Il Testimonium Flavianum

Tra le più antiche fonti non cristiane sull’esistenza storica di Gesù (elencate brevemente qui), figurano due passaggi dalle Antichità giudaiche dello storico ebreo Giuseppe Flavio (Gerusalemme, circa 37 d.C. – Roma, circa 100 d.C.).

L’opera, composta durante l’ultimo decennio del I secolo, accenna rapidamente alla figura di Gesù in due occasioni: nel libro XX (9,1), laddove riferisce della condanna a morte di Giacomo il minore, ordita nell’anno 63 dal sommo sacerdote Anano (sadduceo, poi destituito su pressione dei farisei); e poco prima, più estesamente, al libro XVIII (3,3, §§ 63-64). Quest’ultimo brano è noto come Testimonium flavianum: è anche alla sua importanza che si deve l’abbondante trasmissione del testo di Giuseppe Flavio, in epoca antica e medievale (assieme ad altre opere dello storico: la Guerra giudaica, suo capolavoro indiscusso, l’interessantissima autobiografia, e il libretto apologetico Contro Apione, giuntoci in forma frammentaria).

Attorno ad esso, soprattutto a partire dai dubbi espressi dall’umanista francese Joseph Scaliger (XVI sec.), la critica si è concentrata in vari modi, negando o contestando l’autenticità del passo, e producendo in tal modo una bibliografia sterminata (da ultimo, si veda il contributo di A. Whealey, Josephus on Jesus. The Testimonium Flavianum Controversy from Late Antiquity to Modern Times, New York 2003). Prima di parlarne brevemente, leggiamo dunque il brano, nella recente traduzione di Manlio Simonetti:

Visse in questo tempo Gesù, uomo sapiente, se pure lo si deve definire uomo. Operò infatti azioni straordinarie e fu maestro di uomini che accolgono con diletto la verità, e così ha tratto a sé molti Giudei e anche molti Greci. Egli era il Cristo. Anche quando per denuncia di quelli che tra noi sono i capi Pilato lo fece crocifiggere, quanti da prima lo avevano amato non smisero di amarlo. Egli apparve loro il terzo giorno di nuovo in vita, secondo che i profeti avevano predetto di lui tutto ciò e mille altre meraviglie. Ancora oggi sussiste il genere di quelli che da lui hanno assunto il nome di Cristiani (Flavio Giuseppe, Storia dei Giudei da Alessandro Magno a Nerone. “Antichità Giudaiche”, libri XII-XX, Milano 2002, pp. 412-413).

Su Giuseppe Flavio, come si è detto, abbiamo parecchie informazioni di prima mano. Nell’autobiografia, ad esempio, egli stesso si qualifica come rampollo di un’antica e nobile famiglia sacerdotale. Da giovane, sempre per sua ammissione, frequentò le principali sette giudaiche dell’epoca (farisei, sadducei, esseni), e dopo un breve periodo nel deserto, al seguito di un misterioso personaggio di nome Banno, optò per l’ingresso ufficiale nel movimento farisaico, cui rimase legato fino alla morte.

Sempre in gioventù, gli venne affidato un delicatissimo incarico: quello di difendere presso la corte imperiale romana, con una spedizione ad hoc, alcuni membri di famiglie sacerdotali probabilmente accusati di sedizione. La missione andò a buon fine, e gli consentì di entrare nelle grazie di Poppea, seconda moglie di Nerone, per intercessione di un mimo di origine ebraica molto apprezzato dall’imperatrice. Tornato in patria, l’ondivago Giuseppe si ritrovò coinvolto nella sanguinosa insurrezione antiromana del 66, tra le fila dei Giudei, in qualità di comandante (valoroso condottiero, secondo il resoconto da lui stesso offerto nella Guerra giudaica, e prudente mediatore di pace, secondo l’autobiografia). Al termine di un rovinoso assedio dei romani nei pressi del villaggio galilaico di Jotapata, forse grazie a un abile escamotage, riuscì infine a scampare a un suicidio di massa approntato dalle sue truppe.

Quel gesto, oltre ogni possibile previsione, rappresentò per lui l’inizio della gloria. Passando definitivamente dalla parte dei Romani, Giuseppe si assicurò infatti il favore degli ex avversari, presentandosi come “profeta giudeo”, e preconizzando nientemeno che l’elezione a imperatore dell’allora generale Vespasiano, visto come il messia liberatore atteso dal popolo ebraico (la profezia è nota anche grazie ad autori pagani, quali Svetonio e Dione Cassio). Non si pensi, però, a un improvvisato e momentaneo voltafaccia. Vespasiano, divenuto imperatore in capo a due anni, concederà a Giuseppe tutti gli onori del caso, permettendogli di porre mano, con una serie di opere indirizzate prevalentemente a un pubblico non ebraico, a un grandioso tentativo di giustificazione storica, politica e persino teologica del clamoroso rovesciamento nelle vicende del popolo d’Israele.

