Le epistole ai Corinzi

di Teodorico da Castel San Pietro

L’articolo corrisponde alle voci «Corinti, Epistole I e II ai» e «Corinti, Epistole apocrife ai», in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948-1954, vol. IV, coll. 549-557.

[1Cor e 2Cor sono le] lettere indirizzate da s. Paolo ai fedeli della comunità di Corinto, due delle quattro maggiori dell’epistolario paolino. Sono le più strettamente connesse con l’attività dell’Apostolo e con le vicende della comunità destinataria, nondimeno irte d’incertezze concernenti i fatti da cui esse (la seconda particolarmente) sono state provocate.

Il primo periodo di lavoro apostolico di Paolo a Corinto, il periodo più lungo, va dal 50 o 51 al 52 o 53 d.C. Una maggiore precisione non è possibile, stante l’incerta data dell’incontro con il proconsole Giunio Gallione in Acaia, data da cui principalmente dipende la cronologia del secondo viaggio missionario e di buona parte della vita di Paolo.

L’Apostolo giungeva a Corinto dopo la dolorosa esperienza di Atene, che lo consigliava ad attenersi fermamente a quella che era stata, anche prima, la sostanza del suo apostolato: la rude predicazione dello «scandalo della Croce». Per diciotto mesi lavorò a Corinto, prima di venire deferito al tribunale di Gallione. Le conquiste furono assai limitate nell’ambiente giudaico, ma numerose in quello pagano. Che non fosse, però, molto facile per questi convertiti di Corinto entrare nello spirito e nella disciplina della nuova religione, dovette ben capirlo Paolo nella sua prolungata permanenza in mezzo a loro, e ne ebbe conferma dalle notizie che gli pervennero durante il suo soggiorno ad Efeso, nel corso del terzo viaggio missionario.

1. LA PRIMA EPISTOLA AI CORINZI

Occorrerebbe anzitutto toccare la questione se questa sia stata veramente la prima lettera inviata da s. Paolo a quella comunità. Il problema è posto da 1Cor 5,9-11, che oggi molti intendono nel senso che la prima epistola canonica sia stata preceduta da un’altra lettera, la quale aveva dato occasione all’equivoco di cui nel testo citato. I fedeli di Corinto avevano capito che Paolo proibisse ogni rapporto con qualsiasi categoria di fornicatori, e ciò era sembrato impraticabile in quella città dedita al vizio. Paolo, nella prima epistola ai Corinzi canonica, vuole anche correggere questa interpretazione rigorista.

1.1. Occasione

1Cor è stata provocata da informazioni poco rassicuranti pervenute a Paolo, e da una serie di quesiti formulati dai fedeli di Corinto in una lettera inviata all’Apostolo per tramite di Stefana, Fortunato e Acaico. Le informazioni venivano in parte da «quelli di Cloe», cioè dai dipendenti di questa donna che doveva avere rapporti commerciali con Efeso, in parte dagli stessi delegati della comunità. Dai primi Paolo apprese che si formavano tra i fedeli delle fazioni, le quali si fregiavano dei nomi di lui, di Apollo e di Cefa (1Cor 1,12); ma non è escluso che anche Stefana, Fortunato e Acaico gli abbiano fornito particolari sulle discordie che affliggevano la loro comunità. I tre, però, potrebbero essere giunti a Efeso quando 1Cor era già in composizione, e a loro sarebbero dovute solo le informazioni su cui si fonda la lettera a partire dal capitolo 5: il caso gravissimo d’incesto, i litigi tra i fedeli, lo scandalo dei frequenti ricorsi ai tribunali pagani. Il resto sembra risposta alle domande rivolte a Paolo in una lettera della comunità (1Cor 7,1); ma è naturale che gli inviati abbiano contribuito a chiarire il senso e la portata delle questioni e dei dubbi che agitavano la loro chiesa.

