il trionfo del cristianesimo. Qualunque sia stato il destino personale di Flavio Giuseppe nella Roma dei Flavi, è chiaro che per la tradizione letteraria pagana restò un autore di secondo piano. È poco probabile che Tacito l’abbia utilizzato. Svetonio e Dione Cassio conoscono la storia dell’«annunciazione» a Vespasiano [1], ma non è dato sapere se la ricavino dall’opera di Giuseppe o da una fonte romana. Invece alla fine del III secolo, in un’epoca cioè in cui il cristianesimo s’era già notevolmente diffuso, il filosofo neoplatonico Porfirio, autore del resto d’un pamphlet intitolato Contro i cristiani, conosce l’insieme dell’opera di Giuseppe e cita testualmente, riportando i nomi, la celebre rievocazione delle sètte ebraiche, in particolare le pagine sugli esseni [2].
Per i cristiani invece, a cominciare dal II secolo al più tardi, Giuseppe è un testimone capitale. Poiché la storia sacra degli ebrei viene a prendere il posto della storia politica greco-romana, San Gerolamo, che saccheggia Giuseppe, lo chiamerà «Tito Livio greco» [3]. Le ragioni che stanno all’origine di tanto prestigio sono chiare. Il popolo cristiano, il verus Israel, è succeduto all’Israele «secondo la carne», ma la storia di quest’ultimo era la preistoria del primo. Eusebio di Cesarea, che all’inizio del IV secolo fonda la storia cristiana e la storia ecclesiastica, basa la sua cronologia su quella di Giuseppe. La cronologia della storia ebraica diventa così matrice cronologica della storia universale; gli storici con cui Giuseppe aveva voluto rivaleggiare — l’egiziano Manetone, il caldeo Beroso — erano destinati a sopravvivere solo attraverso le magre citazioni dello storico ebreo.
Quanto s’è detto vale essenzialmente per le Antichità. Ma la storia ebraica era anche storia d’un delitto, la morte del Cristo, e d’un castigo: la caduta di Gerusalemme. Giuseppe aveva molto probabilmente menzionato il Cristo nelle Antichità [4]; nella Guerra la sua parola doveva suonare abbastanza alta e forte perché il testo ci fosse tramandato senza interpolazioni cristiane, interpolazioni di cui il «Giuseppe slavo» e la traduzione latina dello Pseudo-Egesippo ci permettono di misurare tutta l’ampiezza. L’opera completa — alla quale fu aggiunto, per pietà, anche il testo oggi noto come «IV libro dei Maccabei» — testimoniava la grandezza e la decadenza degli ebrei, come la letteratura su Giuseppe ci permette di constatare quasi ad ogni passo. «In Giovanni Crisostomo diventa quasi automatico rimandare a Giuseppe ogni volta che si vuol dimostrare la decadenza degli ebrei» [5]. Non solo in Giovanni Crisostomo, ma in molti altri dopo di lui.
L’Occidente latino ha letto e trattato l’opera del cronista ebreo quasi alla stregua d’un testo sacro. Prima della fine del IV secolo, la Guerra giudaica aveva già avuto due traduzioni in latino, di cui la prima è piuttosto un adattamento. Nella Germania medievale, Giuseppe divenne addirittura una specie di mago guaritore che, col suo status di medico, omologo a quello degli ebrei più eminenti dell’epoca, garantiva il diritto all’esistenza dei suoi correligionari [6].
Tutto ciò salta per aria col Rinascimento. La comparsa della filologia rende impossibile operare sul testo quel tipo di trasformazioni di cui la versione vecchio-russa della Guerra è l’esempio per eccellenza. Con la Riforma il discorso cristiano non è più unitario, e il testo di Giuseppe avrà una parte nello scontro. Se ne ha il presentimento già confrontando le due traduzioni francesi dell’opera pubblicate all’epoca delle guerre di religione, a poca distanza l’una dall’altra, nel 1562 a Lione e nel 1569 a Parigi [7]. La prefazione dell’edizione lionese spiega che Giuseppe è stato sì testimone del vero Dio, ma in un certo senso quasi suo malgrado, «nonostante il suo spirito non andasse oltre la gratitudine verso i romani distruttori della nazione giudaica». La prefazione dell’edizione parigina invece, anch’essa ufficialmente cattolica [8], considera Giuseppe come lo storico per eccellenza e osserva che egli parla di Gesù «non da sacrificatore giudeo, ma da prete cristiano».
