Conflitto e identità nella lettera ai Romani

Philip F. Esler, Conflitto e identità nella lettera ai Romani. Il contesto sociale dell’epistola di Paolo, trad. it. di Franco Bassani, Paideia, Brescia 2008, pp. 512, euro 49,90.

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[Recensione di Armando Rolla tratta dal sito “Christianismus”,
per gentile concessione]

Fino agli anni ‘50 del secolo scorso è prevalsa la tendenza di considerare la lettera ai Romani, in base ai capitoli l-8, come «un compendio della religione cristiana» (Melantone). Con questo massiccio libro Esler, docente di Nuovo Testamento all’Università di St. Andrews (Scozia), intende reagire contro questa tendenza, convinto com’e che la lettera ai Romani deve essere letta in stretto rapporto con il contesto originario, valorizzando sia la destinazione romana sia le circostanze immediate nella vita di Paolo. Nel fare questo egli utilizza la teoria sociale dell’identità, approfondita da Henry Tajfel, che è in stretto rapporto con la teoria dell’autocategorizzazione sviluppata inizialmente da J. Turner.

Il capitolo II, molto tecnico e anche piuttosto astruso per i “non addetti ai lavori”, illustra appunto questa teoria dell’identità sociale, una delle tante teorie sociologiche applicate dagli esegeti nello studio della Bibbia, a cominciare dagli anni ’80 del secolo scorso. Per l’autore l’identità sociale è una nozione sociopsicologica consistente nell’idea che una persona possiede per appartenere ad un gruppo. Secondo questa teoria il leader è «promotore d’identità, capace di trasformare l’io e il tu in un noi, in rapporto a un particolare progetto in un particolare contesto, che conferirà all’identità sociale condivisa senso, scopo e valore».

Il capitolo III studia l’etnicità e i conflitti etnici nel mondo antico mediterraneo. Secondo l’autore in questo mondo l’etnicità era fortemente orientata al gruppo (famiglia, unità militare, associazione volontaria, il villaggio e la città) ed esistevano anche conflitti etnici, però «è un anacronismo grossolano usare l’espressione “antisemita” o “antisemitismo” per qualsiasi fenomeno del mondo mediterraneo antico… I greci e i romani erano certamente etnocentrici: provavano avversione reciprocamente e per altri popoli, inclusi i giudaiti, ma non lo facevano per motivi razziali» (p. 73).

Il capitolo IV ricostruisce il contesto sociale di Roma negli anni 50 d.C. Come in tutta l’area mediterranea, anche a Roma esistevano solo due componenti sociali. Vi era innanzitutto un’aristocrazia minoritaria (2-5%), caratterizzata dal bisogno di onore, successo elettorale ottenuto combattendo, ostilità (inimicitiae) verso chi disonorava l’élite, in possesso di una casa con atrio (per ricevere i clienti!) come simbolo del potere. V’era poi una non élite maggioritaria, che cercava di imitare l’aristocrazia però abitava le insulae e volentieri creava associazioni volontarie (collegia).

Non esisteva la classe media delle nostre società moderne. I cristiani e gli ebrei (che Esler denomina sempre “giudaiti” anziché “giudei”) si riunivano in edifici differenti: i giudaiti in edifici cultuali (proseuchai), i cristiani invece solo in case private (ecclesia domus).

Dopo i primi quattro capitoli a carattere introduttivo, i capitoli seguenti affrontano l’analisi della lettera ai Romani soprattutto con il parametro della teoria sociologica dell’identità, illustrata in precedenza. Innanzitutto il capitolo V delinea l’intento della lettera in base a Rom 1,1-15 e 15,14-16,27. Esler è convinto che Paolo si rivolga ad un uditorio romano composto di una maggioranza di cristiani gentili e di una minoranza di cristiani giudaiti.

Basandosi su Rom 16, considerato parte integrante della lettera anziché un brano desunto da un’altra lettera come pensano alcuni moderni, egli deduce che a Roma esistevano almeno cinque comunità cristiane. Purtroppo esse erano in conflitto fra loro a motivo della suddetta ricerca dell’onore, tipica delle famiglie aristocratiche, e anche a motivo del loro carattere misto (conflitto fra ebrei e greci). Per questo Paolo, in procinto di partire per la Spagna, utilizzando le comunità romane come base logistica, manda la sua lettera «che rappresenta un tentativo tanto elaborato quanto pregnante di riproporre l’identità del movimento di Cristo in una forma in cui domina il riconoscimento della differenza etnica. È una lettera in cui la verità teologica dell’unicità di Dio, che giustifica tutti senza distinzione, costituisce il fondamento dell’identità comune patrocinata da Paolo» (p. 431).

