Paolo nella storia

di Rinaldo Fabris

Il testo è tratto dal volume di R. Fabris, Per leggere Paolo, Borla, Roma 1993, pp. 109-116.

Nella storia dell’interpretazione Paolo è un personaggio controverso. L’eco del dibattito più o meno conflittuale si avverte già in alcuni brani delle lettere autentiche di Paolo. Esso si prolunga nell’interpretazione del suo ruolo e della sua opera da parte degli autori delle due fonti cristiane che ne conservano la memoria: gli Atti degli apostoli e le lettere deuteropaoline. Per alcuni Paolo è un uomo scelto da Dio per annunciare il vangelo ai popoli, mentre per altri è un pericoloso propagatore di novità religiose. Alla fine del primo secolo l’autore anonimo della seconda lettera posta sotto il nome di Pietro, mentre da una parte riconosce che il fratello Paolo ha scritto con la sapienza donatagli da Dio, dall’altra mette in guardia i lettori contro i travisamenti che taluni fanno delle sue lettere, dove «vi sono alcune cose difficili da comprendere» (2Pt 3,14-16).

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Paolinismo e antipaolinismo

Paolo segna la storia del primo cristianesimo con la sua forte personalità di pensatore e organizzatore della missione cristiana. Nei due centri di Corinto e di Efeso, dove vivono le comunità paoline, si forma la raccolta delle sue lettere. Nel suo nome si continuano a scrivere altre lettere che ne tengono viva la memoria e attualizzano il suo pensiero. Per combattere i propagatori delle nuove dottrine e prassi di carattere sincretistico e gnosticheggiante, l’autore delle lettere pastorali fa appello all’autorità dell’apostolo Paolo come unico garante della verità tradizionale. Dunque già verso la fine del primo secolo si manifesta quella tendenza che viene chiamata paolinismo.

In alcuni scritti e autori successivi non solo si privilegiano la figura e l’insegnamento di Paolo, ma si tende a rileggere e sviluppare il messaggio dell’apostolo in rapporto con le nuove situazioni vitali e culturali. Risale al polemista africano Tertulliano l’appellativo dato a Paolo di «apostolo degli eretici» (Adv. Marc., 111,5,4). Di fatto il prete Marcione, originario del Ponto, che vive e opera per un certo tempo a Roma fino alla sua espulsione dalla Chiesa nel 144, fonda sulle lettere di Paolo la sua visione antitetica di Dio: il Dio giudice collerico e malvagio dell’Antico Testamento, contrapposto al Padre benigno e misericordioso del Nuovo Testamento. Non è casuale che nel canone di Marcione entrino dieci lettere di Paolo – escluse le pastorali – assieme al vangelo di Luca, che egli considera di matrice paolina. Paolo infatti è considerato da Marcione come unica fonte della verità perché a lui è stato rivelato il mistero di Dio (cf. Ireneo, Adv. Haer., 111,13,1).

Marcione non è il primo né l’unico a servirsi di Paolo per fondare e dare autorità alle sue tesi in dissonanza con la dottrina tradizionale della Chiesa. Anche alcuni fautori dello gnosticismo tentano di sfruttare Paolo nell’ambito delle proprie speculazioni. In particolare Valentino, fondatore della scuola gnostica a Roma a metà del II secolo, avrebbe mutuato alcuni termini e temi paolini per rileggerli in chiave gnostica (Clemente Alessandrino, Strom., VI,1,17). È inoltre sintomatico che tra i manoscritti della biblioteca gnostica trovati nel 1945 a Nag Hammadi, in Egitto, compaiano anche due testi sotto il nome di Paolo: Preghiera di Paolo e Apocalisse di Paolo.

Il primo testo si ispira a 1Cor 2,9: «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo…». Il secondo fa leva su quanto dice Paolo in 2Cor 12,2-4 circa il suo rapimento al terzo cielo. Ambedue i testi risalgono al II secolo e risentono della corrente gnostica di Valentino.

