Qual è il vero Matteo di Caravaggio?

Fermo restando che le mie cognizioni di iconografia si arrestano per lo più all’età medievale, e che non ho alcuna intenzione di improvvisarmi “caravaggista” (esattamente come l’amico Luigi Codemo), proverò anch’io a intervenire nel dibattito che, da qualche mese, si sta consumando intorno alla Vocazione di san Matteo, il capolavoro realizzato da Caravaggio tra il 1599 e il 1600 (e conservato nella Cappella Contarelli della chiesa romana di San Luigi dei Francesi).

Qual è il vero Matteo del dipinto? Il giovane che vediamo all’estrema sinistra della tela, come si è cercato recentemente di argomentare, o l’uomo barbuto che troviamo seduto al centro del tavolo dei gabellieri, come sostiene invece l’interpretazione tradizionale (suffragata da abbondanti analisi storico-artistiche, ma anche dalle numerose riprese del soggetto in età successiva)?

La querelle, come molti sapranno, è scaturita da un intervento di Sara Magister, specialista di storia dell’arte barocca e figlia (o almeno credo) del vaticanista Sandro Magister (il quale ha ospitato diversi interventi sulla questione, nel suo sito personale).

Come ha spiegato molto puntualmente Maurizio Cecchetti, la studiosa ha rilanciato un dubbio “amletico” che grava da molti anni su quest’opera, e ha spinto a riconsiderare un’ipotesi che alcuni storici dell’arte avevano già provato a sostenere:

«Per valutare l’interpretazione ripresa oggi da Sara Magister si dovrebbe osservare l’opera come se non l’avessimo mai vista e non ne conoscessimo l’interpretazione abituale. Il primo giudice è l’occhio, e non c’è dubbio che l’occhio qui recalcitra. Ammesso che Matteo sia quel signore vestito sontuosamente che sembra chiedere “Chi, io?”, che significato ha dunque la figura “incongrua” a capotavola, che se ne sta in silenzio, ignorando, volontariamente o meno, ciò che accade attorno alla tavola cui è seduto con altri tre personaggi colti invece di sorpresa dall’apparizione di Cristo? […] Se le direttive spaziali hanno un significato, Caravaggio sta guidando il nostro sguardo verso quel personaggio. Perché? Forse ci sta dicendo che non dobbiamo fermarci alle apparenze, dobbiamo essere capaci di vedere oltre le verità ufficiali. Andreas Prater nel 1985 prese il toro per le corna e sviluppò un’intuizione che era stata anche di Nicholas De Marco tre anni prima. Sulla rivista tedesca “Pantheon” firmò un articolo intitolato Dov’è Matteo, che enumera le prove a sostegno della sua ipotesi: Matteo-Levi, il pubblicano, l’esattore delle tasse (una figura odiata dagli Ebrei perché riscuoteva i tributi che finivano nelle casse dell’imperatore romano) è, in coppia con l’altro gabelliere in piedi e occhialuto, simbolo della peccaminosità indotta dal denaro e dai beni materiali ma anche dell’avarizia; il Matteo tradizionalmente accettato, non raccoglie la moneta, ma la dà; il capotavola e Cristo sono i poli dialettici della scena; e così conclude: “Caravaggio mostra la vocazione, ma la chiamata di Cristo non ha ancora raggiunto il suo destinatario… il Matteo di Caravaggio, al momento della chiamata, non è più il peccatore, ma non è ancora l’apostolo…”» (Fonte: “Avvenire”).

Ora, nonostante l’indubbio fascino di questa interpretazione, personalmente ritengo che la visione tradizionale possa ancora contare su molti – e a mio parere decisivi – elementi di sostegno.

Innanzitutto, occorre considerare il contesto immediato dell’opera. Il quadro, infatti, fa parte di un ciclo pittorico che comprende in sequenza La vocazione di san Matteo, L’ispirazione di san Matteo e Il martirio di san Matteo. Tutte e tre le tele furono commissionate all’artista dal cardinale Francesco del Monte Santa Maria (lo stesso che diede aiuto e protezione, in diverse occasioni, a Galileo Galilei). E non c’è nulla, nel nostro caso, che faccia supporre un mancato rispetto di Caravaggio nei confronti delle aspettative del suo illustre committente (all’epoca, d’altronde, un artista non poteva che muoversi in un regime – per così dire – di “libertà vigilata”, anche rispetto alle esigenze del suo pubblico).

Così, l’uomo barbuto al centro della tavola:

a) risponde all’iconografia convenzionale di Matteo (rappresentato con la barba da illustri predecessori dell’artista);

b) è coerente con le fattezze che il pittore attribuisce a Matteo nelle altre due tele della Cappella Contarelli (vedi L’ispirazione di san Matteo e Il martirio di san Matteo);

c) raffigura il personaggio con un gesto che i testi evangelici (Mt 9,9 // Mc 2,13-14 // Lc 5,27-28) gli attribuiscono in maniera abbastanza chiara: quello di rispondere immediatamente all’appello di Gesù, alzandosi dal banco delle imposte.

