di Erik Peterson
I testi sono tratti da Enciclopedia Cattolica, vol. I, Firenze 1948, coll. 1679-1686, e vol. III, Firenze 1949, coll. 1066-1067. Le abbreviazioni e le traslitterazioni originariamente utilizzate dall’Autore sono state adattate ai criteri del sito.
1. Apostoli (gr. apóstolos, “inviato”, da apostéllō)
Titolo dei dodici collaboratori scelti da Gesù, che affidò loro il proseguimento e il completamento della sua missione redentrice (Mt 28, 18-20; Gv 15, 16). Così Gesù chiamò «i dodici» (Mc 3,14; Mt 10,1), che scelse tra un numero imprecisato di discepoli (Lc 6, 13). I “dodici” era una denominazione fissa: Mc 6, 7 (Lc 9,1); Mt 10,5; 20, 17; 26, 14; ecc.; At 6, 2; ciò è provato soprattutto da 1Cor 15, 5, dove Paolo parla delle apparizioni dl Risorto ai “dodici”. Si tratta di una tradizione che viene da Gerusalemme. Il numero fisso risulta anche da At 1, 15 sg., ove si narra l’elezione di Mattia al posto di Giuda, e così «gli undici» (Mt 28, 16; Mc 16, 14; Lc 24, 9.33; At 1, 26) diventano di nuovo «i dodici».
Non è possibile spiegare la formazione del gruppo dei dodici, con uno sviluppo storico posteriore alla vita terrestre di Gesù. Gesù stesso ha voluto «i dodici» scelti, come risulta da Mt 19, 28 (cf. Lc 22, 30), «per sedere sopra dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele» al glorioso ritorno del Figlio dell’uomo. I “dodici parteciperanno dunque alla funzione giudiziale del “Figlio dell’uomo” su Israele, saranno, come Lui, rivelati in gloria; si può interpretare la parola greca (krínein) anche in senso di governo (cf. Mt 19, 21, e Ap 20, 4). Questo avvenire glorioso dei “dodici” è il premio per i sacrifici che fanno ora, abbandonando tutto e seguendo Gesù (Mt 9, 27.29); essi che perseverano con Lui nelle tribolazioni avranno parte al suo regno e mangeranno e berranno alla sua mensa (Lc 22, 28). Giovanni vede (Ap 21, 14) il muro della nuova Gerusalemme, «che aveva dodici fondamenti e sopra quelli erano i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello».
La scelta dei “dodici” ha dunque stretti rapporti con la dottrina escatologica di Gesù. Far parte dei “dodici” significa: abbandonare tutto, essere con Gesù nelle sue tribolazioni per diventare, partecipando al suo giudizio e al suo regno, fondamento di una nuova città. Dal fatto che «i dodici» sono messi in rapporto col Figlio dell’uomo, risulta che il concetto dei “dodici” faceva parte della più antica dottrina della comunità di Gerusalemme. Non può quindi sorprendere che anche i giudeo-cristiani mettano «i dodici» in rapporto con le dodici tribù d’Israele. In un frammento del Vangelo usato presso gli Ebioniti, dice Gesù: «Voglio che voi siate i dodici apostoli per testimoniare su Israele» (Epifanio, Haer., 13, ed. K. Holl, I, Lipsia 1915, p. 350, rr. 1-2; cf. Ps.-Clemente, Recogn., I, 40; Epist. Barnabae, 8, 3: «essendo dodici per testimoniare sulle tribù». Secondo gli Atti di Paolo (ed. C. Schmidt, Amburgo 1936, p. 60, 34), «i dodici» sarebbero stati scelti dalle dodici tribù. Gesù stesso diede loro il titolo di apostoli (Lc 6, 13; vari manoscritti in Mc 3, 14).