Nell’alveo del paolinismo si possono collocare anche quei testi apocrifi che prendono spunto dalle lettere di Paolo o dagli Atti degli apostoli por ampliare in chiave fantastica e a scopo edificante alcuni aspetti della figura e dell’attività dell’apostolo. Tra questi merita di essere menzionato il ciclo narrativo che va sotto il titolo Atti di Paolo. Esso comprende un insieme di scritti che raccontano le avventure di Paolo dopo la sua conversione, i suoi viaggi missionari, la storia di Tecla; riportano la sua corrispondenza apocrifa con i Corinzi, e si concludono con il suo viaggio a Roma e il martirio. L’opera, che risale al secondo secolo, ha avuto una notevole diffusione e popolarità.

La sezione più nota degli Atti di Paolo è la storia avventurosa raccontata negli Atti di Paolo e Tecla. Questo può essere considerato il primo romanzo cristiano. In realtà protagonista dell’opera è Tecla, una giovane di ricca famiglia di Iconio, che resta affascinata dal messaggio spirituale di Paolo e rinuncia a sposarsi per seguire l’apostolo. Essa affronta e supera miracolosamente tutti i tentativi messi in atto dal fidanzato per farla desistere dal suo proposito. Alla fine, dopo essersi «autobattezzata» per immersione in una vasca d’acqua, ritrova Paolo e riceve dall’apostolo l’incarico di annunciare «la parola di Dio».

L’immagine di Paolo propagandata da quest’opera apocrifa è quella dell’apostolo che predica la rinuncia al matrimonio e la fuga dalla realtà mondana come condizione per salvarsi. Ma quello che ha provocato la condanna dell’autore degli Atti di Paolo e Tecla – un presbitero dell’Asia – è il ruolo affidato a Teda di proclamare la parola di Dio e di amministrare il battesimo. Si deve concludere che nel secondo secolo, in alcuni ambienti cristiani, Paolo viene considerato come il promotore dell’emancipazione femminile e del ruolo attivo delle donne nella Chiesa.

Sul versante opposto si sviluppa la tendenza dell’antipaolinismo, che vede in Paolo il nemico dell’ortodossia cristiana. Si tratta per lo più di gruppi settari e marginali di origine giudeo-cristiana come gli Ebioniti, i Cerintiani, i Nazorei e gli Elkasaiti. Le loro posizioni antipaoline sono conosciute in modo frammentario tramite la testimonianza di Ireneo, Tertulliano, Origene, Girolamo ed Epifanio.

Più sicuro e documentato è l’antipaolinismo dell’opera del quarto secolo che va sotto il nome di scritti “Pseudoclementini”, perché attribuiti a Clemente romano, comprendenti: la corrispondenza tra Pietro e Giacomo, la lettera di Clemente a Giacomo; 20 Omelie e 10 Riconoscimenti. I testi antipaolini di questi scritti risalgono ad una fonte del terzo secolo sorta nell’ambiente della Siria. In essi Paolo viene identificato con Simon Mago, l’avversario di Pietro. Egli si oppone anche a Giacomo, presentato come il garante della verità. Paolo è chiamato il «nemico» e «falso apostolo» perché non ha conosciuto Gesù e la sua visione di Damasco non ha alcun valore.

La polemica giudeo-cristiana contro Paolo affonda le sue radici nel secondo secolo e si prolunga fino al IV-V secolo. Essa prende lo spunto dalle note posizioni di Paolo contro la Legge giudaica. Si tenta di darsene una spiegazione con la ricostruzione di un’immagine denigratoria dì Paolo. Egli sarebbe un proselita che pretende di sposare la figlia del sommo sacerdote. Di fronte al rifiuto a causa del suo impedimento «legale», Paolo se la prende con la Legge. Gli echi di questo antipaolinismo ingenuo si trovano in alcuni scrittori attuali. Ma in genere il problema del rapporto di Paolo con il giudaismo, e in particolare la sua posizione nei confronti della Legge, viene attualmente affrontato su basi storiche e senza polemica.

Paolo riscoperto

Un biblista e teologo del III secolo, Ireneo vescovo di Lione, sottrae Paolo dalle mani degli eretici e dei gruppi settari e lo riconsegna alla tradizione della grande Chiesa. Nella sua opera Contro gli eretici egli dimostra che Paolo è in perfetta sintonia non solo con i profeti dell’Antico Testamento, ma anche con la testimonianza dei vangeli e degli altri apostoli Da questo momento iniziano i commenti alle lettere di Paolo sia nell’ambiente di lingua greca sia in quello di lingua latina.