Per quanto riguarda quest’ultimo particolare, vale forse la pena di notare che il Matteo tradizionalmente identificato è l’unico tra i personaggi del quadro di cui possiamo osservare una flessione nella parte inferiore del corpo: le sue gambe sotto al tavolo, sono le gambe di chi è in procinto di alzarsi; e anche il personaggio dipinto al suo fianco, col pennacchio in testa, sembra alzare il braccio destro per fargli spazio nel movimento (per visualizzare meglio i particolari, cliccare qui).

    

Veniamo allora ai problemi di interpretazione, o se vogliamo di decifrazione, posti dalla scena. Anche in questo caso, la visione tradizionale sembra reggere meglio alla prova del contesto, sia da un punto di vista “ideologico” (considerando i dibattiti su grazia e libero arbitrio che animarono i circoli intellettuali europei fra Cinque e Seicento), sia da un punto di vista “poetico” (considerando la peculiarità espressiva tipica dell’artista).

L’utilizzo della luce, come in altre opere del Caravaggio, segnala i protagonisti della scena: da una parte abbiamo la grazia divina, che sola può salvare, e dall’altra il futuro discepolo di Gesù, la cui salvezza dipende dall’adesione spontanea alla chiamata del Maestro. Il gioco di luci rivela, soprattutto, questo: la dialettica tra un appello incondizionato (la luce proviene da una fonte fuoricampo, inaccessibile agli occhi del pittore/spettatore) e una risposta piena di timore (“È proprio a me che ti rivolgi? Sono forse io l’oggetto della tua attenzione?” – questo sembra dire il Matteo della tela).

Ma è il gioco di simmetrie e di equilibri predisposto dall’artista, in particolare, a rivelarci il senso profondo della rappresentazione.

Non abbiamo soltanto la luce, a tagliare in due, diagonalmente, la scena (con ciò lasciando intendere che Gesù e Pietro, che stanno in piedi sulla destra, non hanno bisogno di essere toccati dalla grazia divina, a differenza di tutti i personaggi che si trovano attorno al tavolo). A questa separazione  verticale/diagonale, infatti, si aggiunge una separazione orizzontale, che distingue ulteriormente – e piuttosto nettamente, anche grazie al finestrone crociato che domina la stanza – tra i personaggi che troviamo a destra e quelli che troviamo a sinistra; anche le loro vesti sottolineano una differenza: da una parte, abbiamo personaggi abbigliati secondo la moda del tempo, e dall’altra Gesù e Pietro, rappresentati in fogge che non rimandano alla con-temporaneità.

La finezza e l’ingegno di Caravaggio, a mio parere, stanno tutti in questa polarizzazione drammatica. Mentre l’attenzione potrebbe concentrarsi soltanto sulla scena principale (con la luce della grazia divina che investe il protagonista Matteo), lo sguardo è catturato da un dramma che si consuma nell’ombra, in una dimensione sotterranea e “occulta” rispetto a quella immediatamente visibile. I protagonisti di questo dramma si fronteggiano alle estremità della scena: all’angolo destro, col gesto del dito che ricorda la Creazione di Michelangelo, vediamo Gesù (agente di una nuova creazione, quella operata dalla grazia); all’angolo sinistro, specularmente, osserviamo invece il giovane pubblicano (che non può essere Matteo) con lo sguardo reclinato mestamente sulle monete.

   

Due personaggi, due gesti. Lo sguardo di Gesù, come pure il suo dito, non puntano soltanto a Matteo, ma anche a questo giovane perso nei propri pensieri. La fisicità di quest’ultimo (col capo reclinato, le mani intente a contare il danaro) rivela una precisa volontà: la volontà di rimanere indifferenti alla chiamata, di non essere toccati dalla grazia. Caravaggio sembra mettere in scena, pertanto, il dramma di due libertà: la libertà divina, creatrice e ri-creatrice, che con la sua grazia raggiunge ogni uomo; e la libertà umana, qui affermata in tutta la sua radicalità, sospesa tra la possibilità di accettare la grazia (Matteo) o di rifiutarla (il giovane col capo chino).

Di fronte a questo dramma, l’identificazione degli altri personaggi passa decisamente in secondo piano, benché il loro ruolo possa avere forti valenze allegoriche: dal Pietro che sembra mimare il gesto di Gesù (aggiunto dal pittore in un secondo momento: vero stigma “papalino”), alla figura con gli occhiali che gli corrisponde simmetricamente (probabilmente un ebreo, ripreso nell’atto di versare e/o controllare il proprio tributo ai gabellieri), fino ai due personaggi minori (il giovane col pennacchio e il soldato di spalle), la cui presenza è peraltro individuabile anche negli altri due quadri della Cappella Contarelli.

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