La seconda delle fazioni si denominava da Apollo, che aveva lavorato con ardore a Corinto, mentre Paolo iniziava il suo lungo ministero efesino. Molti della comunità furono affascinati dalla parola fluida e forbita dell’alessandrino e dalla sua abilità nell’usare le Scritture. Quasi contemporaneamente dovettero affluire da Gerusalemme altri che si gloriavano del nome di Cefa, da loro decisamente contrapposto a quello di Paolo. Questi meritava appena il titolo di apostolo; il suo insegnamento era monco, in quanto non faceva alcuna stima della legge data da Dio al suo popolo. Così, mentre coloro che si professavano «di Paolo» e «di Apollo», non uscivano dai limiti di un personalismo immune d’errori dottrinali, quelli che si auto-proclamavano «di Cefa» erano, probabilmente, tinti d’errori giudaizzanti.

Qualcuno ha concepito la corrente di «quelli di Cristo» come la più perniciosa di tutte, in quanto, sotto il pretesto che Gesù ci ha emancipati dalla servitù della legge, avrebbe insegnato teorie libertine, come quelle tradotte in pratica dall’incestuoso di cui al capitolo 5, da alcuni considerato quasi con un senso di orgoglio. Ma è molto dubbio che le parole «io poi di Cristo» (1,12) costituiscano il motto di una fazione analoga alle altre menzionate. Paolo non la menziona più esplicitamente nel corso della lettera, e Clemente Romano, più tardi, ricorderà solo tre gruppi di faziosi. Contro lo spirito di parte che minacciava di dilaniare la giovane comunità, per stigmatizzare la relazione incestuosa, correggere l’abuso del ricorso ai tribunali pagani, l’emancipazione delle donne nelle assemblee religiose, le intemperanze nella celebrazione della «cena del Signore», e, finalmente, per rispondere ai molteplici dubbi sollevati dai fedeli, Paolo ha scritto la prima epistola ai Corinzi.

1.2. Divisione e contenuto

Più che secondo un piano logico, i diversi argomenti si succedono in 1Cor nell’ordine occasionale di presentazione.

Oltre i consueti prologo (1,1-9: saluto augurale ai fedeli, ringraziamenti a Dio) ed epilogo (16), due possono distinguersi (1,10-6, 20 e 7,1-15, 58).

1.2.1. Correzione dei visi e degli abusi (1,10 – 6,20)

a) Fazioni nella comunità di Corinto e loro condanna (1,10 – 4,21). Denunciate e deplorate le fazioni in nome dell’unità da mantenersi in Cristo, capo della Chiesa (1,10-17), viene illustrato il piano della sapienza divina, che ha scelto le persone e i mezzi più umili per le sue realizzazioni, a confusione dell’orgogliosa saggezza umana, in nome della quale si dividono faziosamente i destinatari (1,18-31). Per questa sapienza divina, che si manifesta ai «perfetti», i lettori erano e sono tuttora immaturi, data la loro indole manifestamente carnale (2,1 – 3,4). Poiché i predicatori del Vangelo sono semplici cooperatori di Dio, ai quali vengono assegnati, nello stesso campo di lavoro, compiti diversi, i fedeli debbono guardarsi da indebite preferenze, né, a motivo di una vuota sapienza umana, entrare in vane competizioni (3,4-13). Chiudono i seguenti punti: paterna ammonizione; scopo della missione di Timoteo; annuncio della visita di Paolo stesso (4,14-21).

b) Repressione di grandi disordini (capp. 5-6). La condanna e la punizione dell’incestuoso (5,1-8) fornisce l’occasione di trattare dei pubblici peccatori, membra guaste della comunità, e di dissipare l’equivoco occasionato da una lettera precedente (5,9-13). Evitare il ricorso ai tribunali pagani e, possibilmente, ogni lite fra fedeli (6,1-11). Il motivo che impegna il cristiano a fuggire l’impurità è il fatto d’essere egli membro del corpo mistico di Cristo e tempio dello Spirito Santo (6, 12-20).

