Già e non ancora: Paolo e la vita monastica

A Fonte Avellana, alle pendici del Monte Catria, nelle Marche, c’è il monastero camaldolese che da mille anni si alimenta, nel solco della tradizione benedettina, della spiritualità monastica di san Romualdo e di san Pier Damiano. Qui Luigi Codemo incontrato Alessandro Barban, monaco camaldolese e priore del monastero di Fonte Avellana.

A Fonte Avellana, alle pendici del Monte Catria, nelle Marche, c’è il monastero camaldolese che da mille anni si alimenta, nel solco della tradizione benedettina, della spiritualità monastica di san Romualdo e di san Pier Damiano. Qui abbiamo incontrato Alessandro Barban, monaco camaldolese e priore del monastero di Fonte Avellana: è stata l’occasione per conversare di San Paolo e di vita monastica.

Priore, in che modo la figura e il pensiero di Paolo sono presenti nella spiritualità e nella tradizione di Fonte Avellana?

«Non c’è un legame diretto tra san Paolo e la tradizione avellanita, poi camaldolese. Anche se, certamente, san Pier Damiano conosceva molto bene le lettere di Paolo e nei suoi scritti le citazioni sono numerose. Se c’è un elemento comune tra san Paolo, la storia di Fonte Avellana e la spiritualità di san Pier Damiano, questo sta nella centralità della Croce. Paolo ha un forte richiamo nelle sue lettere alla risurrezione di Cristo, ma a una risurrezione congiunta a tutto il mistero della Croce. Nella lettera ai Corinzi scrive: “Noi predichiamo Cristo crocifisso” (1Cor 1,23).

Paolo ha colto molto bene questo elemento di dono e di oblatività, di consegna da parte di Cristo, congiunto al mistero della Pasqua e della Risurrezione. E la Croce svolge un ruolo particolare con il monastero di Fonte Avellana, perché monastero dedicato alla Santa Croce; abbiamo anche una reliquia molto importante e molto antica, che proviene addirittura da Costantinopoli, e abbiamo pure una croce bellissima in chiesa. La croce segna nella vita del cristiano l’elemento dell’oblatività, della consegna a un amore più grande. Ora questo connota la vita di tutti i cristiani, ma deve connotare in modo più precipuo la vita monastica, in particolare a Fonte Avellana».

Qual è il significato dello stemma dei Camaldolesi, due colombe che si abbeverano allo stesso calice sovrastato da un stella?

«Lo stemma dei camaldolesi ha al centro il calice, che rappresenta l’Eucaristia e richiama la Pasqua. Ai lati ci sono due colombe bianche: è un richiamo ai monaci camaldolesi che, infatti, sono vestiti di bianco. Però questa raffigurazione ha avuto un suo sviluppo: anticamente c’erano i pavoni, perché il pavone nel mondo antico era segno dell’animale immortale. Significava che chi intraprende la vita monastica e beve al calice diventa immortale, nel senso che partecipa della vita eterna. Poi lo stemma ha avuto uno sviluppo e si è preferito un animale più evangelico, che Gesù cita esplicitamente e che troviamo nel vangelo: “Siate semplici come colombe” (Mt 10,16). Sopra c’è la stella di Giacobbe, in riferimento all’Antico Testamento: la stella rimanda alla profezia di Balaam, che vide la stella. Potrebbe anche essere la stella che hanno visto i Magi… C’è quindi l’Antico Testamento e il Nuovo Testamento: una vita che comincia nell’Antico e che continua nel Nuovo, e le due colombe, che indicano i camaldolesi, i quali continuano ad abbeverarsi a questa fonte».

Il bianco delle colombe ricorda anche la veste bianca della risurrezione.

«Il bianco ha avuto inizio a Camaldoli. Qui a Fonte Avellana, inizialmente, erano vestiti di nero. Il colore bianco deriva dalla stoffa dei contadini e dei pastori che non era tinta: era lana bianca. Così questo colore è entrato nella tradizione».