Girolamo menziona una ventina di autori greci che commentano diverse lettere dell’epistolario paolino, distribuiti dal III al V secolo. Di questi commentari ben pochi testi si sono conservati. Di Origene è noto, nella traduzione latina di Rufino, il commento alla lettera ai Romani; anche di Teodoro di Mopsuestia, sempre nella versione latina, si conosce il commento a 10 lettere paoline.

Nell’originale greco si è conservato il testo delle 250 omelie di Giovanni Crisostomo a tutte le lettere di Paolo, del suo commento alla lettera ai Galati e di quello di Teodoreto di Ciro a tutto l’epistolario paolino. Per gli altri commentatori di Paolo si hanno solo frammenti raccolti nell’antologia di esegeti greci nota come Catene.

Nell’area di lingua latina il primo commento ad alcune lettere di Paolo è quello di Mario Vittorino, un retore convertito dal neoplatonismo che diventa vescovo di Petovio, nella Pannonia superiore, nel IV secolo. Segue il commento completo di tutto l’epistolario paolino ad opera di un autore anonimo dell’ambiente romano e attribuito per tutto il medioevo ad Ambrogio di Milano, chiamato perciò “Ambrosiaster”.

Girolamo commenta le lettere ai Filippesi, ai Galati, agli Efesini e a Tito. A sua volta Agostino fa un commento completo alla lettera ai Galati e tenta più volte di commentare quella ai Romani, ma si arresta dopo i primi sette versetti. Ha occasione di riprendere in mano i testi delle due lettere paoline negli scritti di carattere teologico e nella controversia con il monaco Pelagio. Quest’ultimo ha preparato un commento rapido ed essenziale alle tredici lettere di Paolo. Il lavoro di Pelagio verrà ripreso e depurato delle tendenze “plagiane” da Cassiodoro, a metà del VI secolo.

È senz’altro feconda la lettura di Paolo in questi tre secoli – dal terzo al quinto – nei quali si sviluppa in modo sistematico la riflessione dei cristiani sul patrimonio tradizionale della fede. Il confronto con le lettere di Paolo offre lo spunto per rispondere alle esigenze culturali dei nuovi convertiti dal paganesimo. Anche il movimento monastico con le sue esigenze di una spiritualità più profonda favorisce la riscoperta delle lettere di Paolo.

Ma i punti nodali del pensiero paolino non sono assimilati in modo organico né dalla teologia della tradizione greco-orientale né da quella occidentale. In Oriente si privilegia l’aspetto mistico e sacramentale della teologia paolina. Il grande ammiratore di Paolo, Giovanni Crisostomo, accentua gli aspetti parenetici e morali dell’epistolario paolino. In Occidente l’interesse si concentra sui problemi della giustificazione e della grazia. È un laico condannato come eretico alla fine del IV secolo, Priscilliano, che richiama l’attenzione su questi temi paolini. Dalla sua opera prende avvio la controversia di Agostino e Pelagio sul rapporto tra la grazia divina e il libero arbitrio umano, in cui i testi di Paolo sono oggetto di contesa.

Paolo nelle università

Il patrimonio dell’interpretazione paolina dei padri e dei primi scrittori cristiani viene consegnato ai maestri delle scuole capitolari e monastiche, che preludono ai primi centri di studi universitari delle città europee. Un rappresentante di questa catena di trasmettitori della tradizione dei padri è il monaco benedettino irlandese Beda, soprannominato il “Venerabile”, vissuto nell’ottavo secolo. Egli raccoglie ed espone con diligenza i commenti dei padri, soprattutto di Agostino, all’epistolario paolino.

Uno strumento che facilita la conservazione e la trasmissione dei commenti tradizionali a Paolo è la “glossa” della Bibbia nelle sue diverse forme. Si tratta di brevi notazioni apposte tra le righe (glossa interlineare) o ai margini del testo (glossa marginale), che spiegano i passi oscuri sulla base dei commenti dei padri.