1.2.2. Soluzione dei dubbi proposti dalla comunità
e questioni particolari
(7, 1 – 15,58).

a) Matrimonio e verginità (7,1-40). Legittimità, diritti e doveri, indissolubilità del matrimonio cristiano e privilegio in favore del coniuge convertito alla fede (7,1-24). La verginità è più nobile del matrimonio, ma non s’impone a nessuno (7,25-40).

b) Uso delle carni offerte agli idoli (8,1-11). Quantunque sia lecito, in sé, mangiare le carni degli animali sacrificati agli idoli (i cosiddetti idolotiti), dato che nulla sono quest’ultimi, tuttavia la saggezza (gnôsis) cristiana impone dei riguardi per le coscienze meno illuminate (8,1-13). Non si deve abusare della libertà; perciò Paolo stesso rinuncia ai privilegi inerenti all’apostolato; e ciò come contributo alla causa di Cristo, facendosi tutto a tutti, e sottoponendo il proprio corpo a quella severa disciplina che è condizione necessaria per conseguire la corona della vittoria (9,1-10.13). In pratica: non si può partecipare ai conviti sacrificali, cosa in contrasto con la partecipazione alla mensa del Signore; privatamente, invece, si possono mangiare anche le carni offerte agli idoli, salvo il caso che la carità, la quale ha da prevalere su tutto, non imponga di evitare lo scandalo dei deboli (10,14 – 11,1).

c) Disciplina delle assemblee religiose (11,2 – 14,40). Le donne debbono parteciparvi col capo velato (11,2-16). La cena eucaristica si celebri senza eccessi, offensivi per i fratelli poveri e irriverenti per gli augusti misteri (11,17-34). I carismi sono tutti egualmente apprezzabili, considerando la loro fonte (lo Spirito Santo) ed il loro scopo (il profitto della comunità); ma, considerate le particolari funzioni, ve ne sono di più e di meno nobili, pur contribuendo tutti, come le varie membra del corpo, al bene comune (12,1-3la). Sopra ogni dono carismatico sta la carità, principio animatore di tutto, senza di cui i più nobili carismi sono privi di valore. Essi, del resto, sono destinati a cessare nella vita futura, come cesseranno anche la fede e la speranza, mentre durerà eterna la carità (12,31b – 13,13). Da un confronto tra profezia e glossolalia, risulta che la prima è da preferirsi alla seconda (14,1-33). Le donne non parlino nelle assemblee della comunità; e tutto proceda con decoro e con ordine (14,34-40).

d) Risurrezione dei morti (cap. 15). Ammessa la Risurrezione di Cristo, la quale è fondamento della nostra fede, non si può mettere in dubbio la possibilità che i morti ritornino alla vita. Il pegno della nostra risurrezione si ha nell’incorporazione a Cristo, capo dal quale le membra non possono venire separate (15,1-34). Un complesso di analogie di ordine naturale illustra il modo della risurrezione. Il corpo sarà mutato da passibile in glorioso, come esige anche il pieno trionfo sulla tirannica dominazione della morte e del peccato (15,35-58).

Nell’epilogo (cap. 16), suggerimenti pratici per la colletta (16,1-4); annuncio di una prossima visita di Paolo a Corinto (16,5-9); raccomandazioni a favore di Timoteo, di Apollo e degli inviati della comunità (16,10-18); saluti, autenticazione dell’autore e augurio finale (16,19-24).

1.3. Data di composizione

La data più comunemente accettata è il 56, quando il lavoro di Paolo in Asia era già ben avviato e suscitava un’ostilità molto forte (16,9); il che suppone un notevole periodo di dimora in Efeso. Nella primavera del 56 (alla Pasqua sembra accennare 5,7; la Pentecoste non è lontana: 16,8) terminava il secondo anno di lavoro in questa città e magnifiche prospettive si aprivano in Asia; ma si notavano anche reazioni incipienti, che dovevano poi sboccare nel tumulto degli argentieri (At 19,23-40).