La spiritualità camaldolese coniuga la dimensione comunitaria e quella solitaria, eremo e monastero, “due colombe a un solo calice”. In Paolo, nella lettera ai Corinzi (1Cor 7,25), troviamo ad esempio una dialettica fra singolo e comunità. L’apostolo propone se stesso come esempio, e consiglia la solitudine per predicare meglio, come esigenza funzionale: solo perché libero da vincoli, per essere interamente votato all’evangelizzazione, per non essere “diviso”. Ora, anche il Monaco è monos, senza divisione. Ma cosa significa essere “senza divisioni” nella vita monastica?

«San Romualdo [nel ritratto di Giotto, qui a fianco] ha fatto una sintesi del cammino monastico che era già avvenuto nel primo millennio. Il monachesimo nasce come esperienza eremitica, nel deserto d’Egitto ma anche in Palestina, Siria… Poi, intorno all’esperienza di un abbà, di un padre, si aggiungono progressivamente dei discepoli. Ed è allora che pian piano l’eremo si struttura, si organizza come un gruppo di monaci che vive in case separate ma vicine.

Nasce la laura, nasce questa forma eremitica che non è da confondere con l’anacoretismo. Perché l’anacoreta vive da solo e rimane da solo: tutta la sua esperienza si basa su questa pienezza di solitudine. L’eremitismo, invece, comporta anche dei momenti comunitari. Noi sappiamo che nel monachesimo antico questi eremiti si riunivano per pregare, per la sinassi della Parola e, quando c’era la possibilità, per la celebrazione dell’Eucaristia. Però poi vivevano gran parte del loro tempo in solitudine, anche se comunque vicini l’uno all’altro.

Romualdo recepisce questa idea della laura palestinese e egiziana, affascinato da questa modalità di vivere, e quindi la propone. In quel tempo, in Italia, l’unica forma monastica era il cenobio, cioè la vita comunitaria. C’erano dei monaci che con l’autorizzazione dell’abate potevano vivere da eremita, un po’ distanti dal cenobio, ma non c’era l’eremo. Chi invece sale a Camaldoli, che è l’ultima fondazione di Romualdo, vede che a 800 metri sul livello del mare c’è il monastero, e a 1000 metri sul livello del mare c’è l’eremo: ed è un’unica comunità. Questa è una cosa importante nella tradizione camaldolese: monastero ed eremo stanno assieme.

Quando a fine Ottocento viene scoperta La vita dei cinque fratelli, scritta da Bruno Bonifacio, emerge in modo inedito quasi una nuova geografia, segnata da questi cinque discepoli di Romualdo che si recano ad evangelizzare la Polonia in seguito a un invito di Ottone III, e subiscono il martirio. Nel documento di Bruno Bonifacio, che racconta la loro storia, si scopre che con San Romualdo entra nella tradizione monastica anche l’evangelium paganorum. Si scopre cioè che non ci sono solo la vita monastica cenobitica e la vita monastica eremitica, questi due principi vissuti dai camaldolesi, ma c’è anche un terzo polo, un terzo momento che oggi potremmo tradurre con “evangelizzazione missionaria”. Ora, non è che il monaco (il monaco camaldolese, quantomeno) vada a fare il missionario, o crei una missione tout court: va piuttosto a portare la Parola là dove non è conosciuta, là dove il cristianesimo non è in qualche modo conosciuto e apprezzato. Non andiamo a fare i missionari, andiamo a fare i monaci: perciò portiamo la preghiera, la lectio divina; portiamo un’esperienza di Dio in terre lontane, attraverso e nell’esperienza monastica. Nella tradizione monastica camaldolese c’è anche la reclusione: le nostre costituzioni riconoscono anche la possibilità di chiudersi in cella, e di fare il recluso.

