In questi giorni sto rileggendo quel capolavoro di Jack Goody che è The Domestication of the Savage Mind (Cambridge 1977; tradotto in italiano come L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Franco Angeli, Milano 1981), e mi rendo conto sempre di più dell’assurdità di un’equazione che continua a persistere anche in molti studi sul cristianesimo delle origini: quella tra “illetterato” e “ignorante” (o, se vogliamo girarla, tra alfabetizzato e cólto).
Se è vero che l’alfabetizzazione, al tempo di Gesù, era una realtà decisamente minoritaria, che riguardava non più del 10% della popolazione complessiva dell’Impero, è anche vero che stime recenti fanno salire il numero dei non alfabetizzati nei territori della Palestina romana a una percentuale addirittura del 97%. E questo nonostante un pregiudizio diffusissimo, per cui si pensa spesso agli Ebrei come ad un gruppo sociale con un grado di alfabetizzazione superiore alla media (su questo punto, per quanto riguarda la situazione nel I secolo, rimando alla monografia di C. Heszer, Jewish Literacy in Roman Palestine, Tübingen 2001).
Quante volte, del resto, ci è capitato di udire o di leggere che la predicazione di Gesù si sarebbe rivolta essenzialmente a un pubblico incolto, e che non è un caso che Gesù abbia voluto scegliere i propri discepoli più stretti fra gli “umili” – e dunque illetterati – pescatori della Galilea? Si tratta, in fondo, di una visione suffragata dalle fonti: in At 4,13, ad esempio, viene detto chiaramente che Pietro e Giovanni erano agrammatoi. E in Gv 7,15 gli uditori di Gesù si stupiscono del fatto che questi «conoscesse le lettere» (grammata oiden), ossia sapesse leggere.
Ma cosa possiamo dedurre, concretamente, da tutti questi dati? Contro una visione troppo semplicistica, credo si possa (e si debba) far valere un grande principio dell’antropologia moderna, per cui l’assenza di alfabetizzazione non implica affatto un’assenza di cultura. Già Marcel Jousse, un pioniere degli studi novecenteschi sull’oralità, faceva notare come la carmelitana Teresa di Lisieux, pressoché illetterata, fosse in grado di comporre e di tenere a mente un gran numero di poesie, spesso ricalcandole su stilemi biblici o liturgici, e paragonava questa situazione a quella di Maria, la madre di Gesù, a cui l’evangelista Luca ha potuto attribuire un inno elaborato come il Magnificat. Fantasie dell’evangelista? Nient’affatto, riteneva Jousse.
Questo non ci autorizza, naturalmente, ad immaginare che il milieu dei pescatori di Cafarnao fosse composto da raffinati intellettuali orali, avvezzi alle più sofisticate tecniche di memorizzazione e di trasmissione di testi, come lasciano supporre i tanti studi dipendenti da Jousse. Credo che, su questo punto, alcune osservazioni di Goody possano aiutare a svolgere un altro tipo di discorso.
Consideriamo ad esempio quanto scrive l’antropologo, a p. 56 dell’edizione italiana del suo testo, sulle implicazioni del passaggio dall’oralità alla scrittura:
Quando un discorso è messo per iscritto può essere scrutato molto più dettagliatamente, sia nelle sue singole parti che nel suo insieme, in ciò che precede e in ciò che segue, fuori dal contesto e nel suo ambito; in altre parole, può essere sottoposto a un tipo di analisi e di critica abbastanza differente rispetto a quello che si può adottare per la comunicazione puramente verbale. Il discorso non è più legato a un’“occasione”; diventa atemporale. Né è più legato a una persona: sulla carta, esso diventa più astratto, più spersonalizzato. […] La scrittura rende “oggettivo” il discorso trasformandolo in un oggetto di esame tanto visivo quanto uditivo; è il passaggio del ricevitore dall’orecchio all’occhio, del produttore dalla voce alla mano».
Dall’orecchio all’occhio, dalla voce alla mano: non possiamo forse ricavare, da questa osservazione di Goody, un’importante indicazione sulla storia della trasmissione delle tradizioni evangeliche?
Si dice spesso, correttamente, che la composizione scritta dei primi vangeli non soppiantò, almeno fino ai primi decenni del II secolo, il primato della tradizione orale: è ciò che si ricava, ad esempio, dalla testimonianza del vescovo Papia di Hierapolis, trasmessa fra gli altri da Eusebio di Cesarea (tutti i frammenti di Papia sono stati tradotti e splendidamente commentati da Enrico Norelli, in questo libro). Per Papia, che scrive sotto il regno di Adriano (più o meno attorno al 110-120), la «voce viva e permanente» dei presbiteri, ossia di quanti potevano vantare una conoscenza diretta dei primi discepoli di Gesù, era di gran lunga preferibile alla testimonianza degli scritti.
La decisione di fissare per iscritto alcuni materiali della tradizione di Gesù, pertanto, può essere vista come il risultato di una «crisi della memoria», sopraggiunta nel momento in cui i vari gruppi cristiani, vedendo scomparire i primi testimoni, avvertirono la necessità di controllare e di definire meglio quanto si andava predicando sul loro maestro. Ma è anche un primo esempio di commento a queste tradizioni. Il supporto scritto può essere dunque valutato, allo stesso tempo, come causa e come effetto di una tale necessità.
L’oggettivazione della vicenda di Gesù, e del suo insegnamento, è un portato della fissazione scritta delle varie tradizioni che circolavano su di lui, ma ne è anche, in qualche misura, un presupposto. Questo vuol dire che i primi commenti alle tradizioni evangeliche non nascono a seguito della fissazione normativa dei testi (e dunque a partire dal II secolo, come troverete scritto in tutti i manuali di letteratura cristiana), ma proprio a partire dalla composizione stessa dei testi: il genere letterario dei vangeli costituisce già una prima forma di commento.
Molto interessante, anche se temo che sia introvabile, almeno nell’edizione italiana. Può essere utile un confronto con le opere di Walter J. Ong, in particolare “Oralità e scrittura”. Un saluto cordiale.
Ong, certo! Di Goody credo siano facilmente reperibili altre pubblicazioni sul tema (ad es. La logica della scrittura e l’organizzazione della società, Einaudi, e Il potere della tradizione scritta, Bollati Boringhieri).
Un saluto!