Fin qui il testo di Giuseppe agiva su se stesso: ma non tarderà a trovare altri campi d’azione. Dopo il massacro della notte di San Bartolomeo (24 agosto 1572), la piccola città di Sancerre fu assediata dal 9 gennaio al 14 agosto 1573. Non fu conquistata con l’assalto e l’incendio, ma presa per fame al termine d’una capitolazione in piena regola, che non comportò la distruzione della città. Tra gli assediati troviamo il pastore Jean de Léry, che nel 1574 pubblicherà a Losanna la Histoire mémorable de la ville de Sancerre. Jean de Léry dispone d’un registro diverso da quello della storia sacra: è uno dei fondatori dell’etnologia occidentale col suo Voyage au Brésil, redatto nel 1563 e pubblicato nel 1578. Il racconto dell’assedio di Sancerre si presenta a buon diritto come una narrazione puramente storica nel senso moderno del termine. Ma Géralde Nakam ha potuto dimostrare che, nel riferire l’assedio di Sancerre, «Léry, con mimetismo quasi istintivo, si ricongiungeva alla cronaca della sconfitta di Gerusalemme » [9]. Il racconto di Léry si modella su quello di Giuseppe, e bisogna capire bene la portata di tale lettura. Di fronte al papato imperiale di Roma, i protestanti francesi — e non solo francesi — s’identificano con gli ebrei vittime dell’impero romano. Al limite, non sono piú il verus Israel, ma proprio l’Israele secondo la carne.
Ecco quindi un esempio parossistico di come il testo di Giuseppe «lavorava»; in generale si può dire che i cristiani intenzionati a confermare la loro fede per mezzo di conoscenze storiche — cioè i protestanti e in una certa misura i giansenisti — si rifecero largamente a Giuseppe. Arnaud d’Andilly lo tradusse nel 1668-1669 e nelle prefazioni ne spiega il motivo con chiarezza cristallina: «Questo grande assedio ha dimostrato al mondo intero che una sola città avrebbe potuto infrangere la gloria di Roma, se Dio per punirla dei suoi crimini non l’avesse abbattuta coi fulmini della sua collera». Quanto alle Antichità, si tratta a suo avviso d’un libro «preferibile a tutte le altre storie dopo le Sacre Scritture» [10].
Agli albori del XVIII secolo, la prima storia degli ebrei di epoca moderna (opera di Jacques Basnage de Beauval, un protestante del Rifugio) si presenta come semplice proseguimento della storia di Giuseppe, di cui proclama l’eccellenza [11]. Un grande specialista di Giuseppe, anglicano di confessione, scrive che in Inghilterra «per un certo periodo praticamente non c’era famiglia che non possedesse due libri: la Bibbia e Giuseppe nella vecchia traduzione di William Whiston (XVIII secolo)» [12].
Molto meno entusiasti i cattolici, dopo la Controriforma. Lo testimonia ad esempio la lettera che un illustre erudito gesuita, il Padre Hardou, scrive nel 1707 giusto a proposito della storia di Basnage. Citando il celebre Baronius, chiama Giuseppe scriptor mendacissimus, aggiungendo che «sarà sempre il quinto Vangelo dei protestanti» [13]. Giansenisti e protestanti scrivevano — come vuole la logica, non la fonetica — «Joseph» e non «Josèphe». Il Padre Hardou giustifica invece l’ortografia che ha finito col prevalere in francese: «Del resto, signore, permettetemi, vi prego, di continuare a dire Josèphe, come si faceva una volta: non posso adattarmi a chiamare col nome dei santi che venero un autore degno solo di disprezzo» [14].