Questo è un punto molto interessante nella nostra storia, perché Romualdo cade in questo crocevia della vita monastica fra primo e secondo millennio, facendo sintesi di tante tradizioni: eremitica, cenobitica, reclusione, addirittura la tradizione dell’evangelizzazione. È un crocevia ancora tutto da studiare: nella nostra tradizione ormai millenaria, abbiamo avuto un po’ tutte queste manifestazioni. A Camaldoli: monastero e eremo. Fonte Avellana parte come un eremo, e viene poi cambiato in monastero da un punto di vista architettonico: è costruito in modo molto particolare. Poi abbiamo avuto la tradizione dei reclusi. Abbiamo avuto anche, dall’Ottocento, la possibilità di portare il Vangelo in terre lontane. La nostra congregazione è diffusa in Brasile, in Africa, in India…»

Sempre nello stesso passaggio della Lettera ai Corinzi che citavamo poc’anzi, Paolo parla di “una svolta nel tempo”: con l’incarnazione, la morte e la risurrezione di Cristo, il tempo è come “abbreviato”. Qual è il rapporto del monaco col tempo? La vita monastica è da sempre stata presentata come anticipo dell’eschaton: ma cosa significa nella vita monastica anticipare l’eschaton?

«Nella vita monastica, importante è il passato: come ci insegna la Scrittura, il passato è vedere le opere di Dio, cosa ha fatto Dio.

Importante è pure il presente, perché è il kairos. Importante per comprendere cosa Dio sta facendo ora, in questo presente, per comprendere i segni dei tempi. Gesù lo dice: se vedete salire le nubi da ponente, sapete che verrà la pioggia e quando soffia lo scirocco sapete che farà caldo, ma come mai non sapete giudicare questo tempo, il suo valore, il suo senso profondo (cf. Lc 12,54-56)?

Nella vita monastica, infine, importante è il futuro. Noi preferiamo parlare di avvenire, di adventus. Al monaco, possiamo dire in modo profetico, interessa soprattutto l’avvenire, l’avvenire di Dio. L’eschaton non è la conclusione del tempo, ma è la pienezza del tempo. Quindi anche oggi c’è una pienezza del tempo. Oggi è anche l’ultimo giorno. Ma Dio è buono, Dio è misericordioso, e ci dà altro tempo. C’è un avvenire, un ad-venire, un venire incontro che è Dio stesso, ed è la Vita che ci viene incontro. Questo è centrale per un monaco. Allora bisogna preparare lo sguardo in avanti.

Quando San Benedetto muore, racconta san Gregorio Magno nella Vita di san Benedetto, vede in una luce bellissima tutto il mondo. Ma cosa ha visto? L’eschaton! Vale a dire che non ha visto il futuro con i fatti, gli accadimenti, le cose che potevano succedere; ma ha visto il senso ultimo di tutte le cose. Questo è l’eschaton. E per noi l’eschaton è il Regno di Dio.

Nel pensiero paolino c’è un aspetto molto importante: il già e il non ancora, come a dire: siamo qua, ma non siamo ancora là, e quindi dobbiamo camminare, c’è una parte che ci attende. E per Paolo questo significa costruire delle comunità, costruire delle fraternità, costruire la Chiesa. Tutti i carismi per Paolo devono essere utilizzati in funzione della costruzione della Chiesa. E per Paolo la Chiesa è così importante perché è il corpo di Cristo. Paolo scrive: “Voi siete il tempio dello Spirito santo” (1Cor 6,19). Questa è la preparazione dell’eschaton: quando Dio sarà tutto in tutti.

Questa è una delle intuizioni più grandi di Paolo. L’idea è passata dentro il monachesimo, e credo che ancora oggi sia molto viva. Ma non come fuga in avanti. Non in senso apocalittico, sperando che il mondo finisca presto. Ma come avvenire di Dio, come dono che ci viene da Dio. Ecco, questo è il compimento del tempo: eschaton come senso pieno del disegno di Dio, che noi non abbiamo ancora visto del tutto. Io credo che questo consista nell’affratellamento di tutti i popoli. Nella pace. La Gerusalemme celeste che scende. Le immagini sono tantissime nella sacra Scrittura. Il monaco è proteso in questo avanti, ma non per saltare l’oggi. Noi dobbiamo rispondere alla storia, dobbiamo stare uniti con i nostri fratelli e le nostre sorelle, qui e adesso. Ma c’è questo “non ancora” che ci interpella e ci chiama. Questa è la grande sfida della vita monastica».