Come intuito da Adolf von Harnack e da Jacob Taubes, il neoromano Giuseppe si convince infatti che «la caduta di Gerusalemme testimoni e riveli all’ebraismo che il mondo è teatro di una sua più grande vittoria (…), che il suo Dio, abbandonato dalla santità di Gerusalemme, conquisterà il mondo e che la sua legge sottometterà l’Imperium romanum». Giuseppe spera «che la legge divina del popolo ebraico conquisti il dominio sul mondo e che la teocrazia dello stato ebraico si estenda a teocrazia mondiale (…). Nella teocrazia dell’ebraismo si realizza l’ideale di Platone e di tutte le utopie greche sullo stato migliore» (J. Taubes, Escatologia occidentale, trad. it. Milano 1997, p. 88). Ciò darà a luogo a una curiosa eterogenesi dei fini, perché il prodotto della propaganda dello storico ebreo, come di quella di un suo (diversissimo) contemporaneo, Filone Alessandrino, contribuiranno invece a lavorare «l’Impero romano come un campo da coltivare, rendendolo fertile per la semina cristiano-orientale»: vale a dire per un’operazione di segno opposto, anche se di uguale matrice ebraica.

Si capisce allora come il Testimonium flavianum, nella forma in cui ci è giunto, non possa provenire integralmente dalla penna di Giuseppe, ma sia il probabile risultato di una controversa storia testuale, nella quale copisti cristiani intervennero a correggere il testo. Tali copisti, tuttavia, non avrebbero potuto creare di sana pianta il passaggio, né alterarlo completamente. L’antico scrittore, di certo, non nutriva alcun particolare interesse nei confronti dei seguaci di Cristo: ma non poteva nemmeno ignorarne l’esistenza (come non ignorò l’esistenza di un altro protagonista delle origini: Giovanni Battista). Anche la critica più radicale, inoltre, è costretta ad ammettere che lo stile del passo risulta compatibilissimo con la mano di Giuseppe.

Fino a che punto, dunque, i copisti successivi aggiustarono le cose? I tentativi di restituzione dell’originale non sono mancati, anche a partire dall’esame accurato delle varianti presenti nella tradizione manoscritta. Una versione araba del passo, scoperta nel 1971, proviene ad esempio da un autore siriaco del X secolo, il vescovo Agapio di Hierapolis:

Similmente dice Giuseppe l’ebreo, poiché egli racconta nei trattati che ha scritto sul governo dei Giudei: “Ci fu verso quel tempo un uomo saggio che era chiamato Gesù, che dimostrava una buona condotta di vita ed era considerato virtuoso (o: dotto), e aveva come allievi molta gente dei Giudei e degli altri popoli. Pilato lo condannò alla crocifissione e alla morte, ma coloro che erano stati suoi discepoli non rinunciarono al suo discepolato (o: dottrina) e raccontarono che egli era loro apparso tre giorni dopo la crocifissione ed era vivo, ed era probabilmente il Cristo del quale i profeti hanno detto meraviglie” (la traduzione è presa da J. Maier, Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, trad. it. Brescia 1994, p. 65).

Le differenze nei vari passaggi, in questo caso, si possono spiegare supponendo una citazione a memoria (secondo una prassi non inusuale): nulla, ad ogni modo, ci assicura che questa fosse la versione originaria. Una possibile ricostruzione del brano, a un di presso, potrebbe essere allora la seguente (i passaggi non dovuti a Giuseppe Flavio sono espunti tra parentesi quadre; i passaggi ricostruiti per via congetturale sono posti fra gli indicatori; la traduzione dal greco è di chi scrive):

A quel tempo, visse un uomo sapiente (in gr.: sophòs anēr), se è appropriato chiamarlo uomo. Perché operò prodigi, fu maestro di uomini che accolsero con piacere < l’empietà? >, e condusse sulla propria strada numerosi Giudei (polloùs Ioudaìous), ma anche molti Gentili (polloùs toû ellēnikoû): [ i quali dicevano che ] era il Cristo. E quando su accusa dei nostri notabili venne fatto crocifiggere da Pilato, quanti dal principio lo avevano amato non smisero di amarlo: [ essi sostenevano infatti che ] apparve loro nel terzo giorno, vivente, e i profeti avevano predetto questa e diecimila altre cose incredibili (thaumásia) su di lui. Ancora oggi sussiste la stirpe dei cristiani, che da lui ha preso il nome.