E gli ebrei? Le opere di Giuseppe, tanto la Guerra che le Antichità, non sono mai citate né utilizzate nelle fonti rabbiniche, che d’altronde assai raramente comportano una dimensione storica. Giuseppe non è né un traditore né un eroe: è semplicemente ignorato. Solo nel X secolo una comunità ebraica dell’Italia meridionale, sotto Bisanzio, si doterà d’una cronaca popolare in ebraico, conosciuta sotto il nome di Josippon: fondamentalmente si tratta un calco e di un rifacimento, a partire da una versione latina, delle Antichità e soprattutto della Guerra di Giuseppe [15].
A sua volta questo scritto sarà rielaborato o tradotto in arabo, in etiopico e armeno. Un esempio basterà a mostrare in che spirito ha lavorato l’autore di questo sorprendente documento: l’opera è attribuita a Giuseppe Ben Gorion, ossia al primo capo designato a condurre le operazioni di guerra contro i romani [16] insieme col sommo sacerdote Anan (Anna); il figlio di Ben Gorion era stato poi ucciso dagli zeloti [17].
Le trasformazioni apportate all’episodio di Masada sono notevolissime.. Masada non è più Masada ma Mezira. Il capo della guarnigione non è più l’Eleazar discendente da Giuda il Galileo, fondatore d’una setta eretica, ma il sacerdote Eleazar. I difensori della guarnigione, dopo aver ucciso le loro donne e i bambini, li seppelliscono nei pozzi, cosa che Giuseppe non dice. Gli ultimi soldati non si suicidano ma muoiono eroicamente combattendo. Il racconto è stato completamente riscritto in uno spirito sacerdotale e moralistico (contrario al suicidio) [18].
Questa vita sotterranea e clandestina delle opere del nostro storico è continuata per tutto il XVI secolo e molto più in là. Ma man mano che il pensiero ebraico s’integrava ai valori del Rinascimento, del Classicismo, dell’Illuminismo, gli ebrei hanno ripreso a leggere Giuseppe direttamente nell’originale. Nel 1551 esce a Ferrara un’edizione del commento a Daniele del rabbino Isaac Abravanel, morto nel 1508. Il dotto ebreo pone il problema dell’autenticità del Testimonium Flavianum su Gesù. A proposito di Giuseppe, Abravanel osserva che «ha scritto molto, ma non tutto è vero» [19].
All’altro capo del mondo mediterraneo, a Costantinopoli, esce nel 1566 la prima traduzione ebraica del Contro Apione [20]; si tratta però di un’apologia della legge ebraica, non suscettibile quindi di destare scandalo. Il mantovano Azariah de’ Rossi pubblica nel 1573 il Meor Eynaim (La luce degli occhi) in cui dimostra di conoscere molto bene — attraverso la versione latina — l’opera di Giuseppe, che non considera un testo canonico ma che pure mostra d’apprezzare. La sola giustificazione della storia non è forse d’aiutarci a capire la tradizione? Nonostante le riserve formulate nei confronti degli ebrei ellenizzati, e di Filone di Alessandria in particolare, è proprio con il pensiero greco che Azariah de’ Rossi riprende il dialogo [21]. Basnage ci avverte però che gli ebrei suoi contemporanei preferiscono «Giuseppe Ben Gorion» all’autore della Guerra giudaica [22].
Nel XVII secolo l’ebreo Spinoza, escluso dalla sinagoga, utilizza in senso razionalista l’opera di Giuseppe nel suo Tractatus theologicus politicus, mentre Manasse Ben Israel, che ad Amsterdam fu amico di Rembrandt e gli servì da modello, aveva progettato di scrivere una storia ebraica in spagnolo, che doveva intitolarsi Continuación de Flavio Josefo, ma il progetto non andò in porto. La prima traduzione moderna di Giiuseppe in ebraico, e precisamente dell’Autobiografia, sarebbe uscita a Vilna, nel 1859.
In Francia il processo di laicizzazione dei tempi moderni III ha portato alla grande traduzione pubblicata sotto gli auspici delli «Société des Etudes juives» e diretta da Théodore Reinach, con l’apporto di collaboratori ebrei e non ebrei. Reinach scrive — serenamente, troppo serenamente — che Giuseppe «non è uno spirito grande né una grande personalità, ma un singolare composto di patriottismo ebreo, di cultura ellenica e di vanità» [23], dimenticando di aggiungere: e di odio di classe; ma questo forse era difficile potesse scriverlo un personaggio amante del fasto come Reinach, che si fece costruire a Beaulieu-sur-Mer, sulla Costa Azzurra, una pazzesca «villa greca».