C’è il rischio, nella cultura novecentesca in particolare, di affermare il ruolo dell’avvenire per inglobare fino ad esautorare ed eliminare l’eterno.

«Nella cultura del Novecento c’è stata la grande filosofia della speranza di Ernst Bloch, che poi è diventata la teologia della speranza di Jürgen Moltmann. Poi c’è stata l’etica della responsabilità: che futuro lasciamo agli altri se noi consumiamo, divoriamo, roviniamo tutto? Mi pare che nel Novecento le filosofie e le sociologie parlino del futuro prevedendolo pieno di progresso e di sviluppo. Vorrei dire che mentre la Bibbia parla di fede in fede, il Novecento parla di progresso in progresso. Come se fosse una capacità solo dell’umano di costruire il proprio mondo.

Questa linea non è da combattere: occorre metterne in rilievo le insufficienze. Perché l’uomo deve fare la sua parte, deve costruire il suo mondo, ed ecco l’etica della responsabilità e della giustizia. Ora ci si rende conto che non si può fare la pace, che è diventata un progetto politico, senza la giustizia. Ma non c’è solo il piano dell’immanenza: c’è anche la trascendenza. E quindi c’è l’eschaton, il dono di Dio, il regno di Dio che viene incontro. Lo dice bene il Salmo: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori” (Sal 126, 1).

Il monaco allora vorrebbe ricordare alla Chiesa, agli uomini di oggi, alla società, alle economie che c’è “Qualcun’altro” che non possiamo eliminare. Trent’anni fa si parlava della morte di Dio. Oggi rischiamo di parlare della morte dell’uomo. Ma senza Dio, l’uomo rischia l’autodistruzione: c’è una correlazione profondissima tra l’uomo e Dio, tra Dio e l’uomo. Il monaco, ricordando l’eschaton, il compimento del tempo, del disegno di Dio, dell’adventus Dei, tiene viva questa correlazione stringente tra il divino e l’umano».

Paolo avvertiva quasi fisicamente le lacerazioni ecclesiali. Pregava e lavorava per l’unità nella Chiesa. Oggi, la grande lacerazione nella Chiesa è la frattura Oriente-Occidente. Dati i rapporti storici profondi che vi legano al mondo dell’Oriente cristiano, in che modo voi lavorate per la ricomposizione?

«Noi abbiamo creduto molto nell’ecumenismo post-conciliare. Poi ci sono stati alti e bassi. I camaldolesi hanno perseguito soprattutto il dialogo ebraico-cristiano. Siamo stati i primi a fare incontri a Camaldoli tra mondo ebraico e cristiani.

Comunque il discorso ecumenico, oggi, è molto complesso, perché va dai nostri fratelli ebrei e musulmani fino al buddismo, all’induismo, alle regioni orientali, che sono molto diverse tra loro. L’ecumenismo è una cosa molto molto seria e complessa. Ma prima di parlare di ecumenismo interreligioso, dobbiamo parlare di ecumenismo cristiano, di chiese cristiane. E qui Paolo ha ragione, perché già lui vedeva in qualche modo le divisioni, nella Chiesa di Corinto, tra le chiese. Insisteva molto su questa idea del Corpo di Cristo, come quando scrive: “Se il piede dicesse: Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo, non per questo non farebbe più parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo, non per questo non farebbe più parte del corpo” (1Cor 12, 15-16). È il discorso sulla correlazione dei vari doni: Paolo pensa i carismi in funzione della vita della Chiesa, per farla nascere, per organizzarla e per tenerla in vita. Non li pensa in termini autoreferenziali. Quindi c’è una responsabilità enorme da parte di tutti i ministeri.