E.B. Allo, sulle orme di F. Bachmann, pensa che 1Cor sia stata scritta nel 55, e più precisamente dopo i tre mesi di predicazione nella sinagoga, quando Paolo, voltosi ai pagani, intravvede la messe abbondante che potrà raccoglierne (1Cor 16,8 sgg.). Ma Paolo non dice che la grande porta si sia aperta proprio al momento in cui egli scrive : il verbo da lui usato può indicare un fatto avvenuto in un passato anche remto, del quale perdurano le conseguenze. Di più, nell’ipotesi che la «porta» si sia «spalancata» proprio allora, non si comprenderebbe perché Paolo progetti di rimanere ad Efeso soltanto fino alla Pentecoste, che non doveva essere molto lontana. Se il lavoro è, invece, ben avviato da tempo, si capisce che egli pensi di lasciare Efeso a breve, per tornare nella capitale dell’Acaia, donde venivano notizie poco rassicuranti. Tutto sommato, la data primavera 56 o 57 sembra la più soddisfacente (cf. P. Benoit, in “Revue biblique”, 44 [1935], p. 610 sg.).

1.4. Autenticità paolina

L’autenticità paolina di 1Cor parrebbe non potersi mettere in discussione, tanto sono spiccate e inconfondibili le caratteristiche che ci rivelano personalità di Paolo apostolo. Solo i radicali della scuola olandese hanno ardito di negare, in blocco, l’autenticità di questa come delle altre maggiori lettere paoline.

Accanto alle allusioni della Didaché e di s. Ignazio, si ha in s. Clemente Romano un richiamo chiarissimo alla 1Cor, come lettera scritta da Paolo in circostanze analoghe a quelle in cui scrive il vescovo di Roma. Seguono Policarpo, s. Giustino Martire, la Lettera a Diogneto, il Frammento Muratoriano, s. Ireneo, Clemente Alessandrino, Tertulliano.

Le difficoltà sollevate per la bontà letteraria di 1Cor (Paolo rispondeva tacitamente alla vanitosa presunzione suoi figlioli di Corinto) sfumano davanti alle indiscutibili somiglianze di lingua e di stile con le lettere a Galati e Romani e, soprattutto, alla fondamentale coerenza del contenuto. Inoltre, 1Cor, in perfetto accordo con la narrazione degli Atti (cf. 1Cor 4,17 sgg. e 16,5: At 19,2; cf. 1Cor 1,14: At 18,8; 1Cor 3,6: At 18,27 sg.). Ma l’indizio interno forse più decisivo è la piena autorità con cui parla l’autore di 1Cor, autorità che non si poteva riconoscere ad altri che a Paolo, fondatore e padre di quella comunità.

2. LA SECONDA EPISTOLA AI CORINZI

2.1. Occasione e data di composizione

Per comprendere bene i moventi di 2Cor, occorrerebbe risolvere alcuni punti molto discussi, e particolarmente: è stato Paolo a Corinto tra la prima e la seconda lettera? Inoltre, l’attività epistolare di Paolo a vantaggio di questa comunità si limita alle due lettere canoniche, oppure c’è qualche altro scritto ora perduto, oltre la probabile lettera pre-canonica di cui sembra far cenno 1Cor 5,9-11?

Mentre in passato non si è pensato a una lettera intermedia tra 1 e 2Cor, e ben pochi hanno veduto in 1Cor 5,9-11 un’allusione ad una lettera anteriore alla nostra prima canonica, i moderni sono generalmente propensi ad ammettere quest’ultimo punto, e molti ritengono pure che una lettera tra 1 e 2Cor, la lettera «dalle molte lacrime», sia indispensabile per rendersi ragione di buona parte del contenuto di 2Cor e dei vari atteggiamenti di Paolo nei confronti della comunità.

