di Urban Holzmeister
Il brano è tratto dalla voce «Croce», in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948-1954, vol. IV, coll. 951-956.
Essendo i Vangeli molto parchi di particolari nel narrare la passione del Calvario, poiché supponevano notissimi ai lettori gli orrori della crocifissione, bisogna ricorrere all’archeologia romana per conoscere esattamente le caratteristiche di questo supplizio. Benché si producesse in modo assai diverso, ad arbitrio dei giudici e dei carnefici, tuttavia molte norme erano seguite invariabilmente quanto al legno della croce e ai modi di fissarlo, alla procedura e alle persone sottoposte alla pena di croce, e furono certo applicate nella passione del Signore.
1. Strumento di supplizio
Ogni crocifissione è caratterizzata dall’uso del «legno»; è l’uccisione di un uomo mediante la congiunzione immediata e stabile con il legno. Perciò nel Nuovo Testamento la croce è chiamata semplicemente «legno» (At 5,30; 1Pt 2,24; etc.). Per lo più si usava però non un legno unico, ma due legni; già i Settanta usano per la voce ‘ētz la locuzione xylon dídymon (Gs 8,21). Il legno maggiore eretto e fissato al suolo diede il nome al supplizio: staurós è il palo confitto in terra. Si distinguono la crux sublimis e la humilis; quest’ultima si usava principalmente quando la crocifissione era unita alla condanna ad bestias.
Il legno minore trasversale poteva essere di due forme: la furca, che era originariamente uno strumento agricolo destinata a reggere il plaustro a due sole ruote levandone in alto il timone. Allo schiavo colpevole si imponeva sul collo tale forca e si conduceva per il vicinato mentre confessava il suo delitto (Plutarco, M. Coriolan., 24,9; Vitae, 225d). Si aggravava tale pena infliggendo al reo la flagellazione, che poteva prolungarsi fino all’uccisione (Svetonio, Nero, 49,2: «Nudi hominis cervice inseri furcae, corpus virgi ad necem caedi»). Ma non ogni famiglia disponeva di tale forca; quindi in sua vece si usava il patibulum, cioè la sbarra con cui di notte si chiudeva la porta di casa: imponendola sul collo del reo lo si immobilizzava. Generalmente si aggiungeva un terzo legno, il cornu, paletto appuntito infitto nel legno eretto, sul quale si condannava il condannato affinché non svenisse e morisse presto, pendendo liberamente. Di questo «corno» parlano quasi solo le fonti cristiane (cf. Franchi de’ Cavalieri, Della forca e della sua sostituzione alla croce nel diritto penale romano, in «Nuovo bollettino d’archeologia cristiana» 13 [1907], pp. 603 sgg.).
Come strumenti per fissare alla croce si usavano sia le funi sia i chiodi; la scelta dipendeva, sembra, dai magistrati e dagli sbirri. Che, mediante i chiodi, la crocifissione fosse divenuta cruenta, è attestata dal verbo prosēloûn, sinonimo di stauroûn.
2. Rei sottoposti al supplizio della croce
I popoli antichi usavano punire i reati più gravi col supplizio della croce. Ma non fu dovunque adoperata la croce, ché non fu in uso presso gli Assiri, gli Egizi ed i Greci in patria. La croce fu introdotta tra i Giudei solo da Alessandro Ianneo (morto nel 76 a.C.), principe semipagano, e dai Romani. La croce fu adibita dai Persiani, dai quali la conobbero Alessandro Magno e i diadochi. Soprattutto i cartaginesi punivano spesso i rei, nazionali e stranieri, con la croce; da loro i Romani sembra abbiano appreso tale uso, e l’applicarono in tempo di guerra contro i ribelli, i briganti, i pirati. Il supplizio a Roma era chiamato servile, ma anche un cittadino romano poté subirlo, nonostante l’opposizione di Cicerone.
3. Modo di infliggere il supplizio della croce
Ogni crocifissione era preceduta da due tormenti: il reo era flagellato (come accadeva in ogni altro supplizio), poi portava la sua croce. Mentre i latini parlano invece della furca portata, soltanto i testi greci parlano del trasporto della croce: hékastos kakoúrgon ekphérei tòn autoû staurón (Plutarco, Moralia, 554a); parimenti Artemidoro (2,56), Caritone (De Charea et Callirhoe, 4,2.3), e il testo rabbinico Gen. Rabbâ’, H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament, I, Monaco 1922, p. 587: Isacco portava le legna «come il reo la sua croce».
