Paul Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, ed. it. a cura di G. Pedullà, Donzelli, Roma 2010, 144 pp. (or. Transcendental Style in Film: Ozu, Bresson, Dreyer, University of California Press, Berkeley 1972).
Paul Schrader è un celebre sceneggiatore e regista della “Nuova Hollywood”, noto per le sue collaborazioni con Martin Scorsese (Taxi Driver, Al di là della vita) e per alcuni film di grande successo (American Gigolò, Mishima, Touch). In questo lavoro – già tradotto da Donzelli nel 2002, ed ora riproposto con una nuova prefazione – si possono trovare tante ingenuità, ma anche spunti di riflessione che meritano di essere sottolineati e ripresi: il libro, del resto, deriva da una tesi di dottorato discussa più di trent’anni fa, sotto la direzione del grande storico dell’arte Rudolf Arnheim.
Nel primo capitolo, Schrader propone una definizione di “stile trascendentale”, intendendo con questo termine una “forma universale di rappresentazione” che cerca di tradurre, attraverso l’arte cinematografica, la tensione dell’uomo verso ciò che sta oltre i sensi, verso il “sacro” inteso come “totalmente altro”, alla maniera di Rudolph Otto. I campioni di questo stile, secondo Schrader, sarebbero i registi Yasujiro Ozu, Robert Bresson e Carl Theodor Dreyer (ma potremmo aggiungere all’elenco, senza tema di smentite, anche i nomi di Andrej Tarkovskij e di Werner Herzog).
L’opera di Ozu è riletta alla luce delle concezioni zen sulla pittura, il giardinaggio e l’haiku. Le categorie di riferimento, forse in modo un po’ meccanico, sono desunte dai contributi pop di Daisetzu T. Suzuki e Alan Watts, molto in voga negli ambienti statunitensi tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Da Watts, in particolare, Schrader recupera la descrizione dei quattro stati d’animo fondamentali dello zen: la quiete solitaria (sabi), il vuoto dei sensi (wabi), il senso di finitezza (aware) e la percezione del mistero (yugen). Tutti i film del regista giapponese sono quindi analizzati attraverso il filtro di queste quattro categorie.
Per Bresson, ovviamente, il discorso è diverso. Schrader si confronta in primo luogo con le analisi di Amédée Ayfre, André Bazin e Susan Sontag, che avevano già parlato di “regia giansenista”, di “fenomenologia della grazia” e di “stile spirituale”. Le categorie analitiche, in questo caso, sono tratte in massima parte dalle riflessioni estetiche di Jacques Maritain, e dal confronto con la tradizione dell’iconografia bizantina. I punti di contatto sono molti: l’attenzione per la forma, chiamata a guidare ed elevare la percezione dello spettatore, il rifiuto dell’intreccio («un trucco buono per chi scrive romanzi», come ebbe a dire lo stesso Bresson), la passione per la frontalità, l’inespressività dei volti, la composizione simmetrica e la bidimensionalità, e infine l’idea che il soprannaturale non sia altro che «il reale espresso con maggior precisione» (altra celebre dichiarazione del regista). L’analisi di Schrader, ogni tanto, lascia un po’ a desiderare, soprattutto quando affronta questioni più teoriche: ad esempio quando sembra considerare genuinamente “scolastica” l’idea del Maritain, per cui l’autore di arte sacra dovrebbe essere un “santo” (nulla di più lontano dall’estetica, se mai ne ebbe una, di Tommaso d’Aquino).
Si giunge così all’opera di Dreyer, che precede cronologicamente quella di Bresson e se ne distingue per alcuni aspetti essenziali, ma testimonia una tensione formale molto vicina a quella del regista francese. La minore radicalità di Dreyer, secondo Schrader, sarebbe imputabile alla sua necessità di mediare fra due tendenze estetiche opposte, quella del Kammerspiel e quella dell’espressionismo. Lo stile trascendentale, nel caso del regista danese, interagirebbe con queste due forze, e conferirebbe ad entrambe valori spirituali sostanzialmente estranei ad esse.