Tra i moderni incontra molto favore anche l’opinione di un soggiorno dell’autore a Corinto tra la prima e la seconda lettera canonica, soggiorno a cui doveva riferirsi la lettera scritta «con molte lacrime». Pare infatti che la «terza» visita di Paolo, sulla quale torna ripetutamente 2Cor 12,14; 13,1, non possa spiegarsi con un duplice soggiorno prima di 2Cor: bisognerebbe ammettere che la punizione di un’offesa, connessa con una di queste visite, sia stata tenuta sospesa per alcuni anni; mentre vi si riferisce molto vivacemente 2Cor, come a fatto assai recente. Che si tratti ancora in 2Cor dell’incesto, di cui in 1Cor 5,1-5, si tende ad escluderlo sempre più decisamente, soprattutto a motivo del carattere di ingiuria personale che riveste il grave fatto colpito in 2Cor.

L’ipotesi tanto della lettera quanto del viaggio intermedio sembra abbastanza fondata. Paolo avrebbe lasciato per qualche settimana il campo di lavoro efesino, in seguito alle buone notizie portate a lui da Timoteo (troppo ottimista in questo caso), di ritorno una missione a Corinto. Durante la rapida visita di Paolo sarebbe stata perpetrata quell’offesa che colpì non lui soltanto, ma anche la comunità (2Cor 2,5).

La lettera «dalle molte lacrime», che Paolo spedì di ritorno a Efeso, non fallì al suo scopo. Tito, dopo una successiva missione a Corinto, poté tranquillizzare Paolo sullo stato di quella comunità. L’incontro con Tito, così ardentemente sospirato da Paolo (2Cor 2,12 sg.; 7,5 sg.), avvenne in Macedonia (probabilmente a Filippi) anziché a Troade, com’era prestabilito, a cagione dell’anticipata partenza di Paolo da Efeso, in seguito al tumulto degli argentieri.

Superato il periodo più doloroso nei rapporti tra Paolo e i fedeli di Corinto con il pieno riconoscimento, da parte della comunità, dell’autorità apostolica di lui e con l’esemplare punizione di chi aveva fatto l’«ingiuria», 2Cor vuole essere, soprattutto, una lettera di riconciliazione tra padre e figli, nella quale l’Apostolo, a più riprese, manifesta liberamente il proprio affetto immutato. Così, in sostanza, fino a tutto il capitolo 9; quantunque anche nei primi nove capitoli non manchino tratti polemici vigorosi, e talora aspri, diretti a dissipare gli ultimi malintesi e a sovvertire le mene ostinate dei perturbatori. Questi, benché molto meno ascoltati dai fedeli, continuavano a lanciare i loro strali velenosi contro Paolo, accusandolo, tra l’altro, d’incostanza e di leggerezza nel promettere ciò che poi non avrebbe potuto, o voluto, mantenere.

Ciò posto, non è difficile stabilire la data di composizione. I fatti da intercalarsi tra 2Cor (primavera del 56 o 57) e 2Cor (ritorno di Timoteo, viaggio di Paolo, missione di Tito e lettera intermedia [?], ritorno di Tito) dovettero prendere lo spazio di vari mesi, per cui siamo portati verso la fine del 56 (57), all’ultimo inverno del terzo viaggio missionario. Questa lettera e il soggiorno a Corinto, che le tenne dietro, dissiparono definitivamente le nubi che avevano pesato troppo a lungo sulla diletta comunità.

2.2. Divisione e contenuto

Ancor più che per 1Cor, è arduo tracciare uno schema logico di 2Cor. Frutto di un momento di intensa passione, il più grave, forse, della vita apostolica di Paolo, è opera di getto spontaneo e impetuoso, e vi si alternano il dolore e la gioia, la dolcezza del padre e la severità del giudice, la depressione profonda e il coraggio ardimentoso, l’apologia personale e gli improvvisi e luminosi aspetti dogmatici, la preoccupazione di porre una pietra sul passato e le prospettive serene per l’avvenire. Bisogna seguire Paolo nel suo passare repentino da un pensiero e da un sentimento all’altro, dall’affettuosità più calma al tono aspro, e ritornare con lui su argomenti già prima toccati. Si rivive così, in qualche modo, il dramma interiore di questa lettera; la quale, più di ogni altra, ci rivela gli aspetti multiformi del temperamento di Paolo.

