di André Paul
La storia di un periodo o di un fatto antico è formata anche dalla sua posterità. Ma è fatta anche dalle sue differenze. La differenza essenziale per il giudaismo antico, e dunque per il giudaismo in quanto tale, è costituita dal cristianesimo antico, e dunque dal cristianesimo tout court.
1. Il destino di una nazione di esiliati
Il giudaismo si è organizzato, affermato, poi definito, sulle rovine del tempio di Gerusalemme, dopo il 70. La relazione che da allora coltiva con quel tempio è originale e specifica. Si basa su un’assenza; è dunque di natura simbolica e anche mitica. Ed è l’assenza di una cosa reale, il centro necessario di un sistema religioso e politico, sulla cui base il potere giudaico ha per lungo tempo unito due popolazioni giudaiche: quella della terra nazionale e quella della diaspora.
L’esistenza della diaspora presuppone la lontananza dalla terra nazionale, ma anche e soprattutto dal tempio unico, garante della conservazione dei valori nazionali. Essa comporta e persino esige l’apertura, almeno relativa ma sufficiente, dei beni religiosi tradizionali alla lingua e alla cultura locali. E invita al pellegrinaggio. La scomparsa del tempio e più ancora quella di una terra giudaica giuridicamente indipendente hanno di per sé distrutto le condizioni di una diaspora nazionale; soprattutto hanno comportato l’instaurarsi di un’organizzazione del tutto diversa, quella dell’esilio.
L’esilio è il risultato politico e nazionale, sociale e culturale della scomparsa del tempio, nodo topografico e ideologico, delle funzioni di integrazione e di coesione nazional-religiose. Con l’esilio, quindi, l’identità dell’individuo, e pertanto del gruppo, dipende dal riconoscimento esclusivo dei beni nazionali, morali e culturali da preservare. Per l’uomo della diaspora, ogni lingua può essere «materna», e dunque diversa, e ogni terra «patria»; per l’uomo dell’esilio, la comunicazione e la complicità con l’ambiente circostante non vanno oltre le concessioni necessarie alle relazioni e agli scambi richiesti dalla sussistenza di tutti.
L’uomo della diaspora è realmente «a casa propria» al di fuori dei confini della terra nazionale; l’esiliato coltiva in sé e negli altri la coscienza di essere «straniero». L’uomo della diaspora pratica il pellegrinaggio al tempio di Gesuralemme come un viaggio di andata/ritorno, da ripetersi a volontà; l’esiliato non riesce a eliminare l’idea, il desiderio, se non la prospettiva, del ritorno definitivo nella terra d’origine, unica sua patria.
È dunque come gruppo di esilio e religione di esilio, in altre parole come nazione di esiliati, che il giudaismo esiste ormai, dopo il 70, e che solo così può esistere. Ma il rapporto e l’equilibrio di queste relazioni hanno cominciato a vacillare e persino a trasformarsi dopo il 1948, data della fondazione di un nuovo stato giudaico definito come Israele. In quest’opera [Il giudaismo antico e la Bibbia, N.d.R.], abbiamo parlato di un’«ideologia del terzo tempio», meglio affermata e significata, pare, dopo la guerra dei sei giorni, con la riconquista di Gerusalemme e il controllo dell’area in cui sorgeva il tempio. Occorrerà tuttavia aspettare numerosi decenni perché si riesca a cogliere l’articolazione pertinente e propulsiva tra il sistema bimillenario del giudaismo classico, da un lato, e, dall’altro, la realtà e gli effetti dell’avventura e dell’esperienza sionistica.
2. Le ragioni di un popolo disperso
Se il giudaismo si è costituito come sistema social-dottrinale di esilio, il cristianesimo invece è l’erede social-letterario della diaspora. Più ancora. Si può dire che la qualità e la funzione di diaspora sono fondamentalmente costitutive dell’anima e della forza propulsiva del cristianesimo. A differenza del giudaismo infatti, il cristianesimo dispone del tempio: innanzitutto il Tempio mitico e pertanto unico, «il Tempio del suo corpo» (secondo Gv 2,21, che si riferisce esclusivamente a Cristo); ma anche il tempio del vero culto con, da una parte, l’istituzione fisica dello hieron («spazio sacro») dovunque impiantato nel mondo detto cristiano e, dall’altra, l’organizzazione gerarchica che gli conosciamo.
Diciamolo senza mezzi termini: non esiste una terra cristiana, sia al singolare che al plurale; esistono soltanto dei cristiani, sparsi nel mondo come tanti elementi di una diaspora immensa e senza limiti (diaspora peraltro significa, in greco, «dispersione»). Abbiamo affermato che la diaspora presuppone un tempio unico, e l’apertura perlomeno relativa del patrimonio religioso alla lingua e alla cultura locali. Queste condizioni non possono più essere giudaiche dopo il 70; esistono soltanto nel cristianesimo, se perlomeno si riconosce che la formula «il Tempio del suo corpo» — simmetrica, presso i cristiani, di quest’altra: «la Torah data a Mosè sul Sinai», presso gli ebrei — designa funzionalmente il Tempio unico e vero.