Nelle conclusioni si trovano i punti di maggior interesse del libro. L’autore parte dalle riflessioni fenomenologiche di Gerardus van der Leeuw sull’origine religiosa delle principali forme artistiche (danza, poesia, pittura, etc.). L’unica delle arti maggiori che non sembra adattarsi a questo schema, nota Schrader, è proprio il cinema, che ha invece origini del tutto profane: «se un artista religioso cinematografico volesse tornare a queste origini, troverebbe solo imprenditori e tecnocrati» (p. 132). Contraltare alla tesi di van der Leeuw, è la teoria di André Bazin, che pone alle origini delle arti visive (di tutte le arti visive) una duplice ambizione, legata al problema della rappresentazione: da una parte, la tensione verso il raggiungimento di forme simboliche “pure”, e dall’altra il desiderio di una riproduzione sempre più esatta del mondo esterno. L’arte cinematografica, da questo punto di vista, sembrerebbe portare a compimento la seconda di queste ambizioni. Come osservava lo stesso Bazin, se il peccato originale della pittura è stato l’adozione della prospettiva, allora ne segue «che Niepce e Lumière ne furono i redentori. La fotografia, portando a compimento il barocco, ha liberato le arti plastiche dalla loro ossessione per la rassomiglianza. La pittura infatti si sforzava, in fondo invano, di illuderci, e questa illusione era sufficiente all’arte, mentre la fotografia e il cinema sono scoperte che soddisfano definitivamente e nella sua stessa essenza l’ossessione per il realismo» (p. 134).
Il discorso parrebbe confermare le riflessioni di Wylie Sipher, secondo il quale il cinema, arrestandosi alle modalità espressive e ai problemi del XIX secolo, avrebbe traghettato ogni altra arte nel XX secolo. Ma è proprio a questo punto, osserva Schrader, che intervengono le innovazioni stilistiche e concettuali dei grandi registi “trascendentali”. Ozu, Bresson e Dreyer, che appaiono così compassati e arcaici nell’inseguimento dei loro programmi artistici, rinnovano l’arte cinematografica superandone (e in qualche modo “trasfigurandone”) l’enorme potenziale realistico. Il loro è un cinema fondamentalmente “religioso”. Ma si esprime con modalità completamente diverse da quelle del cinema religioso di tipo convenzionale (e qui Schrader porta l’esempio, giustamente, dei grandi kolossal hollywoodiani alla Cecil DeMille): mentre quest’ultimo rappresenta il “sacro” attraverso la mediazione dell’artificio (gli effetti speciali, le voci fuori campo, la stilizzazione oleografica dei personaggi, la ricostruzione dell’ambiente), lo stile trascendentale propone un confronto diretto con la dimensione spirituale, senza abbassarla a un livello comune di percezione.
Quando Schrader affronta il problema del cinema religioso, dice quindi qualcosa che coinvolge in generale lo statuto dell’arte sacra in età contemporanea, e che dovrebbe far riflettere non soltanto gli appassionati della settima arte: è facile convincere il pubblico, per un tempo che può andare dall’una alle quattro ore, che gli eventi e i personaggi che scorrono sullo schermo sono “reali”, mentre è difficile trasmettere il senso di un contatto reale con la trascendenza, il cui ricordo prosegua oltre il tempo della rappresentazione. Nel primo caso, infatti, si finisce inevitabilmente per abbassare il “sacro” al livello dello spettatore, piegandolo ai suoi gusti e alle sue esigenze emotive; dall’altra, al contrario, si cerca di innalzare la sensibilità e l’intelligenza di quest’ultimo al contatto con una sfera superiore, realmente “trascendente”: ed è solo questo, sembra dire Schrader, che può essere considerato come il tratto distintivo di un’arte che potremmo definire “sacra”.
Complimenti! Per quel che mi ricordo del libro – leggiucchiato quando uscì la prima volta -, la tua recensione è assai più interessante.
A mio giudizio il libro di Schrader soffre di una prospettiva eccessivamente ridotta, se posta in relazione con l’obiettivo che dichiara. Oltre ai nomi che fai tu (l’attività dei quali, come noti, si situa in buona parte dopo lo scritto di Schrader…), l’indagine andrebbe allargata a molti altri registi; soprattutto se, come fa l’autore, non ci si limita al cinema occidentale. Manca, ad esempio, tutto il discorso sulla gran quantità di film sul tema girati nei primi anni della storia del cinema.
Senza contare che, per dirne una, il suo approccio calvinista al problema della trascendenza gli fa sottovalutare clamorosamente la questione dell’Incarnazione che, per ovvi motivi, è il vero ‘punto cieco’ del medium cinema (e forse questo può dirci qualcosa a proposito del fallimento de “L’ultima tentazione di Cristo”).
Il fatto, tuttavia, che questo sia uno dei pochissimi libri sull’argomento è già di per sé un grande merito.
P.S. – In realtà, pensandoci meglio, credo che Schrader abbia “scoperto” la questione dell’Incarnazione più tardi, quando ha cominciato a lavorare con Scorsese. Questo forse potrebbe spiegare il fatto che, ad esempio, nel libro non siano presi in adeguata considerazione registi come Rossellini e – soprattutto – Pasolini (che sono invece modelli imprescindibili per Scorsese).