Naturalmente la scelta dei “dodici” non coincide con la loro missione di apostoli. Per la loro funzione escatologica, «i dodici» ricevono l’incarico di rendere testimonianza «sulle dodici tribù d’Israele» (Epist. Barn., 8, 3; cf. Mc 6, 11 e Lc 9, 5; Mt 13, 9 e paralleli). Questo primitivo concetto di apostoli rimane dunque legato ad Israele. L’apostolo è l’annunciatore del vicino regno di Dio (Mt 10, 7; Lc 10, 9) in Israele (Mt 10, 5 sg.), mandato da Gesù. Partecipa alle sofferenze del Figlio dell’uomo per essere alla fine glorificato con Lui. Le privazioni che sono imposte ai “dodici” da Gesù sono la mancanza di una dimora fissa, l’abbandono della famiglia, la povertà; le loro sofferenze trovano il loro colmo nell’arresto (Mc 6, 7; Mt 10, 17; Lc 9, 1 sg.) e nella morte.
È dunque ben fondata la convinzione cattolica, che l’apostolo sia modello dell’asceta e del martire. Ma l’apostolo è anche il grande taumaturgo. Secondo Mc 6, 7 (cf. 3, 15), «i dodici» ricevono potestà sugli spiriti immondi (Mt 10, 1; Lc 9, 1). La vicinanza del regno di Dio non si esprime soltanto in un annuncio, ma anche nella sconfitta delle forze demoniache nel mondo, come d’altra parte il semplice saluto di pace, dato dai “dodici” a quelli che accettano il loro annunzio, si trasforma in benedizione (Mt 10, 13; Mc 6, 10; Lc 9, 4 sg.). Così, salute o rovina sono legati alla presenza dell’apostolo come a quella di Gesù stesso.
Il Vangelo di Luca conosce (10, 1-16) anche una missione di 70 (72) discepoli; l’orazione di Gesù diretta qui ai “settanta”, è in Mt. invece diretta ai “dodici” come risulta d’altronde da Lc stesso nella sua ricapitolazione (22, 35). La posizione dei 70 (o 72) discepoli non è chiara; i loro nomi non sono dati; Eusebio, Hist. Eccl., I, 12, 1, dice che il loro catalogo non si è conservato. In ogni modo, il nome apostolo non è concesso loro da Lc, benché si potesse pensare che i settanta corrispondessero ai 70 (72) popoli del mondo (Gen 10) e che in loro la propaganda fra i Gentili fosse predisposta. I “settanta” vanno, come i “dodici”, agli Ebrei, e secondo Lc 22, 47 (cf. At 1, 8) la missione fra i Gentili è affidata ai “dodici” e non ai “settanta”. Più tardi Tertulliano, Adv. Marc., IV, 24 (ed. E. Kroymann, III, Vienna-Lipsia 1906, p. 499, r. 23), li chiama “apostoli” mentre è incerto se anche Ireneo, II, 32, 4, li abbia messi fra gli apostoli.
Il termine apostolo è dunque connesso coi “dodici”, senza però che i due concetti coincidano completamente. L’espressione apostolo è più formale, mentre il concetto dei “dodici” è ricco di evocazioni.
Una nuova fase nella storia dell’apostolato comincia con la risurrezione di Gesù. Gli apostoli diventano testimoni della risurrezione di Cristo (Lc 24, 49 e 46; 1Cor 15, 8 sg.), ma non tutti i testimoni della risurrezione diventano apostoli, né i 500 fratelli, né le donne. Ciò è chiara prova del fatto che il termine apostolo esisteva anteriormente alla risurrezione di Cristo (rimane dubbio se Giacomo, fratello di Gesù, fu collocato fra gli apostoli). L’apostolo, che era una volta un nunzio fra gli Ebrei, diventa ora il missionario del mondo; la potestà sui demoni, la possibilità di sanare gli ammalati si estende su tutto l’abitato umano (sono i «miracoli dell’apostolo»: 2Cor 12, 12) insieme con la predicazione.