L’interpretazione delle lettere di Paolo segue i criteri applicati nella lettura della Bibbia. Nell’ambiente monastico la lectio della Bibbia, orientata alla preghiera, privilegia il senso spirituale del testo facendo ricorso all’interpretazione allegorica. Dalla lettura del testo si prende lo spunto per trattare le “questioni” di carattere teologico. Nei centri degli studi universitari si tende a tenere distinta la trattazione delle questioni teologiche dalla lettura e interpretazione del testo biblico. In questo contesto si colloca anche il commento delle lettere di Paolo che i maestri propongono nella duplice forma: la “lettura” del testo con spiegazioni essenziali e l’“esposizione”, un commento più ampio in genere preparato o scritto dal maestro stesso.

Per l’epoca medievale merita di essere segnalato il commento di Tommaso d’Aquino all’epistolario paolino. Egli ha commentato Paolo nel suo secondo periodo di insegnamento all’università di Parigi, dal 1269 al 1272. Questo commento è stato scritto o dettato da Tommaso nella forma dell’esposizione sulla lettera ai Romani e sulla prima ai Corinzi fino a 1Cor 7,9. Il seguito del commento di Tommaso al testo delle lettere di Paolo proviene dagli appunti del suo amico e collaboratore Reginaldo da Piperno, che ha raccolto le spiegazioni del maestro nei periodo del suo insegnamento in Italia (1259-1265). Tommaso si preoccupa di cogliere nel senso letterale del testo di Paolo il messaggio teologico e morale. Egli suddivide il testo da commentare secondo i criteri della dialettica scolastica e lo esamina accuratamente facendo ricorso al patrimonio dell’esegesi tradizionale dei padri e commentatori antichi. In ogni caso il commento di Tommaso d’Aquino all’epistolario paolino rappresenta il frutto più maturo dell’esegesi medievale.

Paolo nella Riforma protestante

Il monaco agostiniano Martin Lutero, per il suo secondo corso nella facoltà teologica di Wittenberg in qualità di lettore della Bibbia, sceglie la lettera di Paolo ai Romani. Egli tiene le lezioni sul testo di Paolo nell’anno accademico 1515-1516. Qualche anno prima l’umanista francese Giacomo Lefèvre d’Etaples aveva pubblicato una nuova edizione delle lettere di Paolo con un breve commento.

L’interesse per Paolo nell’ambiente di Wittenberg era pari a quello per Agostino. Infatti il vicario generale degli Agostiniani in Germania, Giovanni Staupitz, aveva scelto Paolo come santo protettore della facoltà teologica di Wittenberg. È in questo clima che si colloca il commento di Lutero alla lettera più matura di Paolo.

Alcuni contemporanei di Lutero paragonano il suo itinerario spirituale a quello di Paolo. Anch’egli è un “convertito” dalla iniziativa travolgente di Dio. L’impatto con la lettera ai Romani segna la svolta teologica della riforma di Lutero anche se le conseguenze di carattere ecclesiale e politico si avranno negli anni successivi. Egli scopre che la «giustizia di Dio», di cui Paolo parla in Rm 1,17, non è la giustizia che condanna, «ma propriamente è quella giustizia per cui Dio, che è giusto e santo, rende giusto l’uomo e lo santifica».

Il commento di Lutero al testo di Romani è influenzato dall’interpretazione di Agostino. In seguito per precisare e motivare le sue posizioni riguardo ai punti cruciali della controversia con la Chiesa cattolica – la giustificazione, la fede, la legge e le opere – Lutero rimanda ai testi di Paolo, soprattutto alla lettera ai Galati, che egli commenta l’anno successivo di Romani, nel 1516/17, e poi ancora nel 1535. Lutero stabilisce un rapporto personale e immediato con Paolo e i suoi scritti. Il suo interesse prevalente non è l’interpretazione del testo paolino, ma il succo del messaggio teologico e spirituale.

Più attrezzato ed equilibrato sul piano esegetico è il commento di Giovanni Calvino all’epistolario di Paolo. Nel 1536 egli cura la pubblicazione dei suoi corsi all’università di Ginevra e delle prediche nella chiesa di S. Pietro sulle lettere paoline. I lavori su Paolo dei padri della Riforma ispirano la teologia e la spiritualità protestante.

