Le radici farisaiche di Paolo – 2

(2 – Continua da qui)

Che l’insegnamento di Hillel fosse improntato a una certa indulgenza, mentre quello di Shammaj a un’intransigenza rigorosa, lo si evince dal trattamento ch’essi riservarono, secondo le fonti, ai proseliti. Davanti al problema dell’occupazione romana e della convivenza con i “pagani”, ad esempio, Hillel si dimostra sempre acquiescente, disponibile al dialogo. Dal punto di vista della considerazione della Legge, Shammaj ammette la violazione del sabato soltanto in caso di guerra (M Shabb. 19a): ma questo può ben essere interpretato come una reazione a quanto accadde nel 63 a.C., quando Pompeo conquistò Gerusalemme e gli assediati non fecero nulla di sabato per ostacolare i preparativi del nemico, come narra Giuseppe Flavio (Bell. Iud. 1,7,3).

Il senso di moderazione dimostrato da Hillel nei confronti degli esterni, tuttavia, nella scuola di Shammaj appare spesso rivolto agli “interni”. Semplicemente considerando i casi riportati da Frédéric Manns nel suo volume Leggere la Mišnah (trad. it. Brescia 1987), l’indulgenza che Shammaj rivela di fronte alle classi sociali del mondo antico svantaggiate per eccellenza – i poveri le e donne – supera di gran lunga quella di Hillel. Ai passi in cui Shammaj e i suoi discepoli prendono le difese dei meno abbienti – per es. quando sostengono che i beni abbandonati devono essere destinati a costoro, e non spartiti indistintamente, come sosteneva Hillel – andrebbero quindi affiancate tutte le disposizioni a favore delle donne. Il senso di giustizia di Shammaj, del resto, è comprovato dalla sua opposizione al matrimonio coatto delle fanciulle (cf. 1Cor 7,25!): «È ben nota – scrive F. Manns – la ferma presa di posizione di Shammaj a proposito del divorzio: se la donna non è colpevole di cattiva condotta, il marito non la può ripudiare senza il suo consenso; Hillel accetta invece il divorzio anche per un motivo così futile come una pietanza bruciata (M Gitt. 9,10)… Nelle discussioni su questioni matrimoniali con esponenti della scuola di Hillel, Shammaj e i suoi discepoli prendono sempre le parti della donna» (op. cit., p. 54) Sono tutti elementi, questi, che gli esegeti e gli storici non mancano mai di considerare, affrontando i passaggi delle lettere in cui l’apostolo riflette sulla disciplina delle relazioni matrimoniali (come nel capitolo settimo della prima lettera ai Corinzi).

Il nome del maestro di Paolo, Gamaliel, viene chiamato in causa nella narrazione di At del processo intentato dal Sinedrio nei confronti degli apostoli, arrestati per ordine del sommo sacerdote e dei suoi aderenti («la setta dei Sadducei»). Secondo il testo,

«Allora si alzò nel Sinedrio un fariseo di nome Gamaliele, dottore della Legge, onorato da tutto il popolo, e richiese che quegli uomini fossero condotti fuori un momento. Poi disse loro: “Israeliti, riflettete bene su ciò che state per fare riguardo a questi uomini [gli apostoli]. Infatti tempo fa venne fuori Teuda, che si spacciava per un personaggio straordinario e gli andò dietro un gran numero di uomini, quasi quattrocento. Ma quando fu ucciso, tutti i suoi aderenti furono dispersi e si ridussero a nulla. Dopo di lui saltò fuori Giuda il Galileo, nei giorni del censimento, e trascinò il popolo dietro di sé. Ma anche egli finì male, e tutti i suoi aderenti furono dispersi. Ora dunque io vi dico: Non impicciatevi di questi uomini, e lasciateli fare. Perché se questo è un progetto o un’impresa messa su dagli uomini, sarà distrutta; ma se viene da Dio, non potrete annientarli: guardatevi dal farvi trovare in lotta con Dio!”. Si attennero al suo consiglio e, fatti chiamare gli apostoli, li fecero percuotere e comandarono loro di non parlare più nel nome di Gesù. Quindi li rilasciarono» (At 5,34-40).

L’intervento di Gamaliel, che l’autore degli Atti presenta assai favorevolmente, è improntato a grande prudenza ed equanimità: in questo si dimostrerebbe coerente con l’atteggiamento generale della Casa di Hillel. Il fatto che la narrazione lucana abbia riportato quest’episodio decisivo per le sorti del movimento dei primi seguaci di Gesù è una riprova della continuità che lega la vicenda di Paolo al fariseismo. Pare assodato, infatti, che l’apostolo non abbia mai voluto rinnegare le proprie radici farisaiche, né che si sia posto nei confronti di esse in termini di pura e semplice dialettica negativa.

Lo studio dell’americano John Neyrey, Paul, in Other Words. A Cultural Reading of His Letters (Louisville 1990), conferma la preoccupazione paolina, di matrice farisaica, per le categorie dell’ordine, della gerarchia, delle norme di purità, anche dopo la svolta della chiamata-conversione, in cui egli prende coscienza – per dirla con Erik Peterson – del proprio ruolo di “apostolo” (ossia inviato) “dai Giudei ai Gentili”. Paolo non pensò mai di abbandonare le coordinate ermeneutiche ed etiche ricevute dalla propria educazione, né avrebbe avuto motivi per farlo.

S’intende che non tutto Paolo derivi da qui (la halakhah dell’apostolo è occasionale, non sistematica, e in molti casi deriva dall’elaborazione di Gesù e dei suoi primi discepoli), ma buona parte delle aspre discussioni che hanno impegnato gli studiosi in età moderna riguardo alle considerazioni paoline sulla Legge, come vedremo, sono state ridimensionate proprio dal recupero di una retta comprensione “intra-giudaica” del suo messaggio.

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