Il 20 luglio, secondo il Calendario Romano, si festeggia la memoria del profeta Elia, singolarissima figura di confine tra le fedi “abramitiche”.
Un profeta che nacque, ma non morì: i Libri dei Re, infatti, dopo averne narrate le gesta, ne registrano l’ascensione al cielo su di un carro di fuoco (2Re 2,11-12). E dal cielo presso il quale Elia ascese, se ne cominciò ben presto ad attendere il ritorno.
Come accadde con Enoc e Melkisedek, anche la figura “super-umana” di Elia venne investita di qualità “messianiche”: «un’aggiunta posta in fine al Libro di Malachia (3,23-24) e di data imprecisabile – spiega Paolo Sacchi – diceva che un giorno Elia sarebbe ritornato sulla terra per fare opera di pacificazione in Israele e di invito alla conversione prima del Giorno Grande di YHWH» (Storia del Secondo Tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., Torino 2002, p. 365), prima cioè del Giudizio finale.
L’attesa di Elia è documentata anche all’epoca di Gesù, come dimostrano i numerosi accenni nei testi che entrano a far parte del Nuovo Testamento, ove il profeta è sovente affiancato al personaggio di Giovanni Battista (cf. Mt 11,14; 16,4; 17,10-12; Mc 6,15; 8,28; 9,11; 15,36; Lc 1,17; 9,8.19; Gv 1,21.25).
Nell’enorme fioritura di leggende intorno al suo conto, Elia si muove sempre fra due estremi: quello della sua predicazione infuocata e dello “zelo per il Signore”, dimostrati con la sfida e il massacro dei profeti di Baal sul monte Carmelo (1Re 18,20-40), e quello della sua attività “nascosta” in seguito all’ascensione.
Il rituale ebraico (seder) durante la cena di Pasqua (Pesach) prescrive che si lasci libero un posto per Elia, con un calice riempito di vino: ad indicare l’accostamento fra due “redenzioni”, la prima, simboleggiata da Mosè (liberazione degli Ebrei dall’Egitto, commemorata appunto nella Pasqua), e l’ultima (quella finale), simboleggiata appunto da Elia. Nell’immaginario popolare ebraico Elia diventa un povero forestiero errante, sofferente con i sofferenti ed elargitore di benefici, il cui nome è invocato nelle discussioni rabbiniche ogni qual volta una questione risulti insolubile: «nel Talmud – scrive Paolo De Benedetti – ricorre talvolta la parola aramaica tequ, che significa “sospeso”, ossia che indica la rinuncia a trovare una soluzione definitiva, come a dire che il problema rimane sospeso. Però la letteratura omiletica la considera un acrostico di una frase che tradotta in italiano suona così: “Verrà il profeta Elia [il Tisbita Elia] e risolverà le difficoltà”, ossia i tempi messianici sono l’epoca delle conclusioni» (P. De Benedetti, Ciò che tarda avverrà, Bose 1992, p. 19).
Elia ha un posto di rilievo anche nelle tradizioni islamiche, ov’è venerato come al-Khidr o al-Kadir, “il Verde”, simbolo di fecondità spirituale. Questo già a partire dal Corano: il profeta compare infatti nella sura 17 (65-82) con un ruolo davvero interessante, come “sapiente nascosto” (non viene nemmeno nominato: l’identificazione è tradizionale), dispensatore di enigmi e di prove che Mosè non riesce a superare (sull’argomento, vd. A. Augustinovic, “El-Khader” e il profeta Elia, Gerusalemme 1971).
Nella tradizione cristiana, infine, il nome di Elia viene costantemente associato all’esperienza ascetica e mistica. Gli stessi Padri della Chiesa, fin dall’antichità, interpretano in senso eucaristico gli episodi dell’incontro con la vedova di Sarepta (1Re 17) e della visita sul monte Oreb da parte di un angelo, che offre al profeta sconsolato e desideroso di morire una «focaccia cotta su pietre infuocate e una brocca d’acqua» (1Re 19,1-8), mentre sotto la protezione di Elia, segno “profetico” di pacificazione e di ascesi, si pone l’Ordine Carmelitano, o per meglio dire della Beata Vergine del monte Carmelo (che sarebbe stata misticamente intravista da Elia: 1Re 18,41).
Agli inizi del V secolo, Agostino congiungerà con certezza il ritorno di Elia, «poiché si crede fondatamente che egli sia ancora vivo» (Civ. Dei, XX, 29), alla conversione a Cristo degli Ebrei, un evento atteso dai cristiani per i tempi ultimi.
(Luigi Walt)