L’obbligo di rendere conto del lavoro apostolico (Mc 6, 30; Lc 9, 10; 10, 17) viene ora fissato per la seconda venuta di Cristo (1Cor 4, 4; Fil 1,6.10 sg.). Con l’ascensione di Gesù gli apostoli diventano anche i vicari di Cristo in un senso più concreto di prima (Lc 10, 16; Mt. 10, 40; Gv 13, 20; 17, 18; 1Clem., cap. 42, ecc). Perciò istituiscono i diaconi (At 6, 1-6) ed i presbiteri (At 14, 23; cf. 15, 4.6.22 sg., ecc). L’apostolo aduna accanto a sé i suoi presbiteri o vescovi (At 20, 17.28). Alcuni protestanti riconoscono che gli apostoli sono la fonte della gerarchia della Chiesa; ad es. W. Mundle, in Zeitschrift für neutestamentl. Wissenschaft, 27 (1928), p. 41, parla di «successione apostolica», mentre altri (ad es. K. H. Rengstorf) la tacciono.
Luca, che pure è discepolo di Paolo, il quale non faceva parte dei “dodici”, insiste molto sull’attività di questi negli Atti degli Apostoli: sono «i dodici» che controllano da Gerusalemme la missione cristiana. Pietro e Giovanni ispezionano la missione in Samaria (8, 14 sg.); il movimento in Antiochia viene controllato da Barnaba, che viene da Gerusalemme (11, 22). Pietro (11, 1 sg.; 12, 17 e 15, 22) e anche Paolo (9, 26 sg.; 11, 30; 15, 1 sg.; 18, 22; 21, 15 sg.) ritornano sempre a Gerusalemme. Questo non vuol dire che il “collegio” dei “dodici” risieda sempre a Gerusalemme, come vorrebbe K. Holl. Pietro e Giovanni svolgono la loro attività anche fuori di Gerusalemme (8, 14; 9, 32 sg.; 10, 1 sg.; 12, 17); Paolo (1Cor 9, 5) conosce l’attività missionaria non solo di Pietro e degli altri apostoli, ma anche dei «fratelli del Signore».
Il numero dei “dodici” non era considerato indispensabile: dopo la morte di Giacomo, fratello di Giovanni (At 12, 1), non fu eletto al suo posto nessun altro apostolo. La posizione di Giacomo «fratello del Signore» non è chiara per noi. Sembra che fosse a Gerusalemme tra gli apostoli (Gal 1, 19). E. Lohmeyer (Galilaea und Jerusalem, Gottinga 1936) ritiene che fosse il capo di quei giudeo-cristiani che si erano recati dalla Galilea, prima o dopo la morte di Gesù, a Gerusalemme. K. Holl, nella sua famosa prolusione Der Kirchenbegriff des Paulus in seinem Verhältnis zu dem der Urgemeinde (Sitzungsberichte d. Berliner Akademie, 1921, p. 920 sg.; Gesammelte Aufsätze zur Kirchengeschichte, II: Der Osten, Tubinga 1928, p. 44 sg.) ha mantenuto la tesi che la comunità di Gerusalemme aveva, sotto il regime dei “dodici”, una gerarchia di diritto divino (p. 54) e che Gerusalemme era considerata centro della Chiesa intera (p. 55 sg.; cf. p. 61 sg.). La sua tesi è assai oppugnata (anche da K. H. Rengstorf e W. Mundle), ed è insostenibile dal punto di vista cattolico. Forse il giudeo-cristianesimo in Palestina dopo la morte di Gesù si organizzò, imitando alcune forme del vecchio giudaismo (Sinedrio, emissari nella diaspora, imposte); ma il concetto evangelico dell’apostolato trascendeva questa organizzazione.
L’apostolato creato da Gesù era universale,e mediante la successione apostolica, perpetuo; nel campo della dottrina trasmetteva la dottrina del Maestro, dopo l’ascensione di Cristo, provvedeva al governo dei fedeli con prescrizioni nel campo disciplinare e dogmatico (At 15). Accanto a quello dei “dodici” l’apostolato di s. Paolo appare diverso; Epifanio (Haer., I, ed. Holl, p. 10 sg.) mette Paolo fuori dei “dodici” e fuori dei “settanta”. In Galazia il suo diritto di nominarsi apostolo fu messo in dubbio, probabilmente perché la comunità cristiana di Antiochia l’aveva mandato (At 13, 1 sg.). Paolo replicò sottolineando che non era apostolo per iniziativa di uomini, ma per Gesù Cristo e Dio Padre, che l’ha risuscitato dai morti (Gal 1, 1).
