Testo tratto da Edith Stein, La struttura ontica della persona e la problematica della sua conoscenza, trad. it. di M. D’Ambra, in Natura, Persona, Mistica, Città Nuova, Roma 1997, pp. 49-113: pp. 68-74.
Chi vuol conservare la propria anima la perderà [*]. Quindi l’anima può entrare in se stessa solo se non agisce direttamente per se stessa. Come è da intendersi questo? Si può certo immaginare che un uomo si stanchi del mondo e cerchi di trovare se stesso prima che la grazia lo afferri. Egli può tentare di ritrovare se stesso liberandosi dal mondo, cioè sospendendo le reazioni naturali. Il risultato di quest’attività puramente negativa sarà quindi negativo. Egli si svuota chiudendosi nei confronti di un riempimento dall’esterno: la mortificazione conduce alla morte. La peculiarità della vita animata è che essa deve affluire nell’anima. E quanto più si tratta della propria vita, quella più intima, tanto meno essa è in grado di procurarsela da se stessa.
Un altro tentativo per conservare se stessi consiste nel contrapporre la propria singolarità al mondo: non sottrarsi alle impressioni e alle reazioni, ma porre l’accento su un modo di reagire. “Può essere sbagliato, può essere una cosa irragionevole – io mi comporto come pare a me”. Il risultato è che l’anima si consuma in reazioni che certamente portano l’impronta della propria individualità, ma che non poggiano su di essa.
Rimane ancora una terza strada: che l’uomo cerchi di ottenere la grazia, al fine di trovare se stesso nel regno della grazia. In questa situazione egli non è ancora stato toccato interiormente dalla grazia (preveniente), ma è solo consapevole che in essa e solo in essa si possa trovare pace e sicurezza.
Ora, esiste la legge singolare secondo cui lo sguardo rivolto alla propria anima sbarra la strada alla grazia e quindi a se stessi. Solo chi si volge alla grazia senza riserve può diventarne partecipe. Questo appare strano, perché solitamente si pensa che sia la sollecitudine per la propria la salvezza a far tendere l’anima verso la grazia. Come può essa allo stesso tempo prendersi cura di sé e allontanarsi da sé? Certo non è possibile, finché la sollecitudine è veramente tale.
Ma dietro questa parola si celano diverse cose. La sollecitudine per presuppone l’essere occupati con l’oggetto di cui ci si prende cura. Non è questo prendersi cura che conduce alla salvezza. Esso tiene la cosa stretta a sé. Distinto da esso è qualcosa che è ben indicato come sollecitudine o cura, ma che in alcun modo è cura per, e non implica alcun interesse per ciò di cui ci si prende cura: è l’angoscia, di cui è piena ogni anima insicura (…).
Lo stato dell’anima che suscita l’angoscia e in essa si esprime è il peccato (peccatum originis e peccatum actuale). Fintanto che l’angoscia che qui consideriamo – l’angoscia metafisica – viene confusa con l’angoscia per qualcosa, questa trascina l’anima in una vita periferica: in attività che consentano di sfuggire a ciò che angoscia, o in una dedizione al mondo esterno che copra l’angoscia attraverso le emozioni che ne derivano, allontanandola da se stessa.
Questa seconda cosa – lo stordirsi – è poi ancora possibile se l’angoscia metafisica come tale ed il suo nesso con il peccato sono già stati conosciuti, anche se soltanto ne sussiste una conoscenza puramente razionale e nessun sentire interiore. Infatti, non appena l’anima avverte veramente l’angoscia e la peccaminosità, non può liberarsene, quand’anche lo voglia e si getti con tutto il suo desiderio nella vita periferica. Rimane allora fermamente legata a sé, nonostante voglia donarsi. L’essere legata all’indietro, che non contrasta con l’allontanamento da essa, è una caratteristica primaria dell’angoscia.
Ciò che rende sperimentabile il peccato e risveglia l’angoscia è il contatto con la grazia e la visione della santità. Essi si implicano reciprocamente. Chi non è interiormente toccato dalla grazia non vede la santità, neanche dove la incontri. Ma non appena la grazia lo illumina con la sua luce, anche prima che egli si aperto ad essa, i suoi occhi si dischiudono e la santità diventa per lui visibile. Cronologicamente, le due cose possono avvenire insieme: egli può, dinanzi alla santità, essere toccato dalla grazia. Ma può anche accadere che la grazia agisca in lui senza che egli incontri un santo.