Comunque il tempo della serenità non era ancora venuto. Tra le due guerre mondiali, la pubblicazione del testo vecchio-russo della Guerra (edizione critica e traduzione francese) suscitò inattese reazioni politiche da parte dello storico cattolico Giuseppe Ricciotti, il quale si chiese quali fossero le intenzioni delle autorità sovietiche nel favorire la diffusione di tali documenti [24], mentre il romanziere tedesco Lion Feuchtwanger, ebreo e marxista, dedicava a Giuseppe una trilogia comprendente La fine di Gerusalemme, Il giudeo di Roma e Il giorno verrà [25].
Nel 1938, a New York, L. Bernstein pubblica un’apologia di Flavio Giuseppe in cui lo paragona debitamente a Geremia, e conclude il libro riproducendo una preghiera in ebraico rivolta all’anima di Giuseppe, composta da un celebre rabbino del secolo scorso (Kalman Schulman, autore d’una biografia di Giuseppe), preghiera in cui lo storico ebreo è paragonato ai Tannaim, i rabbini della prima generazione dopo la distruzione del Tempio [26].
In quegli anni lo sviluppo d’un giudaismo nazionalistico ha lasciato poco spazio a simili giudizi. Siamo nel sud-ovest della Francia, nell’autunno del 1941, alla riunione d’un gruppo di giovani, simpatizzanti dell’Irgun: «Riaprimmo il processo contro lo storico Flavio Giuseppe, autore della Guerra giudaica, ex comandante in capo [sic] dei ribelli d’Israele, colpevole di collaborazionismo con i romani». Giuseppe «fu condannato a morte all’unanimità come traditore della causa d’Israele» [27]. In Israele il destino di Giuseppe è veramente singolare. «Storico brillante ma pessimo ebreo», secondo l’espressione del generale archeologo Y. Yadin [28], Giuseppe è la fonte principale e insieme il nemico pubblico numero uno. Per dirla in modo volutamente paradossale, l’archeologia nazionalista fonda tutta la sua costruzione sui testi di Giuseppe per poi stravolgerli; la storia nazionalista (che del resto non è monopolio degli israeliani) utilizza Giuseppe come testimone della fine del secondo Tempio, ma lo rinnega tranquillamente in quanto storico dei violenti conflitti interni che scossero la società ebraica, specialmente a Gerusalemme, durante la guerra del 66-70.
Così ad esempio Y. Baer, un decano degli storici israeliani, dopo aver utilmente rilevato le fonti classiche ricalcate da Giuseppe, arriva a questa strana ma logica conclusione: la guerra civile non è mai esistita, è un mito retorico romano. Gli abitanti «sono restati uniti nella lotta per difendere la santità della loro vita e della loro città» [29]; anche le fonti talmudiche devono essere respinte, quando vanno nel senso di Giuseppe [30]. Invece Giuseppe va creduto, senza la minima esitazione, quando afferma per esempio che due sacerdoti si gettarono nel Fuoco che distrusse il Tempio [31]. Omnia munda mundis.
***
Note
[1] Svetonio, Vespasiano, 5, 6; Dione Cassio, H.R., 66, 4.
[2] Porfirio, De abstinentia, IV, 11-16, cita Guerra, II, 119-159. Porfirio conosce anche il discorso di Eleazar a Masada (Guerra, VII, 352-356, citato in De abstinentia, IV, 18).