Esser mandato da Cristo era elemento fondamentale nel concetto dell’apostolato; aggiungendo «e Dio Padre», Paolo dà al suo apostolato un colore speciale. Non può pretendere di essere stato con Gesù, durante la sua vita terrestre, come è richiesto per l’apostolo in At 1, 21 sg. (cf. Mc 3, 14), ma può affermare di aver visto Gesù (1Cor 9, 1) e di essere come gli altri testimone della sua risurrezione (1Cor. 15, 5-8). Paolo non è stato istruito da altri uomini, ma da Cristo stesso (Gal 1, 13); né parla di Anania che l’aveva battezzato (At 9, 18; 22, 16), né gli Atti parlano di una istruzione da parte di Anania. I miracoli degli apostoli. non gli mancano (Gal 3, 5; 2Cor 12, 12; Rm 15, 18), né le privazioni e le sofferenze apostoliche (2Cor 6, 3 sg.; 11, 23 sgg.), né le visioni e rivelazioni (2Cor 12, 1 sg.). Paolo è dunque un apostolo come gli altri. Lui e Barnaba sono stati dai Tre, cioè GiaComo, Cefa e Giovanni, riconosciuti nel loro diritto di andare verso i Gentili (Gal 2, 9), ma il testo non dice direttamente che furono riconosciuti come apostoli, o meglio, in che senso fu interpretato il loro apostolato.
La denominazione apostolo fu aggiunta da Gesù al concetto dei “dodici”. Gesù, parlando aramaico, si è certamente servito di una parola aramaica. Nella Chiesa siriaca l’apostolo viene denominato shelichah, parola corrispondente nella letteratura rabbinica a shaliach (K.H. Rengstorf, p. 414), in aramaico shelichah (cf. s. Girolamo, In Gal. 1, 1: PL 26, 335). I rabbini mandati dalla centrale di Gerusalemme per raccogliere elemosine o per visitare la diaspora ricevono la denominazione di sheluchim. Un tale emissario (shaliach) era anche Paolo, quando fu mandato a Damasco (At 9, 1 sg.); ma il missionario giudaico non porta mai questo nome (Rengstorf, p. 418 sg.). In questo vecchio senso anche gli «apostoli delle chiese» che portano l’elemosina per i santi a Gerusalemme (2Cor 8, 23), o Epafrodito che viene come «apostolo» dei Filippesi a Paolo sono sheluchim. Difficile è Rm 16, 7 il titolo «apostolo» dato ad Andronico e Giunia. Se la parola “apostolo” in senso religioso era connessa coi “dodici”, come possono questi due sconosciuti dirsi “missionari” cristiani? (Rengstorf, p. 422, 33 sg.; H. Lietzmann, An die Römer, IV ed., Tubinga 1933, p. 24). Sembra che anche qui ricorra il senso giudaico di sheluchim, “emissari”, come per i due (Timoteo ed Erasto) in At 19, 22.
L’affermazione, che “apostolo” sia stato un nome per designare il “missionario” (così A. Wikenhauser, in Reallexicon für Antike und Christentum, I, Lipsia 1942, p. 554) non sembra fondata. La parola “apostolo” come traduzione di shaliach, “emissario”, si trova anche in testi giudaici (da Wikenhauser ciò è a torto negato, loc. cit., p. 555): cf. CIL, IX, 648, 6220 (J. Frey, Corpus inscriptionum judaicarum, I, Roma 1936, p. 438 sg., n. 611 [Venosa]). L’iscrizione parla di duo apostuli et duo rebbites. Il Codice Teodosiano menziona in una legge del 399 (in XVI, 8, 14) funzionari, quos ipsi apostolos vocant, qui ad exigendum aurum atque argentum a patriarcha certo tempore diriguntur. Eusebio, Comm. in Is., 18, 1 (PG 24, 13 sg.), conosce apostoli giudaici che portano lettere encicliche delle loro autorità, anche per combattere la missione cristiana. La notizia di Eusebio è confermata da Epifanio (Haer., 30, 4, 2), che li mette in stretti rapporto col patriarca giudaico (cf. s. Girolamo, In Gal., 1,1: PL 26, 335). J.B. Frey trova difficile ammettere tale interpretazione per l’iscrizione di Venosa, ma non pare plausibile il suo scetticismo (la data: IX sec., di Lietzmann, non pare fondata).
