Testo di Sergej S. Averincev.
Traduzione di Claudia Sugliano per Il Secolo XIX (27/05/2001).
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Il mare, che divide e insieme unisce tutti e tre i continenti del Vecchio Mondo, l’Europa, l’Asia e l’Africa; il mare lungo il quale già i navigatori fenici compivano il loro viaggio dalle rive asiatiche fino a Cartagine nell’Africa settentrionale, e, di là, sino alle miniere della Spagna; il mare che, in seguito, portò l’apostolo Paolo da Gerusalemme, attraverso Creta e Malta, sino a Roma al giudizio del Cesare, per la predicazione e il martirio – questo mare già nel VII secolo, come testimonia l’autore cristiano più colto di quei tempi, Isidoro di Siviglia, era solitamente chiamato Mediterraneum.
Nella formula dall’intonazione arcaica si parla del «mare centrale di tutta la terra». Tale valore semantico dell’espressione “mare Mediterraneo”, rinnovata nei versi di Chesterton, ci spinge a ricordare le idee arcaiche dei popoli sul centro del cerchio terrestre. I greci volevano vedere “l’ombelico del mondo” nel tempio di Apollo a Delfi, situato, secondo l’osservazione di Strabone, «come al centro dell’Ellade»; ma questa è la prospettiva greca, importante in forza del significato paradigmatico della Grecia, e, tuttavia, poco convincente al di fuori dei confini del mondo ellenico.
Maggiore persuasività geografica ha la versione biblica, che esamina come concentrazione di popoli e “ombelico del mondo” la Terra Santa e, in modo speciale, Gerusalemme: non è forse là, che tutti i tre continenti del Vecchio Mondo si avvicinano davvero l’un l’altro? E non è forse là che lo spazio, dall’inizio stesso della storia dell’Antico Testamento, venne colmato dalla presenza delle culture del Medio Oriente asiatico e delle terre africane della cerchia egizia, alle quali in seguito si unirono le correnti culturali dell’ellenismo?
Su questo punto, né la geografia né la storia contraddicono l’antico simbolismo sacrale: da qui si diffusero nel mondo intero tutte e tre le grandi religioni “abramitiche”, quali raggi che si dipartono dal centro verso la periferia (e se Maometto ben presto dichiarò La Mecca il centro della terra, all’inizio persino lui accettava un tale ruolo per Gerusalemme). Ora, quelle conclusioni di civiltà e di geografia, che in maniera inattesa rafforzano dal punto di vista razionale lo status mitologico di Gerusalemme, sono significative anche per il Mediterraneo (al quale la Terra Santa si accosta, ad oriente).
Anche il Mediterraneo si stende tra continenti e culture come luogo di loro incontro – all’incirca come i Romani scendevano dal Campidoglio, dal Palatino e dall’Aventino e da altri colli per incontrarsi a commerciare, discutere e accordarsi nella depressione del Foro, tra i colli. Certo, tutti ricordano che quegli incontri erano ben lontani dall’essere sempre pacifici: citiamo Salamina, oppure Lepanto, in greco chiamata Naupaktos, situata nient’affatto lontana dalla prima. Le grandi e piccole battaglie, però, erano soltanto un intermezzo sanguinoso tra la quotidianità dei rapporti commerciali e culturali.
Com’è straordinario che lo scambio intellettuale, al di sopra dei confini delle religioni, avvenisse persino nel settore del pensiero teologico, per di più in un’epoca come il tardo Medioevo! L’innografo e pensatore ebreo Shelomoh Ibn Gabirol, nato verso il 1021 nel porto mediterraneo di Malaga, creò, accanto ad inni ancora oggi facenti parte della pratica sinagogale, anche un lavoro filosofico-teologico, scritto in arabo, e in seguito, a differenza dei primi, completamente dimenticato dalla tradizione ebraica; tuttavia quest’opera, dal titolo La fonte della vita, fu tradotta in latino, e gli scolastici cattolici la studiavano con assiduità, non sapendo chi ne fosse l’autore (il misterioso “Avicebron” o “Avencebrol”): un cristiano, un musulmano, o un ebreo? (Soltanto alla metà del XIX secolo l’ebraistica chiarì chi aveva scritto La fonte della vita, e si trattò di una scoperta sensazionale).