I testi latini antecedenti alle versioni del Nuovo Testamento non contemplano tale frase, ma descrivono come i condannati portassero il patibulum, aggiungendo talora che i rei sono poi confitti alla croce. Così Plauto: «Ita te forabunt patibulatum per vias stimulis», «tibi esse pereundum extra portam Dispessis (= dispansis) minibus, patibulum quom habebis», «Patibulum ferat per urbem, deinde affigatur cruci» (Mostellaria, I, 1,56 sgg.; Miles gloriosus, II, 4,6 sgg.; Carbonaria, fr. 2). La frase «deligata ad patibolo (!)» è spiegata: «Deligantur et circumferuntur, cruci definguntur» (Clodio, Roman. Historicorum Fragm., 2,78). Dionisio d’Alicarnasso (VII, 78) così descrive la preparazione al supplizio: il padrone consegna lo schiavo reo ai suoi compagni perché sia trascinato per il fòro; essi, stirate le due mani del condannato e legatele con le spalle e col petto al legno che arriva fino alle radici delle mani, l’accompagnavano nudo percuotendolo continuamente con sferze e dileggiandolo.
Lo stipite della croce o era stabilmente eretto nel luogo del supplizio oppure veniva fissato in terra prima del supplizio. Cicerone si vanta di aver tolto, durante il suo consolato, la croce dal campo Marzio e rimprovera Labieno, il quale ordina «crucem ad civium supplicium defigi et constitui» (Pro C. Rabirio perd. reo, 3,10; 4,11). In Sicilia, i Mamertini «more et instituto suo crucem defixerant» (In Verrem, II,5,66,169). Alla fine della guerra giudaica il legato ordinò di erigere una croce per subito sospendervi un giovane catturato (Flavio Giuseppe, Bell. Iud., VII, 6,4).
Nessun testo afferma che l’intera croce era portata; ciò è escluso anzitutto per la croce di Gesù, che intera era alta almeno 4 metri, e perciò di un peso tale che non solo un uomo già debilitato dalla flagellazione sarebbe stato incapace di portarla, ma perfino un uomo sano e robusto. Inoltre un tale apparato avrebbe richiesto molto lavoro e tempo senza alcuna utilità. Il reo, infatti, portava soltanto il patibulum sulle spalle. È dunque da concludersi: nella frase «portare la croce» si ha una sineddoche, ché non si portava la croce intera, ma solo la sua parte minore, la furca o patibulum, al luogo del supplizio (cf. C.G. Cobet, Annotationes in Charitonem, in «Mnemosyne» 8 [1859], pp. 229-303, specie 275-279). A tale trasporto della croce era congiunta una dura irrisione del condannato (Filone, In Flaccum, 9,72).
La fissazione sulla croce non era fatta nel modo quasi sempre indicato dall’arte cristiana, cioè o sull’intera croce giacente a terra oppure prima eretta, ma si procedeva con sistema intermedio: il condannato era fissato al patibulum giacente sulla terra, e poi issato sullo stipite. Ciò consegue da quanto è stato esposto: se infatti il condannato portava il patibulum al luogo del supplizio, poteva essere semplicemente innalzato dai soldati sulla croce e il suo corno. Ma se si compiva una crocifissione cruenta, il reo, prima gettato a terra, era fissato con chiodi al patibulum, sicché «patibulo suffixus in crucem tollitur» (Firmico Materno, Mathematica, VI, 31, 58 e altrove). Se la croce era molto alta si faceva uso di scale o funi. Infine bisognava fissare i piedi del reo (con funi o chiodi, forse al tendine d’Achille). Ciò è confermato da molti testi che parlano di «aliquem in crucem tollere, elevare» o, in senso passivo, «in crucem tolli» o «crucem ascendere» o «in crucem excurrere»: tali espressioni attestano che la croce era termine di una azione diretta in alto.
Ciò non si concilia con la concezione dell’arte ecclesiastica: se il condannato fosse stato confitto alla croce giacente a terra, non sarebbe stato elevato «in crucem», ma soltanto innalzato mediante la croce stessa. È da escludersi anche la ricostruzione che fu in vigore nel secolo scorso presso gli eruditi: l’intera croce anteriormente eretta, su cui il condannato saliva con una scala (così fra’ Angelico nella nota pittura). La serie di azioni che Gesù predisse a Pietro, tra cui il supplizio da subire sulla croce, era invece del tutto diversa: «Stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà ove tu non vuoi» (Gv 21,18). L’estensione delle mani non era quindi l’azione ultima del condannato, bensì la prima, del supplizio; già nel fòro dopo la sentenza del giudice lo si denudava e gli si stendevano le mani sul patibulum; poi lo si «tirava» con una fune che ne avvolgeva il corpo al luogo del supplizio, dove con la stessa fune era issato.