2. Cataloghi degli apostoli
In Mt 10, 2-4; Mc 3, 14-19; Lc 6, 14-16 e At 1,13 si trova l’elenco dei nomi dei dodici apostoli. Questo catalogo di nomi è diviso in 3 gruppi, dei quali il primo è capeggiato da Pietro, il secondo da Filippo e il terzo da Giacomo d’Alfeo. Il catalogo degli apostoli rappresenta una vecchia tradizione orale, anteriore ai vangeli scritti, e da Marco fu appena leggermente inquadrato nel racconto storico (cf. M. Dibelius, Formgeschichte des Evangeliums, II ed., Tubinga 1933, p. 227).
Può darsi che i tre nomi che iniziano i tre gruppi dovessero indicare tre fonti della tradizione orale. In questo caso Giacomo d’Alfeo rappresenterebbe la tradizione di Maria, sua madre (Mc 15, 40; 16, 1; Mt 27, 56; Lc 24, 10), come testimone della risurrezione di Cristo. Nei diversi cataloghi i nomi degli Apostoli sono quasi sempre uguali. Solo Simone Cananeo (Mt 10, 4; Mc 3, 18) ha presso Lc 6, 15 il nome “Simone detto Zelota”, cioè il suo sopranome aramaico: “Cananeo” è stato tradotto in greco, mentre per il nome di Taddeo (Mt 10, 3; Mc 3, 18) si trova anche quello di Lebbeo, ma Lc 6, 16 (= At 1, 13) conosce per Taddeo il nome: Giuda di Giacomo.
Oltre a questo più antico catalogo degli apostoli nei Vangeli canonici, esiste ancora un interessante catalogo nell’apocrifo Ordinamento ecclesiastico apostolico (prologo). La lista comprende i nomi di: Giovanni, Matteo, Pietro, Andrea, Filippo, Simone, Giacomo, Natanaele, Tommaso, Cefa, Baryolomeo e Giuda di Giacomo (cf. A. Harnack, Die Lehre der zwölf Apostel, Lipsia 1884, p. 225). Simile è la lista nella cosiddetta Epistula Apostolorum, cap. 2: Giovanni, Tommaso, Pietro, Andrea, Giacomo, Filippo, Bartolomeo, Natanaele, Giuda Zelota, Cefa.
Caratteristiche di questi due cataloghi sono: il fatto che Giovanni sta a capo della lista; la presenza di Natanaele; la distinzione fra Pietro e Cefa. Si è cercata l’origine dell’elenco fornito da questi due scritti nel Vangelo secondo gli Egiziani (A. Baumstark, Alte und neue Spuren eines ausserkanon Evangeliums, in Zeitschrift für neutestamentl. Wissenschaft, 14 [1913], p. 232 sg.; cf. F. Hasse, ibid., 16 [1915], p. 106). Giovanni come capo dl catalogo degli apostoli si oppone probabilmente a un catalogo degli Ebioniti, con Matteo al vertice (Epifanio, Haer., XXX, 13, 3 e Ps.-Clemente, Recogn., I, 55 sgg.); cioè alla lista di Giudeo-cristiani che preferivano il Vangelo di Matteo fu opposto un elenco di nomi degli Apostoli basato sulla preferenza che fu data in Egitto al Vangelo di Giovanni. Ma questi cataloghi degli Ebioniti in Palestina e degli Egiziani si basano sull’esistenza di un Vangelo scritto, mentre il catalogo più anziano dei Vangeli canonici presuppone l’esistenza di una tradizione orale. Un catalogo degli Apostoli che ha caratteristiche tutte speciali, è infine quello inserito nel Canone della Messa [di rito Romano].
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