John P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, vol. IV, Legge e amore, ed. it. a cura di F. Della Vecchia, trad. di G. Volpe, Queriniana, Brescia 2009, pp. 760, euro 68.
Su questo quarto volume dell’immensa opera di Meier – come sui precedenti, del resto – ci sarebbero tantissime cose da dire. Il tema affrontato, questa volta, è tra i più delicati e controversi dell’intera storia della ricerca, ossia il rapporto fra Gesù e la Legge mosaica.
L’autore, con la scrupolosità che gli è ormai proverbiale, si concentra in particolare su cinque grandi aspetti dell’insegnamento “legale” di Gesù (in termini ebraici: della sua halakhah), che presi da soli potrebbero dar vita ad altrettante monografie autonome: “L’insegnamento di Gesù sul divorzio” (pp. 80-184), “La proibizione dei giuramenti” (pp. 185-326), “Gesù e il sabato” (pp. 237-343), “Gesù e le leggi di purità” (pp. 344-477) e “I comandamenti dell’amore di Gesù” (pp. 478-647).
Per stuzzicare l’appetito dei lettori, trascrivo in calce un brano dalle conclusioni del libro, dove l’ironia dell’autore, sempre sottile, tocca il suo vertice retorico (con tanto di fulmen in clausola). Meier sembra avvertire il lettore non specialista (soprattutto il lettore americano) a non accontentarsi di un ritratto di Gesù che parta dall’assunto – ovviamente incontestabile – della sua ebraicità. Perché non ogni “Gesù ebreo” è per forza di cose un “Gesù storico”. Il rischio, al contrario, è sempre quello di vedersi propinare un vino falso, al quale il trafficante ha attaccato come al solito le etichette più diverse: pensavi fosse un Brunello, un Barbera, un Barolo, e invece ti ritrovi a bere un Clinton dello Iowa…
Battute a parte, ecco il brano di Meier:
«A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, studiosi come Geza Vermes, James H. Charlesworth, E.P. Sanders e Jacob Neusner hanno fatto capire bene l’importanza cruciale di vedere Gesù all’interno e come parte del mondo vivo e vitale del giudaismo palestinese del I secolo.
Sfortunatamente, la reazione di troppi accademici americani è stata un’adesione puramente formale. È sufficiente sfogliare le pagine dei molti libri su Gesù che racchiudono nel titolo la parola “ebreo” o la strombazzano nelle loro prefazioni per cogliere il divario fra la retorica e la realtà. Naturalmente, molti libri americani sul Gesù storico evitano ora le denigranti parodie della Torah o dei Farisei incorporate nei più vecchi tomi tedeschi. Al posto di tali parodie, si incontra uno spostamento d’accento politicamente corretto, dal Gesù che attacca la Legge, perlomeno nella sua interpretazione farisaica, al Gesù che attacca la gerarchia, il sacerdozio e il tempio – che ricevono il ruolo dei cattivi nella nostra epoca più illuminata.
Il risultato di questa ridefinizione politicamente corretta non è un’analisi dettagliata né della natura e del ruolo della Torah nella Palestina del I secolo, né della complessa posizione di Gesù verso di essa. L’intricato tema della Torah è invece liquidato, vuoi per ignoranza vuoi per pigrizia, con alcuni insipidi commenti sul fatto che Gesù era un ebreo osservante della Legge. I singoli pronunciamenti che egli espresse in proposito, e la loro relazione con le concezioni dei gruppi ebraici contemporanei, possono ricevere qualche cenno di cortesia, ma niente di più. Da questi libri sarebbe difficile indovinare che i ritrovamenti di Qumran e il rinnovato studio degli pseudepigrafi dell’Antico Testamento hanno costretto gli studiosi a ripensare le concezioni legali del giudaismo al volgere dell’era. È significativo, ad esempio, che la ricca scorta di materiali halakhici proveniente dalla Grotta 4 di Qumran sia raramente menzionata, e mai analizzata in profondità.
Quali che siano gli errori contenuti nel Volume 4 di Un ebreo marginale, e senza dubbio sono numerosi, perlomeno queste pagine respingono un grave errore scientifico della ricerca su Gesù: quello di riempirsi la bocca di parole riguardose nei confronti dell’ebraicità di Gesù, evitando al tempo stesso come la peste il cuore pulsante di tale ebraicità: la Torah in tutta la sua complessità.