Paolo nella teologia moderna

Chi ha determinato il destino di Paolo nell’epoca moderna sono stati per lo più studiosi di storia della Chiesa e teologia. Più che l’interpretazione delle lettere dell’apostolo, si è cercato di ricostruire il suo ruolo nel contesto storico e culturale del suo tempo e nell’ambito del cristianesimo primitivo.

I presupposti ideologici delle varie scuole condizionano la ricerca su Paolo e il suo messaggio. Nell’ambito della cosiddetta “scuola di Tubinga”, nella prima metà del XIX secolo, si tenta di collocare la figura e gli scritti di Paolo in uno schema storiografico che si ispira ai criteri della dialettica hegeliana. Paolo rappresenterebbe la linea antilegalista, in antitesi con il legalismo di marca petrina. L’opera lucana e gli scritti della tradizione paolina sono la sintesi conciliatrice.

Va dato atto che per la prima volta in modo sistematico a partire dalla scuola di Tubinga si tenta di collocare gli scritti di Paolo nel loro contesto storico e culturale. Questo indirizzo si accentua nella scuola della “storia delle religioni” della fine del XIX e inizio del XX secolo. La figura e il pensiero di Paolo si spiegano sullo sfondo delle credenze e dei culti presenti nel mondo greco-romano. L’antitesi carne e spirito riflette il dualismo greco. Il battesimo e l’eucaristia si ispirano alle religioni misteriche. In breve Paolo avrebbe dato una netta impronta ellenistica all’esperienza cristiana nata nell’ambiente giudaico. È in questo contesto che Paolo viene considerato il vero “fondatore” del cristianesimo (W. Wrede).

Sulla base della stessa metodologia che mette a confronto le varie forme di religione o di pensiero, altri studiosi ritengono che la figura e il messaggio di Paolo si integrano meglio nell’ambiente culturale giudaico in particolare nelle correnti messianico-apocalittiche del giudaismo. A partire dalla sua esperienza di Gesù Cristo risorto, Paolo matura la coscienza di essere il suo apostolo-inviato che vive e opera alla vigilia della fine del mondo. Da questo nucleo caldo derivano la sua visione della salvezza, della Chiesa e dell’etica cristiana. In questo contesto si parla della “mistica” di Paolo nel senso di una immedesimazione spirituale di Paolo con Cristo risorto.

In questo clima culturale, in cui si tenta di spiegare in modo razionale ogni fenomeno religioso, anche l’esperienza paolina della “chiamata” o “conversione” sulla via di Damasco viene sottoposta a revisione critica. Sono di moda le spiegazioni di carattere psicologico. Il cambiamento di Paolo è da collegarsi con una profonda crisi intellettuale o morale. A sua volta questa si spiega con il suo temperamento e la precedente esperienza religiosa e morale nel giudaismo. Un’eco di questa crisi paolina, che vive in modo traumatico il rapporto con la Legge giudaica, si ha nel capitolo drammatico di Rm 7,7-25. Paolo, che perseguita accanitamente i cristiani, è preso dai rimorsi e ha la visione di quel Gesù che essi venerano corno loro Signore.

Due teologi contemporanei hanno dato un contributo originale per l’interpretazione del messaggio di Paolo: K. Barth e R. Bultmunn. Il primo con il suo originale commento dalla lettera ai Romani, il secondo con diversi studi su Paolo e la “Teologia del Nuovo Testamento”. K. Barth pubblica la prima edizione della sua Lettera ai Romani nel 1919. Qui c’è già in embrione l’impostazione della sua ricerca teologica futura, incentrata sulla totale alterità di Dio e la novità del suo regno rispetto a tutte le ricerche e affermazioni dell’uomo. Nella seconda edizione del 1922 Barth precisa il rapporto tra regno di Dio e responsabilità dell’uomo.

R. Bultmann nelle sue indagini storiche ed esegetiche su Paolo segue l’orientamento della scuola comparatista delle religioni. Invece dà un contributo originale per l’interpretazione della teologia paolina. Paolo, secondo Bultmann, per primo avrebbe tentato di tradurre in chiave “esistenziale” il messaggio “mitico” della tradizione primitiva cristiana. In questa rilettura paolina la risurrezione di Gesù non sarebbe altro che il significato salvifico della sua morte in croce per noi.