Occorre aggiungere che i cristiani hanno la loro «terra santa», verso la quale fin dalle origini non hanno cessato di andare in pellegrinaggio e per la quale, almeno nel medioevo, si sono volontariamente armati. Ma per essi non si tratta di una «terra nazionale» (la ’Eretz Israel degli ebrei). Da notare inoltre che il sepolcro presso il quale si recano è fisicamente là, a differenza della sepoltura di Adamo, la quale invece è legata al sistema ideologico-mitico con cui gli ebrei attestano e rivendicano l’unicità del loro statuto, non solo tra gli uomini ma anche nell’intero universo.
Per l’uomo cristiano, come accadde per il giudeo Filone di Alessandria, ogni terra abitata è una vera «patria». L’uomo della diaspora, l’uomo cristiano è membro di un’ekklesia, «assemblea»; — e occorre che vi sia dapprima «dispersione» perché si faccia assemblea. La diaspora è quindi per lui un fatto non soltanto legittimo ma anche necessario. E si può dire che «diaspora» è il primo concetto da proporre come atto a descrivere il «sistema cristiano». Tale concetto situa immediatamente la dimensione sociale del cristianesimo sul suo asse pertinente; e condiziona la scelta e la descrizione adeguata delle altre dimensioni.
È quindi come gruppo di diaspora e religione di diaspora, in altri termini come popolo (e non come nazione, come per gli ebrei), che il cristianesimo esiste fin dalle origini, e che solo così può esistere.
3. Giudaismo e cristianesimo: due «falsi gemelli»
Il cristianesimo e il giudaismo sono nati insieme sulle rovine del secondo tempio. Con ciò s’intende la realtà cristiana e la realtà giudaica, originate insieme e in simmetria. Si tratta di falsi gemelli che hanno per madre una realtà ambigua, la cui vita copre l’arco di diversi secoli e che può essere definita, secondo la parte osservata, sia «proto-giudaismo», sia «proto-cristianesimo». Due coerenze o due sistemi, sociali, ideologici e dottrinali, si sono forgiati e istituiti, inconciliabili ma contigui, in una differenza radicale e dinamica.
Ciò che lega questa differenza è il posto dell’ortodossia nel cristianesimo e la sua assenza nel giudaismo. Nel cristianesimo l’ortodossia non è solo possibile, ma necessaria. La si coglie come inerente al sistema cristiano in quanto tale: è in esso una forza nel contempo intima e pubblica di sintesi e pertanto di verifica. Il sistema social-dottrinale cristiano è centrifugo, dal punto di vista linguistico e sociale, e dal punto di vista geografico e culturale. Esige perciò di per sé l’ortodossia come condizione della sua conservazione e della sua capacità operativa.
Il discorso è del tutto diverso per quanto concerne il giudaismo, il cui sistema è invece centripeto. In esso, l’ortodossia non sembra necessaria, e neppure possibile. Il suo posto e la sua funzione sono ampiamente e intimamente compensate da tutte le forze latenti della Torah e dell’istituzione rabbinica. Nel giudaismo senza né tempio né gerarchia, l’ortodossia viene supplita a priori dall’ideologia esclusiva e inglobante dell’esilio.
Da un certo punto di vista, l’equilibrio dei contrari può così formularsi: per il cristianesimo, a sistema centrifugo, la rivelazione si è conclusa con la fissazione definitiva del canone delle Scritture; per il giudaismo, a sistema centripeto, la rivelazione, quella del Sinai, è invece sempre in atto.
La prima e definitiva norma di condotta che sembra risultare dalle proposizioni che precedono è la seguente: che ciascuno, sia esso ebreo o cristiano, voglia innanzitutto cogliere e approfondire la propria differenza. Questo può garantire un sano e sereno itinerario di incontro e di scambio. Se, al contrario, si proclama in prima battuta ciò che è comune o simile a entrambi, si corre il rischio di falsare l’equilibrio della relazione, ed è assai probabile che, anche controvoglia, si finisca in qualche trappola. La somiglianza impone la concorrenza e quindi la lotta. L’assillo e la ricerca della differenza attivano al contrario dei partner, di cui, ma questa volta in un clima di pace, può essere descritta ed esaltata la rispettiva identità.
(Testo tratto da A. Paul, Il giudaismo antico e la Bibbia [1987], trad. it. di G. Cestari e A.M. Cantoni, EDB, Bologna 1991, pp. 331-335)