[3] Epistolario, I, 22, 35. Sulla fortuna di Giuseppe in ambiente cristiano, oltre all’opera di H. Schreckenberg, Die Flavius-Josephus-Tradition in Antike und Mittelalter (Leiden, 1972), preziosa per le referenze che riporta, ho utilizzato l’articolo di G. Bardy, “Le souvenir de Josèphe chez les Pères”, in Revue d’histoire ecclésiastique, 43 (1948), pp. 179-191, e la tesi di laurea di A. Pierrot, Lecture de Josèphe par les auteurs grecs chrétiens da deuxième au cinquième après J.C. (Université de Paris IV, 1973). A parte questo, la storia di come l’opera di Giuseppe ha « lavorato » (per riprendere un’espressione di Claude Lefort) è ancora tutta da fare. Molti elementi si potranno trovare nel ricco ammasso di dati contenuti nel libro di R. Eisler, Iesous Basileus. Per uno studio sull’importanza di Giuseppe rispetto agli altri storici antichi in epoca moderna (dal Rinascimento alla Rivoluzione francese) è fondamentale l’articolo di P. Burke, “A Survey of the Popularity of Ancient Historians”, in History and Theory, 5, 1966, pp. 135-152, dove si mostra che in Occidente i più letti sono gli storici latini, ma che Giuseppe è il più diffuso tra gli storici greci, superiore in «popolarità» anche a Plutarco ed Erodoto.
[4] Non riprenderò qui l’annosa questione del Testimonium Flavianum (Antichità, XVIII, 63-64; XX, 200).
[5] A. Pierrot, op. cit., p. 54.
[6] Si veda il bellissimo articolo di H. Lewy, “Josephus the Physician”, in Journal of the Warburg Institute, I (1937-1938), pp. 221-242.
[7] Histoire de Flavius Josèphe, traduite en francais par François Bourgoing, Lyon, 1562 (data dell’esemplare conservato alla Bibliothèque Nationale; ma Dominique Gerin mi segnala che la Bibliothèque Municipale di Lione possiede un esemplare di questa stessa traduzione pubblicato nel 1558); Histoire de Flave Josèphe, latin-francois par M. Jean Le Frère de Lavai et François de Belleforest, Paris, 1569 (questa seconda traduzione non è che una revisione della prima).
[8] Però nella stessa prefazione si parla del traduttore, Francois de Bellefores, come di un «riformato».
[9] Géralde Nakam, Au Landemain de la Saint-Barthélemy, guerre civile et famine. Histoire mémorable da siège de Sancerre (1573) de Jean de Léry, Paris, 1975 (cito dalla p. 137). Per una tavola comparativa dettagliata, vedi pp. 164-170.
[10] Ho sotto gli occhi alcuni esemplari della Guerra e della Storia degli ebrei pubblicate a Bruxelles nel 1703 e nel 1701, e cito le pagine III e V delle rispettive prefazioni.
[11] Histoire des Juifs depuis Jésus-Christ jusqu’à présent pour servir de continuation à l’Histoire de Joseph, nuova edizione aumentata, La Haye, 1716; cfr. su Giuseppe p. 10. Su Basnage e la sua famiglia, si veda la prefazione di Elisabeth Labrousse alla ristampa di Tolérance des Religions, di Henri Basnage de Beauval (prima ed. 1684), New York-London, 1970.
[12] H. St. J. Thackeray, op. cit., p. 3. T. Reinach fa un’osservazione analoga nella prefazione alle Oeuvres complètes, Paris, 1900, p. V, ma mi sembra meno fondata.
[13] Lettre à M. de Ballongeaux… où l’histoire des Juifs de M. Basnage réfutée sur ce qui regarde les Hérode, ripresa in Opera selecta del Padre Hardouin, Amsterdam, 1709; cito la p. 369. In particolare il Padre Hardouin voleva dimostrare che la famiglia di Erode non era ebraica.
[14] Ibidem, p. 358.
[15] Per la datazione seguo qui H. Schreckenberg, op. cit., p. 62 e soprattutto D. Flusser, “Der lateinische Josephus und der hebraische Josippon”, in Festschrift O. Michel, Göttingen, 1974, pp. 122-132. Per una datazione molto più alta (V-VI secolo) vedi S. Zeitlin, Josephus on Jesus, with Particular Reference to Slavonic Josephus and the Hebrew Josippon, Philadelphia, 1931, pp. 28-53. Di questa cronaca esiste ora una nuova edizione critica, di cui è già uscito il primo volume: The Josippon (Josephus Gorionides), a cura di D. Flusser, Jerusalem, 1978 (in ebraico). Nell’attesa ho utilizzato l’edizione ebraica con traduzione latina di J.F. Breithaupt: Josephus Gorionidis, sive Josephus Hebraicus latine versus, Gotha, 1707.