La divisione più usuale, secondo la prevalenza dell’argomento trattato, è in tre parti, precedute da un prologo e seguite da un epilogo.

Il prologo (1,1-11) rispecchia le circostanze e lo stato d’animo di Paolo, che rende grazie a Dio per la liberazione da una prova gravissima, sopportata nell’interesse del ministero apostolico e dei fedeli.

2.2.1. Spiegazioni sui precedenti di 2Cor
ossia difesa generale dell’operato di Paolo
(1,12 – 7,16).

a) Rapporti con la comunità dopo 1Cor (1,12 – 2,17). Paolo fiducioso nel ritorno all’armonia di sentimenti, precisa che, non per leggerezza o incostanza, ma per indulgenza, ha sostituito con una lettera il viaggio preannunciato (1,12 – 2,4). Era doveroso punire chi aveva offeso la sua autorità apostolica; ma, dato che il colpevole si mostra pentito, non va escluso più oltre dalla vita religiosa della comunità (2,5-11). Dopo aver detto che, preoccupato per le condizioni in cui versava la comunità di Corinto, ha rinunciato anche alle buone prospettive di apostolato che Troade gli offriva, Paolo traccia un abbozzo d’apologia con l’intento di dimostrare la propria fedeltà come ministro della parola evangelica (2,12-17).

b) Autodifesa di Paolo (3,1 – 7,4). Paolo esprime la sua fiducia ardimentosa, motivata dalla sublimità del ministero evangelico. La sua lettera vivente sono i suoi fedeli (3,1 sgg.). A lui è stato affidato il ministero dello spirito, non della lettera (3,4-11); e ciò lo dispensa dal ricorrere al «velo», come faceva invece Mosè, simbolo dell’inferiorità del Vecchio Testamento rispetto al Nuovo, manifesta rivelazione di Dio (3,12 – 4,6). C’è vivo contrasto tra la debolezza naturale degli apostoli e la forza e l’efficacia soprannaturale della loro missione. Sull’esempio di Cristo, essi affrontano ogni sacrificio e la morte stessa, fisso lo sguardo nella retribuzione futura (4,7 – 5,10). L’esempio di Cristo, che si è sacrificato per la salvezza di tutti, è motivo pressante a lavorare per la «nuova creazione» e per il «ministero di riconciliazione», per cui Paolo annienta quotidianamente se stesso (5, 11 – 6,10). Non vivano i lettori alla maniera dei gentili! (6,11 – 7,1).

c) Rapporti fiduciosi con i fedeli (7,2-16). Paolo, tranquillo sempre sulla propria condotta verso i Corinzi e orgoglioso di loro (7,2 sgg.), per le buone notizie portate da Tito è sollevato da profonda tristezza, e sente ristabilita la piena fiducia tra sé e la diletta comunità (7,5-16).

2.2.2. La colletta per i poveri di Gerusalemme (8,1-9,15).

L’esempio dei fedeli di Macedonia, così generosi nella loro povertà, sproni quelli di Corinto a portare a termine ciò che da tempo hanno intrapreso (8,1-15). Vengono elogiati Tito e i due inviati con lui per la colletta e per il bene della stessa comunità di Corinto. Non si mostrino i fedeli di Corinto da meno dei Macedoni! (8,16 – 9,5). Frutti della liberalità sono la benedizione di Dio e l’efficace preghiera dei beneficati (9,6-15).