Paolo e gli ebrei

La dura polemica dei giudeo-cristiani del II secolo nei confronti di Paolo fa intuire che egli ha un conto in sospeso con i suoi connazionali. Nei testi ufficiali del giudaismo antico – Mishna e Talmud – non si registra nessuna presa posizione esplicita nei confronti di Paolo. Gli ebrei dei primi secoli preferiscono ignorare il caso di Paolo. Invece si può dire generalmente che nella tradizione giudaica successiva Paolo è considerato un “apostata” e un oppositore pericoloso a motivo della sua dura polemica contro la Legge e le osservanze ebraiche.

Nella ricerca ebraica dell’epoca moderna e contemporanea si ritiene che Paolo è il vero fondatore del cristianesimo e il fautore della sua radicale opposizione all’ebraismo. Infatti Paolo ha fatto di Gesù crocifisso il Figlio di Dio e il mediatore della salvezza universale. E questo non può essere accettato da nessun ebreo senza rinnegare la sua fede tradizionale. Su queste posizioni si trova Joseph Klausner, che nel 1939 pubblica una ricerca dal titolo: Da Gesù a Paolo. Più aperto e favorevole al dialogo si mostra S. Ben Chorin, che nel 1970 scrive una ricerca su Paolo. L’apostolo delle genti in prospettiva giudaica. Si deve riconoscere che Paolo non ripudia il suo popolo, anzi ne prende le difese, ed egli stesso si considera ebreo della tribù di Beniamino. È vero che egli nella sua prima lettera indirizzata ai cristiani di Tessalonica attribuisce ai giudei la condanna a morte di Gesù e dice che i «giudei non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini» (1Ts 2,15). Questo giudizio negativo di Paolo sui giudei assume un modo di sentire e di esprimersi diffuso in alcuni ambienti pagani (Tacito, Hist., 5,5).

Ma una tale valutazione negativa di Paolo non riguarda i giudei in quanto gruppo etnico-religioso, ma in quanto essi, secondo l’apostolo, si oppongono al disegno di Dio che vuole salvare tutti gli uomini per mezzo dell’annuncio del vangelo. Infatti nello stesso contesto Paolo accenna al fatto che i giudei «hanno messo a morte i profeti». L’accusa di infedeltà agli appelli di Dio è un tema ricorrente negli stessi testi profetici dell’Antico Testamento. Questo tema viene ripreso nella lettera ai Romani, dove Paolo nei capitoli 9-11 traccia l’abbozzo di un “Trattato pro Judaeis”, l’unico in tutta la storia cristiana.

Egli afferma in primo luogo che la parola di Dio, in cui sono contenute le promesse a favore di Israele, non è venuta meno perché un nucleo di ebrei ha aderito al vangelo. Questo corrisponde allo stile dell’agire di Dio che da sempre, anche nella storia biblica, salva tutti a partire da un piccolo resto fedele. Inoltre dichiara che gli ebrei sono «la primizia e la radice santa», l’ulivo buono sul quale sono stati innestati i pagani. Ora, dice Paolo, i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili. Perciò egli può annunciare che nel disegno misterioso di Dio alla fine tutto Israele sarà salvato (Rm 11,26).

Il sogno di Paolo è che la salvezza arrivi a tutti gli uomini e si formi un solo popolo di Dio formato da ebrei e pagani. La ragione ultima di questa speranza, che sostiene la missione universale di Paolo, è la sua fede in Gesù, il Messia crocifisso, che Dio mediante la risurrezione dai morti ha rivelato come il suo Figlio e costituito come Signore di tutti gli esseri umani. Paolo sa che l’annuncio di un Messia crocifisso è «scandalo per i giudei». Ma questo è il punto focale e la novità del vangelo. Qui si innesta anche il suo conflitto con alcuni giudeo-cristiani di Gerusalemme circa il ruolo della legge, della circoncisione e delle osservanze ebraiche.