Per quanto sconcertanti siano le posizioni che assume talvolta, Gesù emerge da questo volume nei tratti d’un ebreo palestinese impegnato nelle discussioni e nei dibattiti legali tipici del suo tempo e dei suoi luoghi. È la Torah, e soltanto la Torah, che tramuta in una persona in carne e ossa la spettrale figura di “Gesù l’ebreo”. Niente Gesù halakhico, niente Gesù storico. È per questa ragione che molti libri americani sul Gesù storico possono essere liquidati su due piedi: la loro presentazione del giudaismo del I secolo, e in particolare della Legge ebraica, o è andata dispersa o è così disperatamente fuorviante da deformare sin dall’inizio qualunque ritratto dell’ebreo Gesù.
È strano che gli studiosi americani abbiano avuto bisogno di tanto tempo per assorbire questa idea fondamentale: o si prende sul serio e si comprende correttamente la Legge ebraica, o si deve abbandonare del tutto la ricerca del Gesù storico. Non è necessario sgobbare giorno e notte sui rotoli di Qumran per afferrare questo punto. È semplicemente ragionevole ritenere che qualunque ebreo scegliesse di calcare la scena pubblica nella Palestina della prima parte del I secolo, e di presentare se stesso come un maestro religioso (come un “rabbino” nel senso lato della parola), dovesse ritrovarsi a trattare e a dibattere la Torah, sia nel suo complesso che nelle sue parti. Strano a dirsi, quanto più i libri americani su Gesù si sforzano di essere dei tomi “rilevanti” e all’avanguardia, che creano “un nuovo paradigma”, tanto più tendono a perdere di vista questa ovvietà.
A questo punto, il paziente lettore del Volume 4 di Un ebreo marginale potrebbe essere stufo marcio del mantra «il Gesù storico è il Gesù halakhico». Perlomeno, però, tale lettore è stato vaccinato per tutta la vita contro il virus che induce amnesia giuridica nella maggior parte della letteratura americana su Gesù. La dimensione halakhica del Gesù storico non è mai emozionante, ma è sempre essenziale. Essa è, fortunatamente, una delle principali ragioni per cui il Gesù storico non è, e non sarà mai, il Gesù americano».
(John P. Meier, op. cit., pp. 649-650).
Se questo è quello che si dice di Gesù, chissà cosa pensa la critica moderna di san Paolo.
Chissà, magari Meier affronterà il problema nei prossimi cinque volumi su Paolo… Potrebbe perfino richiamarsi alle parole di Gesù in Gv 15,20: “Se [i critici] hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi. Se hanno osservato la mia parola [in tutti i sensi], osserveranno anche la vostra…”.
Grazie, anche se in colpevole ritardo, per la divertente citazione: bisogna che cerchi di trovare un po’ di tempo (un mese o due?) per leggere il libro.
Cosi’ di primo acchito, pero’, mi pare che Meier faccia il solito gioco un po’ ingannevole. Capisco che per lui “il Gesu’ americano” sia quello del Jesus Seminar, ma non puo’ mica darci a bere che il suo Gesu’ halakhico non lo sia: in fondo solo l’avvicinamento tutto americano fra studiosi cristiani e rabbini “illuminati” (alla Neusner e c.) gli permette di formulare un’ipotesi del genere.
Ti offro un contributo a modo di rigraziamento: http://ta-biblia.blogspot.com/2009/11/new-orleans-ii.html
Saluti,
GB
Grazie a te, caro GB.
Vedo che attorno a Meier si può usare un po’ di ironia, il che è sempre positivo. Anch’io ho sempre avuto qualche riserva nei confronti del suo metodo: una volta che lo si conosce, peraltro, è abbastanza semplice intuire dove potrà “andare a parare” (col che non intendo affatto sminuirne il lavoro).
Durante la lettura di questo volume, ho raccolto un buon numero di osservazioni, che credo confluiranno all’interno di una recensione (forse riesco a intercettare il prossimo numero di “Annali”). Quindi qualunque appunto da parte tua, nei prossimi mesi, sarà ben gradito.
Le critiche a Meier sono abbastanza inevitabili, data la mole del suo sforzo e la delicatezza degli argomenti. Ogni volta si ha l’impressione di muoversi in una cristalleria, solo che l’autore è ben lontano dal fare l’elefante (anzi). Forse è possibile imparare di più da autori più “brutali”, coi quali magari si è meno d’accordo nel complesso (parlo per me, naturalmente, e mi riferisco soprattutto al tanto vituperato Jesus Seminar).
In ogni caso, trovo che l’esigenza di chiarezza e di “verificabilità” dei lavori di Meier sia del tutto ammirevole.