Dovremmo riprendere seriamente il dialogo tra le chiese cristiane. Dopo il 1989, con la caduta del muro di Berlino, è certamente più facile dialogare con la chiese dell’Est, ma il cammino è ancora lungo: perché ormai le tradizioni e le organizzazioni ecclesiali si sono connotate in un modo tale che ognuno non ha più il coraggio di lasciare qualcosa. Per ricreare la comunione noi dobbiamo unirci, ma in questa unione occorre perdere qualcosa della nostra tradizione e della nostra organizzazione. E nessuna chiesa mi pare che in questo frangente abbia il coraggio di fare passi di questo genere. Ecco, allora, perché parliamo di ecumenismo spirituale: creiamo quel clima spirituale di accoglienza, di ospitalità, di fraternità. Che è importante, molto importante: però noi sappiamo, se siamo realisti, che non è sufficiente. Perché in questo modo ogni chiesa sarà solo una accanto all’altra, con tutti i problemi che conseguono come il non avere accesso alla mensa eucaristica… i problemi sono tanti.

Basti pensare a quello che sta succedendo nella Chiesa anglicana. Dove si stanno dividendo tra chi vuole e chi non vuole accettare l’episcopato femminile dopo che si sono ammesso le donne al servizio presbiterale. Sono problemi nuovi, che non aiutano. Allora io, come monaco, darei solo un consiglio: non facciamo scelte, dentro le nostre rispettive chiese, che non aiutano l’ecumenismo. Se facciamo scelte troppo avanguardistiche, troppo originali, che non aiutano la comunione, allora è meglio non farle. Perché altrimenti la nostra disunione aumenterà, e ci avvicineremo solo nelle grandi occasioni, nei grandi incontri, senza avvicinarci di fatto. Mentre con le comunità greco-ortodosse, luterane, cattoliche che vivono insieme, in territori che sono vicini, noi stiamo assistendo anche a una reciproca stima e conoscenza.

Nei secoli passati c’è stata indifferenza, se non contrapposizione. Ma oggi vediamo che in termini di missione c’è collaborazione, c’è aiuto. Si può guardare con speranza all’ecumenismo. Alcuni dicono sia morto. Io non lo credo. Siamo in una fase di ristagno, ma credo che lo Spirito santo ci darà nuova energia per ripensare nuove strade di accordo e di incontro.

Ci sarà un’unica Chiesa che riunirà tutte le chiese? Non credo. Come dice Jean Marie Tillard, sarà una Chiesa di chiese, una Chiesa plurale, com’era all’inizio, con i cinque grandi patriarcati: Roma, Costantinopoli, Gerusalemme, Alessandria, Antiochia. Quindi dovremo pensare a una Chiesa plurale. Più grande, fatta di tradizioni, teologie e liturgie differenti. Nell’accoglienza reciproca. È un cammino che durerà molto.

Oltre al dialogo interreligioso, importante perché nelle nostre città siamo a contatto persone di ogni provenienza, ritengo necessaria anche una conoscenza profonda della nostra tradizione di fede, e delle tradizioni altrui: ma non dobbiamo permettere che il dialogo interreligioso scavalchi il dialogo interno alle chiese cristiane. D’altronde, se non realizzeremo questo, con quale forza di testimonianza potremo rivolgerci alle altre fedi universali?»

C’è una lettera di Paolo alla quale è particolarmente affezionato, e che vorrebbe consigliare ai nostri amici lettori?

«Direi la Lettera ai Romani, che è il capolavoro teologico di Paolo. Paolo non pensava fosse la sua ultima lettera, ma qui ha posto la sintesi di tutto il suo pensiero teologico. Durante l’anno paolino bisogna avere il coraggio di leggere questa lettera, di meditarla, di conoscerla e farla conoscere. Impegnativa quanto profonda. A leggerla, il nostro essere cristiani ne guadagna in qualità.

Paolo parla ancora oggi. Le sue lettere sono state scritte duemila anni fa, ma sono vive. Non solo perché ispirate dallo Spirito santo, ma perché ancora oggi lo Spirito santo parla attraverso questi testi. E quindi dovremmo ascoltarli, meditarli, farli nostri».

(Domande a cura di Luigi Codemo)

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