2.2.3. Polemica con avversari dichiarati (10,1 – 13,10).

a) Aspetto negativo, ossia confutazione delle accuse (10,8 – 11,18). Paolo non agisce secondo i dettami della prudenza carnale, ma animato dallo spirito di Cristo: forte da lontano e da vicino, per lettera e a voce (10,1-11); né si gloria, come i suoi avversari, oltre misura, ma secondo una regola divina e nel Signore (10,12-18).

b) Aspetto positivo. A Paolo non mancherebbero motivi di gloriarsi, come non inferiore agli altri (11,1 – 12,18). Se c’è un’inferiorità di Paolo rispetto ai «superapostoli», è nell’avere rinunciato ai suoi diritti, per non essere d’aggravio alla comunità (11,1-15). Né a lui mancano meriti e doni straordinari, controbilanciati però dal «pungiglione» infitto «nella carne», che gli fa conoscere praticamente come ogni dono venga da Dio; il quale sceglie per le sue opere deboli strumenti umani (11,16 – 12,20). Questa difesa dovrebbero farla piuttosto i fedeli di Corinto, per i quali Paolo ha già fatto tanto, ed è pronto a fare anche di più, a costo pure d’essere tanto meno ricambiato di affetto quanto più egli ama (12,11-18). Nella prossima visita a Corinto Paolo procederà contro i colpevoli; spera, tuttavia, di non essere costretto a fare uso della pienezza dei suoi poteri apostolici (12,19 – 13,10).

Nell’epilogo (13,11 sgg.), ultimi avvertimenti (v. 11), due brevi affettuose frasi di saluto (v. 12), solenne benedizione augurale (v. 13).

2.3. Autenticità Paolina

Per le prove esterne si noti che 2Cor è stata usata, probabilmente, da s. Policarpo; vi si è ispirato l’autore della Lettera a Diogneto; la citano Teofilo di Antiochia e s. Ippolito. Sotto il nome di Paolo è allegata esplicitamente da Ireneo, da Clemente Alessandrino, da Tertulliano e dal Frammento Muratoriano, per fermarci alle testimonianze più antiche. Che 2Cor sia meno citata non deve sorprendere, dato che essa è meno dottrinale e più personale. Di qui, però, quel complesso di indizi interni, che ha indotto la grande maggioranza dei critici, anche non cattolici, a riconoscervi il suggello inconfondibile di Paolo. Chi parla in modo così deciso e così imperativo ai fedeli di Corinto lascia capire, senza possibilità di dubbio, la sua posizione tutta particolare nei confronti della comunità, di cui è fondatore e padre, e, all’occorrenza, anche giudice. Nessun’altra lettera ci scolpisce con tanta forza il carattere di Paolo, l’impetuosità del suo sentimento, così facile a passare dallo slancio più vibrato alla depressione, e così ostinatamente attaccato ai suoi figli spirituali, anche quando questi mostrano freddezza, o addirittura ostilità verso di lui. 2Cor s’inserisce, inoltre, in maniera così stretta nel periodo più complicato dell’apostolato di Paolo, che a nessun falsario sarebbe stato agevole un tale sforzo d’inventiva, come nessun falsario avrebbe mai pensato a presentare Paolo nel quadro compromettente che ne fanno i suoi avversari.

Per questo solo i pochi radicali ricordati per 1Cor e qualche altro isolato hanno ardito intaccare l’autenticità di questa lettera, la più paolina fra le paoline.

2.4. Integrità

Per un certo numero di critici moderni 2Cor non sarebbe un’opera di getto, uno scritto unico, bensì un complesso di più lettere scritte in circostanze diverse, unite, poi, artificiosamente, ad opera di un redattore. Così, per limitarci ad uno dei più rappresentativi, C. Clemen (Paulus, sein Leben und Werken, vol. I, Untersuchung, Giessen 1904, p. 85) vi ha ravvisato tre lettere: 1) 6,14 – 7,1; 2) 10,1 – 13,10; 3) 1,1 – 6,13; 7,2 – 9,15; 13,11-13.