Parliamo sempre della grazia preveniente, che è il presupposto per la libera adesione ad essa e l’ingresso nel suo regno. Nei suoi confronti sono possibili diversi atteggiamenti liberi. L’anima può chiudere gli occhi dinanzi alla grazia, perché il guardarla risveglia e accresce la sensazione del proprio peccato e l’angoscia, e può cercare di evadere da essa e da se stessa.
L’anima – come abbiamo detto – rimane legata a sé e l’angoscia cresce sotto tutte le emozioni attuali. Può guardare la grazia in faccia, starle di fronte, e ciò nonostante chiudersi ad essa. È, questo, l’atteggiamento della persona ostinata. Vuole scacciare l’angoscia facendovi resistenza, invece vi affonda sempre di più. C’è un ultima possibilità: abbandonarsi alla grazia senza riserve. È l’allontanamento più deciso dell’anima da se stessa, l’abbandono più incondizionato. Ma per potersi abbandonare così, essa deve afferrarsi così forte, lasciarsi abbracciare dal centro interiore con una forza tale che non può più perdersi.
L’abbandono è l’atto più libero della volontà. Colui che, totalmente incurante di sé – della propria libertà e individualità – , si consegna alla grazia, penetra in essa, completamente libero e totalmente se stesso. Si delinea così l’impossibilità di trovare la strada finché lo sguardo è fisso su di sé (…).
A questo punto non basta prendere in considerazione solo la libertà; bisogna altresì esaminare di cosa sia capace la grazia e se esista anche per essa un limite assoluto. L’abbiamo già visto: la grazia deve essere donata all’uomo. Da se stesso egli può, nel migliore dei casi, giungere alla soglia, ma mai entrare in essa forzatamente. E ancora: essa può venire a lui senza che la cerchi o la desideri.
La domanda è se la grazia possa portare a compimento la sua opera senza il concorso della libertà. Riteniamo di dover rispondere negativamente. Quest’ultima è un’affermazione importante, poiché ciò significa che la libertà di Dio, che riteniamo onnipotente, trova un limite nella libertà dell’uomo.
La grazia è lo Spirito di Dio che scende nell’anima dell’uomo. Essa può non trovarvi dimora se non è accolta liberamente. È una dura verità. Essa dice della possibilità in linea di principio – eccetto il limite menzionato dell’onnipotenza divina – di un’esclusione dalla redenzione e dal regno della grazia. Non dice di una limitazione della misericordia divina. Infatti, anche se possiamo ignorare che per moltissimi la morte temporale giunge senza che abbiano mai visto in faccia l’eternità e che la salvezza sia mai stata per loro un problema; che, altresì, molti durante l’intera loro vita si preoccupano della salvezza senza divenire partecipi della grazia, così non possiamo sapere se non arrivi per tutti loro il momento decisivo in un luogo ultraterreno; e la fede può dirci che è così. L’amore misericordioso può quindi chinarsi su ognuno. Noi crediamo che lo faccia.
Dovrebbero dunque esservi anime che ad esso si chiudono continuamente? In linea di principio, questa possibilità non si può negare; di fatto può diventare infinitamente improbabile, proprio in ragione di ciò che la grazia preveniente è capace di operare nell’anima. Essa può bussare appena, e vi sono anime che già a questa sommessa chiamata si aprono ad essa. Altre la trascurano. Ancora, essa può penetrare nell’anima e diffondervisi sempre di più. Quanto maggiore è lo spazio che così occupa in modo illegittimo, tanto più diviene improbabile che l’anima si chiuda ad essa. Già vede il mondo alla luce della grazia. L’anima riconosce la santità dove la incontra e si sente attratta da essa. Si accorge anche di ciò che non è santo e ne viene allontanata. Tutto il resto impallidisce di fronte a queste due qualità.
[*] Cf. Mt 16,25 // Mc 8,35 // Lc 9,24; 17,33 // Gv 12,25.