Trascriviamo (e sottoscriviamo) l’ultima parte di un articolo di Guido Vitiello apparso ne “Il Foglio” (grazie a una segnalazione di Angelo Bottone, via Il blog dell’Uomo Vivo).
[Marshall McLuhan] Era il tipo antropologico del cattolico ridens, del tomista allegro, tutto umorismo, sprezzatura cavalleresca e meraviglia per le cose di questo mondo. Insomma, la risposta vivente a un’osservazione crucciata di Nietzsche, che si chiedeva come mai i cristiani non avessero “un aspetto più da gente salvata”. Fu probabilmente la letizia di McLuhan, così diversa dalle facce lunghe e dai labbrucci atteggiati a disgusto di certe prefiche marxiste, a farlo apparire come un ottimista un po’ gonzo o come il tipico nordamericano che va in solluchero per i nuovi giocattoloni tecnologici. Specie agli occhi di quelli che, nella distinzione di Arbasino, avevano fatto il Sessantotto.
Guy Debord, l’autore di quella Société du spectacle che è diventata uno dei vangeli minori dell’intelligenza di sinistra, trattava McLuhan come lo scemo del villaggio globale, il “primo apologeta dello spettacolo, che sembrava l’imbecille più convinto del suo secolo”; Enzensberger, che lo lesse e non ci capì un tubo, lo liquidò in un saggetto poliziesco: era il ventriloquo e profeta dell’avanguardia apolitica, un imbonitore da fiera incapace di qualsiasi teorizzazione, e la formula “il medium è il messaggio” significava che la borghesia “non ha più nulla da dire” (sic). Umberto Eco, disponendo nella sua valle di Giosafat i pupazzetti degli apocalittici e degli integrati, i profeti di sventura e gli apologeti della società dei consumi, elesse McLuhan a modello dell’iperintegrato pentecostale, affetto dalla sindrome dell’“Egloga Quarta”, megafono dell’età dell’oro.
Era una cantonata bella e buona. “Non sono mai stato un ottimista o un pessimista. Sono solo un apocalittico”, aveva detto McLuhan in un’intervista. Ma non lo intendeva certo nel senso di Eco, e anzi detestava quei cristiani cupi che mescolano Spengler e Adorno con Giovanni di Patmos e ci dicono che tutto va a rotoli: “L’Apocalisse non è la desolazione. È la salvezza. Nessun cristiano può esser mai ottimista o un pessimista: quelli sono stati mentali puramente secolari”. Nel suo saggio su Chesterton, non per caso, lo aveva definito “un mistico pratico per il quale l’esistenza ha un valore del tutto inesprimibile, e assolutamente superiore a qualunque argomento per l’ottimismo o il pessimismo”.
L’ottimismo di McLuhan era escatologico, dunque poteva comporsi antinomicamente con il pessimismo più nero, e chi legga a fondo la sua opera troverà argomenti per entrambe le persuasioni, in un continuo ed esasperante sic et non. La sua fede nel Non praevalebunt era ben salda (“La chiesa cattolica non dipende, per la sua sopravvivenza, da una saggezza o strategia umana. Le migliori intenzioni del mondo non saprebbero portarla in rovina”), ma ci teneva a ricordare che questa cattedrale inespugnabile era pur sempre nata da un gioco di parole, da un pun, da una battuta di spirito: Tu es Petrus et super hanc petram…
In questa bouffonnerie sta il paradosso di McLuhan: uno dei grandi eruditi del suo tempo è stato anche l’animatore di un cabaret intellettuale permanente, che si divertiva a giocare la parte del pazzo in tv, lanciava libri-collage sempre più eccentrici, compariva su “Playboy” in buona compagnia di Kathy MacDonald. Lo si vide perfino in Annie Hall di Woody Allen, dove sbucava d’improvviso nella coda di un cinema per sbugiardare un massmediologo presuntuoso.
Che fosse solo un buontempone o un vanitoso in cerca di gloria? Qualcuno lo crede. Ma chissà che la chiave non sia nella vecchia idea di Maritain secondo cui il cattolico dev’essere antimoderno e ultramoderno, combinare le due esortazioni contraddittorie di san Paolo, quella a non conformarsi alla mentalità di questo mondo e quella a “farsi tutto con tutti”, diventare giudeo con i giudei, gentile con i gentili, televisivo con i telespettatori.
È solo una congettura, ma è certo che sulla lapide di McLuhan, all’Holy Cross Cemetery di Thornhill, Ontario, la sentenza evangelica “The truth shall make you free” (La verità vi farà liberi) campeggia in caratteri digitali come su un display.
(Guido Vitiello, “Il Foglio”, 5 giugno 2011)
Anch’io ho ‘linkato’ l’articolo, che ha il pregio di sforzarsi di celebrare mcluhanianamente il centenario di McLuhan. A proposito di McLuhan, hai letto l’articolo del Demiet?
Visto, letto e approvato!
Non vedo l’ora di avere un po’ di tempo per tornare a scrivere…
Ehi, LW, auguri!
Grazie, carissimo!