Non è difficile difendere l’integrità di 2Cor fino a tutto il capitolo 9, dimostrando l’infondatezza di questi smembramenti. Difficoltà più serie s’incontrano per i capitoli 10-13, che parrebbero dovuti a uno stato d’animo profondamente diverso da quello delineato nei capitoli precedenti. Qui, in sostanza, è il fulcro della difficoltà. Tra le ipotesi emesse per risolvere questo, che è uno spinoso problema per l’impostazione storica e per l’interpretazione di 2Cor, s’è proposto pure di considerare questi quattro capitoli come la lettera «dalle molte lacrime», scritta da Paolo dopo il grave fatto lesivo della sua autorità apostolica. Ma pare che si possa spiegare in altro modo l’innegabile differenza che c’è nel tono di quest’ultima parte di 2Cor: l’asprezza improvvisa del linguaggio, talora addirittura caustico, la vivacissima ripresa polemica, che ci riportano a dolorosi retroscena nei rapporti tra l’Apostolo e la comunità. Si potrebbe, in ogni caso, supporre che notizie cattive fossero giunte nuovamente dall’Acaia durante la stesura della lettera, che poté anche essere fatta a intervalli. Spiritosa ma non seria è la battuta di H. Lietzmann, che l’enigma possa spiegarsi con una notte insonne tra 2Cor 9 e 10.

Senza pretendere di risolvere il problema, si deve osservare che le accuse contro le quali Paolo polemizza sono, in complesso, le medesime trattate con più pacatezza nei capitoli precedenti. La differenza è più nel tono che nell’oggetto della polemica. Paolo potrebbe essere stato indotto da ragioni, per così dire, tattiche a riservare per la fine questo serrato attacco ai suoi avversari e l’energica richiesta di una decisa presa di posizione da parte della comunità. Una cosa è abbastanza chiara, che cioè, se c’è una parte di 2Cor scritta da Paolo senza le lacrime agli occhi, è proprio questa in cui si vorrebbe scorgere la lettera scritta «con molte lacrime».

La tradizione manoscritta non presenta traccia del preteso lavoro redazionale, di cui 2Cor sarebbe il risultato.

3. LA CORRISPONDENZA APOCRIFA TRA PAOLO E I CORINZI

[Si compone di una] breve lettera dei Corinzi e [della] risposta di Paolo, alquanto più lunga, suggerite, pare, rispettivamente da 1Cor 7,1 e 5,9. A nome della comunità, Stefana, con altri anziani (presbyteroi), informa Paolo circa l’attività di certi Simone e Cleobio, che predicano dottrine non mai udite dalla bocca di lui, contrarie, anzi, al suo insegnamento. Negano l’autorità dei profeti; la creazione e il dominio universale di Dio, cui sembrano contrapporre gli angeli nei rapporti con il mondo; la realtà dell’Incarnazione di Cristo e la risurrezione della carne. Affinché l’errore non metta radici, gli scriventi invocano un pronto intervento di Paolo. Questi risponde rifiutando punto per punto l’insegnamento dei falsi predicatori. Pensieri ed espressioni sono ricavati, in prevalenza, dalle lettere paoline autentiche.

La scoperta del testo copto degli Acta Pauli, ad opera di C. Schmidt (Acta Pauli aus der Heidelberger koptischen Papyrushandschrift Nr. 1, Lipsia 1905) ha dimostrato in maniera decisiva che le due lettere facevano originariamente parte degli Acta. A farle considerare come testi a sé stanti e al loro credito ha contribuito il fatto che la terza lettera ai Corinzi è stata annessa, per un certo tempo, nel canone delle Chiese siriaca e armena; onde s. Efrem, con le lettere paoline, commenta anche queste due, la prima come preambolo alla seconda. Il contenuto, che ha colorito antignostico, suggerisce di porre tra il 160 e il 170 la data degli Atti di Paolo. Secondo Tertulliano (De Baptismo, 17), sarebbero opera di un prete asiatico, che, per questo falso ispiratogli dell’amore verso l’Apostolo, fu privato della sua dignità (cf. s. Girolamo, De viris ill., 17: PL 23, 651).

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Questa voce fa parte del Progetto Enciclopedia Cattolica.

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