I crocifissi non di rado vivevano a lungo sulla croce: «vivono con sommo spasimo talora e l’intera notte e di poi ancora l’intero giorno» (Origene, In Mt. comm. ser., 140: PG 18, 1793; ed. E. Klostermann, XI, Lipsia 1935, p. 290). Uno schiavo crocifisso con chiodi a Damasco, nel 1247, morì solo il terzo giorno (P. Schegg, Pilgerreise, I, Monaco 1867, p. 140). La causa immediata della morte, secondo i medici moderni, era il sangue, che non poteva più giungere, attraverso le membra violentemente tirate, al cervello (H. Mödder); trattenuto nei polmoni, impediva i moti del cuore e dopo molto tormento cagionava in fine la morte dell’infelice. I crocifissi erano «custoditi» (Mt 27,36) dai soldati finché vivevano e dopo morti. I cadaveri pendevano insepolti per essere dilaniati dalle fiere e dagli uccelli. Non è certo che la croce fosse considerata come la morte più orrenda (che in 1Cor 13,3 è la morte del fuoco).
Talora veniva usato un sistema non consueto. Nella guerra giudaica i soldati «per scherno configgevano alla croce i Giudei prigionieri in posizione varia» (Flavio Giuseppe, Bell. Iud., V, 11,1); talora piacque ai carnefici di sospendere «capite conversos in terram» (Seneca, Ad Marciam de consol., 20,3). Alcuni erano deposti ancora vivi (Flavio Giuseppe, Vita, 75). Di altri era accelerata la morte con fuoco o fumo o frattura delle gambe o colpo di lancia. Infine ai parenti degli uccisi che li chiedevano, «corpora ad sepulturam dabantur» (Digesta, 48, tit., 24, 1).
4. La crocifissione di Gesù
Il Salvatore scelse la morte di croce liberamente, perché ignominiosissima, «per attestarci il suo amore», affinché nessuno avesse paura (Lattanzio, Instit., IV, 26: CSEL, XIX, p. 382, 2-6). Altre ragioni sono state addotte dai teologi: l’abbraccio delle mani estese, la riparazione del peccato commesso con il «legno», la scelta libera del momento della stessa morte.
Dimensioni della Croce: statura dell’uomo circa 1,70 m; la parte superiore doveva sporgere di circa 0,30 m; i piedi sovrastavano al suolo di 1 m ovvero 1 m ½ (per l’issopo di Gv 19,29); la parte confitta in terra era di almeno 1 metro. Complessivamente quindi la Croce era alta 4 m oppure 4 m ½. La forma della Croce di Gesù era capitata, con 4 estremità. Ciò è provato dai paragoni usati dai Padri (con l’uccello in volo, la nave, le lettere Τ e Φ) e soprattutto dai tipi del Vecchio Testamento applicati dai Padri: Gen 47,14-19, Giacobbe benedice Ephraim e Manasse con le braccia incrociate; Es 17,11, Mosè prega con le mani alzate per il popolo combattente; Is 65,2, «ho esteso le mie mani». In Ef 3,18 i Padri trovano le quattro dimensioni della Croce.
Incoronazione di Gesù: esisteva un mimo del «re dei Giudei», che i soldati romani solevano rappresentare spesso nei loro accampamenti. Quando Pilato consegnò loro un uomo che si era dichiarato «re dei Giudei» e la cui reità era già stata sancita mediante flagellazione, i soldati ripeterono crudelmente quel mimo facendo uso d’una corona di spine, di schiaffi, di sputi. La loro colpa appare diminuita da tale circostanza, ma non tolta.
Gesù portò la Croce vestito (Mt 27,31; Mc 15,20: «lo vestirono con i suoi indumenti e lo condussero alla crocifissione»). Dopo la crocifissione furono divise le sue vesti. I Romani in ciò si adattarono al senso di pudore dei Giudei. È da concludersi da ciò che anche sulla Croce Gesù portasse un leggero rivestimento. Ma i Padri, attenendosi alla consuetudine romana, ritenevano che Gesù fosse nudo sulla Croce.
Da quanto è stato detto sopra, risulta che la fissazione di Gesù in Croce non è stata compiuta sull’intera Croce giacente a terra, come dice il Vangelo di Pietro (10, ed. L. Vaganay, Parigi 1930, p. 235), né sull’intera Croce retta, ma mediante il patibulum che Gesù aveva portato legato alle spalle sulla veste, con il quale fu innalzato. La fissazione non fu fatta con sole funi ma con chiodi anche nei piedi, non 3 soltanto ma 4. Con questi 4 chiodi l’arte cristiana rappresentò sempre il Crocifisso fino al secolo XIII, teste s. Gregorio di Tours (PL 71, 710); 3 chiodi ammettono Nonno di Panopoli (PG 43, 901) e la Caverna thesaurorum (ed. C. Bezold, Lipsia 1888, p. 66). Gesù non rimase appeso per 6 ore alla Croce, come potrebbe far supporre Mc 15,25 con alcuni codici di Gv 19,14 (nonché il cosiddetto «autografo»: PG 92, 77), ma solo per 3. Non morì per lesione cardiaca, ma per l’eccessivo numero di lesioni traumatiche inflitte al suo corpo.
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Nota
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