È ben nota l’importanza per quegli stessi scolasti delle traduzioni dall’arabo. Poco più tardi, gli studiosi ebrei in Italia tradurranno in ebraico alcuni passi scelti di Tommaso d’Aquino. Pensatori di diverse religioni non attesero né la situazione tollerante, né i programmi “superecumenici” contemporanei, per realizzare nella propria attività professionale quello che ora noi chiameremmo il dialogo; e non in forza delle idee sul dialogo, ma semplicemente perché, senza di esso, il pensiero non può funzionare.
Non a caso il dialogo tra i rappresentanti di varie religioni è di grande importanza per quell’epoca, come forma e tema letterario: si può ricordare ad esempio, da parte cristiana, il Dialogus inter Philosophum, Iaudaeum et Christianum, del famoso Pietro Abelardo, e da parte ebraica il Kazari di Jehudah Halewi. Ma nello spazio del Mediterraneo la prospettiva del dialogo acquisiva una realtà particolare, cosa che ricordano, insieme a molte altre ancora, anche la vita e le iniziative di pensiero del catalano Raimondo Lullo, che tanto fece per cambiare il paradigma delle crociate con quello del missionarismo.
Si intende che la situazione del dialogo tra i rappresentanti di varie culture religiose potesse acquisire un’altra forma, più scettica e secolare, come si può vedere dalla parabola dei tre anelli, entrata nel Decamerone, giornata I, nov. 3, e solo di là, mantenendo la memoria della propria origine mediterranea, passata nel dramma di Lessing Nathan il Saggio. E i contorni del Mediterraneo sono come il chiaro diagramma di tale dialogo, già in forza della localizzazione geografica di questa regione.
Nel XIV secolo l’italiano Opicinus de Canistris creò una carta del Mediterraneo, sulla quale sono evidenti figure antropomorfe, che piegano l’uno verso l’altra le proprie teste ad occidente, accanto a Gibilterra: quella maschile è l’Europa, mentre la figura della signora rappresenta l’Africa. Di per se stesse, simili rappresentazioni figurative dei continenti sono consuete per la cartografia antica: ad esempio, su una carta del XVI secolo, l’Europa è rappresentata sotto l’aspetto di una figura umana, diverse parti della quale corrispondono agli uni o agli altri paesi – ma l’idea di Opicinus è interessante, perché elabora nella propria composizione proprio il tema dell’incontro vis à vis dei continenti che si avvicinano l’un l’altro, della loro comunicazione.
Tutta l’esperienza millenaria del Mediterraneo lo ha abituato all’apertura verso una prospettiva mondiale, e non ha dovuto attendere i tempi di Colombo, il famoso figlio del porto mediterraneo di Genova, per portare la sua dinamica al di fuori dei propri confini, negli spazi dell’Oceano Atlantico. Ancora al limite tra l’Antichità e il Medioevo, in un periodo di crisi e distruzioni molto difficile per la civiltà, sorse la rotta marittima di contatti culturali, che andavano dall’Oriente ellenistico attraverso la Spagna oltre le Colonne d’Ercole e, a nord, fino alla stessa Irlanda: in questo paese, che aveva sviluppato una straordinaria attività creativa e missionaria di ampiezza europea, proprio sullo sfondo dei cosiddetti “secoli bui”, gli impulsi della spiritualità orientale-mediterranea e del pensiero cristiano entravano in fruttuosa interazione con la tradizione celtica; senza di esso la comparsa di Giovanni Scoto Eriugena, il primo pensatore originale dell’Europa medioevale, sarebbe del tutto inspiegabile.