Questa identità comune è bene espressa in Rom 1,1-3,20, dove greci e giudaiti risultano tutti peccatori: per il peccato dei greci (omosessualità maschile) Paolo si ispirerebbe a Genesi 19 (Sodoma e Gomorra); per l’omosessualità femminile ad Ezechiele 16. Il fondamento di questa identità sociale è invece fornita da Rm 3,21-31, dove Paolo parla della giustizia mediante la fede in Gesù Cristo. Innanzitutto questa fede non è quella che aveva Gesù (genitivo soggettivo), come sovente è intesa negli Stati Uniti d’America, bensì quella che ha per oggetto Gesù (genitivo oggettivo). In secondo luogo il verbo greco dikaiousthai ha il significato di “rendere effettivamente giusti”, come lo ha sempre inteso il cattolicesimo romano. Qui Esler fa proprio il recente parere dell’esegeta luterano Käsemann che si oppone ai luterani classici che vi vedevano solo una dichiarazione forense che non modifica per niente l’individuo. Questo significato di giustizia, basato su quello della versione greca dei Settanta, per gli ebrei era la componente essenziale della loro identità. Paolo la riferisce ai giudei e ai pagani. Infine il termine greco kaukesis, normalmente inteso nel senso negativo di “vanto”, secondo Esler ha il significato positivo di “rivendicazione del proprio onore”, un aspetto tipico delle culture mediterranee.

In Rom 4 Abramo figura come il prototipo dell’identità di gruppo. Questa identità ha la sua origine nel battesimo (Rom 5-6) che a Roma veniva praticato per immersione totale (inclusa la testa!) nel fiume Tevere. Il battesimo cristiano derivava da quello del Battista ed era collegato con il dono dello Spirito Santo (battesimo e cresima), accompagnato sempre da una molteplicità di stati estatici (“stati modificati di coscienza”).

Paolo esercita la sua leadership sull’intero gruppo cristiano in Rom 7 dove egli evidenzia, soprattutto per i giudeo-cristiani, il rapporto tra Legge e peccato. L’“io” di questo capitolo non denota l’esperienza personale di Paolo (Lutero), né significa Adamo come simbolo dell’intera umanità (Lyonnet e Dunn), bensì indica Paolo associato ai giudeo-cristiani di Roma.

La ricezione dello Spirito al momento del battesimo (Rom 8) era accompagnata da doni carismatici. «Simili fenomeni, probabilmente unici nel mondo mediterraneo antico, sembra abbiano caratterizzato i primi seguaci di Cristo giudaiti a Gerusalemme (Atti 2,14-21) e ben presto si diffusero tra i seguaci non giudaiti al momento del battesimo (Atti 10,44-48). I fenomeni carismatici erano fondamentali nelle comunità di Paolo» (p. 300). Esler propone di abbandonare i termini “escatologia” e “apocalittica” nell’interpretazione di Rom 8, perché non possono essere applicati alla concezione del tempo nel mondo mediterraneo del I secolo d.C. Contrariamente all’Europa e all’America, fortemente orientate al futuro, la cultura rurale del Mediterraneo orientale si preoccupava meno del futuro. Nella lettera ai Romani non viene presa in considerazione la natura del regno venturo (Bartsch), e Paolo è interessato al gruppo nel suo insieme (Käsemann) anziché al singolo individuo.

Opponendosi ad Agostino e a Calvino che riferiscono Rom 9-11 alla predestinazione dei singoli uomini, alcuni alla salvezza e altri alla dannazione, con la stragrande maggioranza degli studiosi odierni Esler ritiene che questi capitoli non abbiano di mira il destino del singolo ma quello collettivo di giudei e gentili nel disegno di Dio, con particolare riguardo all’elezione d’Israele. Che Paolo pensi soprattutto ai giudeo-cristiani di Roma lo mostra il fatto che il 39% del testo della sua lettera ai Romani è costituito da citazioni dell’Antico Testamento (esattamente 51 delle 89 presenti in tutta la lettera).

Riguardo infine ai “deboli e forti” di Rom 14,1-15,13, realmente esistenti nelle comunità romane (non si tratta di finzione letteraria!), i deboli vengono identificati con i giudeo-cristiani in maggioranza, i forti invece con gli etnico-cristiani e qualche giudeo-cristiano liberale (come Paolo). L’Apostolo esige che i due sottogruppi (i deboli e i forti), che costituivano le comunità romane, siano uniti e si accettino reciprocamente, rinunciando alla differenza di opinione su cibi, vino e feste.

Il libro di Esler è molto denso di idee. Penso che le poche qui riprese mostrino l’utilità di questa ricerca condotta all’insegna di una teoria sociologica applicata allo studio di un fondamentale scritto del Nuovo Testamento. La bibliografia di 40 pagine evidenzia il grande impegno dell’autore e l’indice dei nomi e delle cose facilita la consultazione del grosso volume.

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