[16] Guerra, II, 563.
[17] Ciò è vero se, come generalmente si ammette, il «Gorion» figlio Giuseppe di Guerra, IV, 159 è identico al «Gourion» ucciso di cui si parla in Guerra, IV, 358. Giuseppe Ben Gorion non ricompare piú nell’opera di Giuseppe; quanto a «Gorion», sembra che fosse figlio del Nicodemo del Vangelo di Giovanni 19,34: cfr. D. Flusser, Jésus (trad. dal tedesco), Paris, 1968, pp. 129-130.
[18] Sono stato condotto a queste osservazioni dall’articolo di S.B. Hoenig, “The Sicarii in Masada. Glory or Infamy”, in Tradition. A Journal of Orthodox Jewish Thought, 11, 1 (1970), pp. 5-30.
[19] Cfr. H. Schreckenberg, op. cit., p. 171, che si basa su R. Eisler, Iesus Basileus, cit., v. I, p. 16.
[20] Cfr. M. Steinschneider, Die Geschichtsliteratur der Juden, I, Bibliographie der hebräischen Schriften, Frankfurt, 1902, p. 89.
[21] Si veda S.W. Baron, History and Jewish Historians, a cura di A. Hertzberg e A. Feldmann, Philadelphia, 1965, pp. 167-239, in particolare p. 223.
[22] J. Basnage de Beauval, op. cit., p. 24.
[23] Préface (postuma) al Contre Apion delle edizioni Belles-Lettres, Paris 1930, p. V.
[24] La prise de Jérusalem de Josèphe le Juif, a cura di V. Istrin e A. Valila (trad. francese di P. Pascal), 2 vv., Paris, 1934-1938; G. Ricciotti, Giuseppe tradotto e commentato, Torino, 1937, v. I, p. 94.
[25] Titoli originali: Der jüdische Krieg, Die Seihne, Der Tag wird kommen. I tre romanzi, tradotti da Ervino Pocar per Mondadori, uscirono in Italia, rispettivamente, nel 1933, nel 1937 e nel 1948. In Francia i due primi volumi, tradotti da M. Rémon, sono stati pubblicati a Parigi nel 1933 e nel 1936.
[26] L. Bernstein, Flavius Josephus: His Time and His Critics, New York, 1938. Ho potuto consultare questo libro soltanto ora: la preghiera a Giuseppe è alle pp. 348-349.
[27] C. Vigée, La lune d’hiver, Paris, 1970, p. 53; Vigée stesso era stato incaricato della difesa.
[28] Y. Yadin, Masada: Herod’s Fortress and the Zealots’ Last Stand, London, 19712, p. 15. M.I. Finley ha severamente giudicato questo libro per ragioni non lontane da quelle qui svolte: cfr. “Josephus and the Bandits”, in New Statesman, 2 dicembre 1966.
[29] Y. Baer, “Jerusalem in the Times of the Great Revolt”, in Zion, 36 (1971), pp. 127-190: cito dal riassunto in inglese. La mia opinione su quest’articolo è condivisa dai colleghi israeliani D. Asheri (Gerusalemme) e B. Cohen (Tel Aviv). Ringrazio calorosamente il secondo per avermi tradotto e riassunto numerosi passi del testo ebraico.
[30] Y. Baer, ibidem, pp. 180-181.
[31] Y. Baer, ibidem, p. 167; i racconti rabbinici di questo sacrificio vertono indifferentemente sulla caduta del primo Tempio e su quella del secondo: cfr. nel Talmud Bab., Taanith, 29a, e negli Aboth de Rabbi Nathan, versione A, IV, p. 37 della trad. Goldin (New Haven, 1955); versione B, VII, p. 73 della trad. Saldarini (Leiden, 1975); Dio prende la chiave del Tempio prima che i suoi sacerdoti si gettino nel rogo.
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