Torniamo, tuttavia, dalle lontananze oceaniche allo spazio chiuso del Mediterraneo, dove tutto è così vicino, dove si sente fisicamente la vicinanza dell’Africa e, in parte, anche dell’Asia. Come è strano, non paragonabile a nulla, il mondo della lingua, che risuona a Malta: paradigmi arabi, e in essi, accanto ai prevalenti lessemi arabi del dialetto maghrebino, si pongono con naturalezza altri termini e radici latino-italiane. Si entra in chiesa e nella formula «In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», le parole “nome” “Padre” e “Figlio” sono arabe, quelle “Spirito Santo” romanze. Quale emozione, per me, intendere questo!
E più oltre, al sud, c’è la stessa Africa, patria di Tertulliano e Cipriano, ci sono i luoghi dove per la prima volta si formò il latino cristiano, quando i cristiani di Roma continuavano ancora a servirsi abitualmente del greco. Poi tutto questo fu cancellato dal flusso dell’Islam e della cultura araba: ma ad oriente, in Egitto, continua ancora la sua esistenza, ora drammatica, la tradizione del cristianesimo copto. Mi permetto di nuovo un ricordo molto personale: dopo aver visitato Alessandria, dieci anni fa, mi è rimasto soprattutto in mente come, durante la liturgia copta, risalente ancora all’Egitto dei Faraoni, le parole erano così pesanti, come fuse con il peso dei millenni…
L’Africa del Maghreb e dell’Egitto, le terre libanesi, siriane e palestinesi dell’Asia – come si presenta l’Europa nel punto della sua vicinanza ad esse, avvolta nel loro respiro? È l’Europa sovranazionale, l’Europa nord-occidentale, talvolta forse persino troppo tecnica. Non a caso lo scrittore russo Gogol, che amava in modo appassionato l’Italia, la contrapponeva polemicamente alla razionale Parigi. Ma noi, senza intenzione di aderire alla sua polemica, diremo soltanto che l’emozione del Mediterraneo ci libera da una visione troppo univoca dell’identità europea.
L’Europa, come la vediamo dalle sponde del «mare centrale di tutta la terra», è più una creazione divina che un progetto. Per la fisiognomica spirituale dell’Europa, è sintomatico ch’essa sia il più piccolo dei continenti del Vecchio Mondo: piccolo, come le sacre terre dell’Attica e della Giudea sono piccole rispetto agli infiniti spazi desertici del Sahara o della Siberia. La massima densità di pensiero, di storia, di particolarità estetica in uno spazio minimo. Questa è la legge dell’Europa: ma il Mediterraneo europeo è un luogo particolarmente adatto per sentirlo.
Ogni volta che vediamo un’antica città italiana, siamo colpiti dalla sua originalità rispetto a qualsiasi altra città vicina. Quale contrasto tra la limitazione quantitativa e l’illimitatezza qualitativa! E noi sentiamo quanto l’Europa, maturata nel corso della storia, sia più significativa di qualsiasi concetto astratto “sull’Europa”, di qualsiasi progetto “di Europa”. Voglia Dio che si realizzi il desiderio dell’unità, contenuto nei millenari destini del Mediterraneo. E voglia Dio che questa unità non si trasformi in unificazione, che le città e i paesi più piccoli rimangono unici al mondo, unici come il nostro stesso mondo.
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Tra le opere di S.S. Averincev in traduzione italiana: L’anima e lo specchio. L’universo della poetica bizantina, Il Mulino, Bologna 1988; Cose attuali, cose eterne. La Russia d’oggi e la cultura europea, La Casa di Matriona, Milano 1989; Atene e Gerusalemme. Contrapposizione e incontro di due principi creativi, Donzelli, Roma 1994; Note sul concetto cristiano di famiglia, in S. Averincev – M. I. Rupnik, Adamo e il suo costato. Spiritualità dell’amore coniugale, Lipa, Roma 1994; Dieci poeti. Ritratti e destini, La casa di Matriona, Milano 2001. Suoi interventi si possono trovare anche in riviste e in volumi collettivi (come L’Occidente visto dall’Oriente, Qiqajon, Magnano 2002, e Forme della santità in Russia, Qiqajon, Magnano 2003).