Il brano, così restituito, risulterebbe assai vicino alla versione riferitaci dalla maggior parte dei manoscritti, e supporrebbe pochissimi interventi: due espunzioni (“i quali dicevano che”; “essi sostenevano che”) e una sola alterazione (l’attuale “verità”, in luogo forse di un originario “empietà”). Ci troveremmo di fronte ad affermazioni che un cristiano non avrebbe mai potuto compilare, in questi termini: oltretutto con l’ammissione esplicita che quanto viene riferito deriva da affermazioni dei discepoli di Gesù (nondimeno, vi sono studiosi come Étienne Nodet che spiegano diversamente le presunte interpolazioni cristiane, e giungono ad ammettere la sostanziale autenticità del passo trasmesso).

Cosa possiamo ricavare da questo brano? Le informazioni, anche nella supposta versione “corretta”, sono di primaria importanza, al di là del riferimento alla crocifissione di Gesù e alla fede dei seguaci nella sua risurrezione. Innanzitutto, Gesù è indicato come un sophòs anēr, un “saggio”, un “sapiente”: non fu un profeta, non fu un taumaturgo, non fu un “rabbi” nel senso posteriore del termine (all’epoca di Gesù, il titolo era puramente onorifico), non fu nemmeno un agitatore politico, e non appartenne a nessuno dei movimenti giudaici menzionati da Giuseppe (farisei, esseni, sadducei; gli “zeloti”, per Giuseppe, si organizzarono come movimento autonomo durante la guerra giudaica, quindi dopo la morte di Gesù; prima il termine aveva un altro significato).

La valutazione di Giuseppe è simile a quella dello scrittore greco Luciano di Samosata (II secolo), che in un suo caustico pamphlet, dedicato a un predicatore itinerante del suo tempo, un certo Peregrino, menziona la frequentazione sporadica da parte di questi di un gruppo di “cristiani”, descritti come «adoratori di un sofista crocifisso». Anche altre fonti non cristiane, di poco precedenti, parlano di Gesù come di un saggio o di un sapiente (vedi la lettera di Mara Bar Serapion, databile alla seconda metà del I secolo), messo a morte dal suo stesso popolo.

Le ulteriori informazioni fornite da Giuseppe, poi, concordano col quadro che si desume dalle successive fonti rabbiniche. In un brano del Talmud babilonese (trattato Sanhedrin, § 43), si dice infatti che «alla sera della Parasceve si appese Jeshu ha-notzrì (il nazareno, ovvero cristiano)», con una triplice imputazione: «ha praticato la magia e ha sobillato (hissit) Israele [all’idolatria] e l’ha traviato (hiddiah) il popolo». L’accusa corrisponderebbe a quanto scritto nelle Antichità giudaiche, per cui Gesù si sarebbe distinto come operatore di prodigi (donde l’accusa di magia, riferita anche dalle fonti evangeliche), come predicatore di empietà o di idolatria (donde l’accusa, riferita sempre nei vangeli, di avere bestemmiato e di essersi proclamato “Figlio di Dio” e “Figlio dell’uomo”, entrambi titoli sovrumani), e come traditore di Israele.

Riguardo a quest’ultimo punto, la notazione di Giuseppe è particolarmente interessante, dato ch’egli sottolinea come Gesù «condusse sulla propria strada numerosi Giudei, e anche molti Gentili». Il vocabolo Ioudaios, all’epoca in cui scrive lo storico ebreo, ha un senso eminentemente etnico-culturale, non religioso (come in Paolo, che per indicare l’appartenenza religiosa utilizza ebraios). Ugualmente, l’espressione (hoi) toû ellēnikoû ha valore etnico-culturale: non può indicare ebrei di lingua greca, da contrapporre ad ebrei di area palestinese. Significa “quelli di stirpe greca”, vale a dire i non Ioudaioi, i non Giudei. Particolare importante, perché Giuseppe potrebbe attestare in tal modo il fatto che Gesù avrebbe avuto anche non ebrei fra i suoi discepoli, o quantomeno fra i suoi primi seguaci: un elemento in più, questo, per sostenere che l’apertura del primissimo gruppo dei discepoli agli esterni della “casa d’Israele” non fu il prodotto di una serie di contingenze storiche o di “tradimenti” (come quello che secondo taluni sarebbe stato operato da Paolo), ma trasse forse la sua linfa dalla predicazione originaria del Maestro.

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