Attualmente è in corso una revisione del rapporto di Paolo con la Legge e il giudaismo. Si tende a precisare che la polemica di Paolo non è diretta né contro i giudei né contro il giudaismo. Egli non contesta il ruolo attribuito dal giudaismo alla Legge nell’ambito del patto. Sostiene invece che nella prospettiva di fede cristiana è Gesù Cristo l’unico mediatore di salvezza stabilito da Dio per tutti gli esseri umani. A questo ruolo di Gesù è subordinata anche la Legge. Una migliore conoscenza di Paolo sulla base dei suoi scritti e sullo sfondo del giudaismo del primo secolo potrebbe eliminare alcuni pregiudizi che inquinano ancora oggi il dialogo tra ebrei e cristiani.

Paolo nella letteratura e nell’arte

Un riflesso importante della storia dell’interpretazione di Paolo si ha in alcuni testi, raffigurazioni e composizioni musicali che hanno per soggetto la personalità e l’opera dell’apostolo. Alcune sacre rappresentazioni dell’epoca medievale sì ispirano agli Atti apocrifi di Paolo e danno veste drammatica agli episodi della sua conversione e del martirio. È evidente l’intento celebrativo o edificante di queste opere destinate ad un pubblico popolare di credenti.

Anche il dramma epico-religioso dell’epoca moderna e contemporanea si impernia sugli stessi soggetti tradizionali. L’immagine dominante è quella di Paolo persecutore che diventa con la conversione l’apostolo cristiano. Nel clima polemico della riforma protestante, il Paolo ebreo persecutore rappresenta il mondo cattolico, mentre il Paolo convertito si identifica con quello della riforma.

La conversione di Paolo viene proposta anche come modello della vittoria morale sugli stimoli della carne e del superamento del conflitto tra bene e male. Alcune ricostruzioni romanzate della vicenda di Paolo risentono del razionalismo moderno. Paolo è presentato come un predicatore della verità eterna dell’amore cristiano oppure come un personaggio preso da sogni di onnipotenza religiosa, che però fallisce nella sua esperienza familiare e pratica. Lo scrittore F. Werfel, nel suo romanzo Paolo tra i giudei del 1926, ricostruisce il conflitto dell’apostolo con i rabbini ebrei e con gli apostoli.

Quest’opera di Werfel è stata musicata l’anno successivo alla sua pubblicazione. Essa rientra nella serie dei pochi testi di oratori musicali ispirati alla vita di Paolo. Il più celebre è quello di F. Mendelssohn presentato al festival di Düsseldorf nel 1836. Il testo prende lo spunto dal racconto della conversione di Paolo e della sua prima missione tra i pagani riferita nei capitoli 9 e 13-14 degli Atti degli Apostoli.

A questa immagine letteraria di Paolo si deve aggiungere quella fissata nell’arte visiva. L’immagine di Paolo nei primi secoli cristiani assume due indirizzi iconografici. Nell’ambiente romano Paolo è raffigurato calvo, fronte alta, naso aquilino, barba appuntita; in quello bizantino Paolo è presentata con la testa coperta da capelli o canuto e con la barba corta. Nelle raffigurazioni dell’alto medioevo Paolo appare come l’apostolo o maestro che tiene nella mano un libro o rotolo, oppure è seduto allo scrittoio. A partire dal XIII secolo compare nelle raffigurazioni di Paolo la spada, segno del suo martirio.

I pittori moderni abbandonano l’iconografia stilizzata di Paolo e danno un’immagine più attualizzata dell’apostolo. A. Dürer, nella tavola dei quattro apostoli del 1526, ritrae un Paolo imponente con tratti marcati. I pittori italiani dei secoli XVI-XVII fissano l’immagine della conversione di Paolo caduto da cavallo: G. Bellini, a Pesaro; Michelangelo a Roma, nella Cappella Paolina; Caravaggio a Roma, a S. Maria del Popolo. Lo stesso schema iconografico si ritrova nella conversione di Paolo del Rubens. I pittori dell’epoca barocca rappresentano Paolo predicatore e prigioniero. Nella pittura e scultura contemporanea prevale la figura di Paolo visionario e asceta.

Come si vede, ogni epoca tende a rileggere e reinterpretare la figura di Paolo secondo i propri modelli culturali e le diverse idealità.

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