Religioni e violenza: un’intervista a William T. Cavanaugh

di Craig Martin

[Intervista apparsa in “Bulletin for the Study of Religion”, 8 giugno 2011. Offre un punto di vista interessante sul dibattito americano intorno al rapporto tra religione e sfera pubblica. N.d.R.]

William T. Cavanaugh è docente di Catholic Studies presso la DePaul University di Chicago. La sua produzione teologica è molto ampia, e include opere come Torture and Eucharist (1998), Theopolitical Imagination (2003) e Being Consumed: Economics and Christian Desire (2008). Il suo ultimo libro, The Myth of Religious Violence: Secular Ideology and the Roots of Modern Conflict (2009) è apparso nel 2009 (Oxford University Press). Non si tratta propriamente di un lavoro teologico, ma di un’indagine storica, molto vicina allo spirito delle ricognizioni “genealogiche” di Talal Asad, Russell McCutcheon e Tim Fitzgerald.  Cavanaugh cerca innanzitutto di smontare il “mito” di un legame intrinseco tra religione e violenza, esaminando tutti gli argomenti che, anche a livello popolare, gli fanno da base. Cerca poi di dimostrare come questo mito sia stato utilizzato a sostegno degli interventi americani in Medio Oriente (quale miglior argomento, per giustificare una guerra contro il terrorismo, dell’idea che il “fanatismo religioso” conduca inevitabilmente alla violenza, e che si ponga in contrasto con i valori di giustizia e razionalità propugnati dalle democrazie occidentali?). Come scrive Cavanaugh, “il rifiuto dell’Occidente nei confronti dell’idea di poter morire o uccidere in nome della religione è servito a far passare l’idea che sia lodevole e giusto morire o uccidere in nome dello Stato” (pp. 4-5).

Craig Martin: Quest’ultima citazione potrebbe essere vista, in un certo senso, come il cuore di tutto il tuo discorso. Potresti commentarla, e spiegare le ragioni anche politiche che ti hanno spinto a scrivere The Myth of Religious Violence?

William T. Cavanaugh: L’idea iniziale mi è venuta sentendo parlare un funzionario del Dipartimento di Stato, che dopo quattro anni di occupazione americana in Iraq ha condannato aspramente coloro “che cercano di raggiungere i loro obiettivi attraverso l’uso della violenza”. Si riferiva ai partigiani sunniti e sciiti. Ma la giornalista Rami Khoury ha giustamente fatto notare: “Come se gli USA non avessero utilizzato armi per invadere l’Iraq!”. Ecco, il mito della violenza religiosa funziona esattamente così: la violenza “secolare”, la violenza “laica”, non viene mai considerata come violenza. Come ho cercato di spiegare nel libro, uno dei miti che vengono invocati per il mantenimento e la diffusione di un ordine sociale laico – anche con mezzi militari, se necessario – consiste proprio nell’idea che soltanto un regime religiosamente neutrale possa risolvere con successo il problema della violenza religiosa. Perciò gli Stati Uniti hanno una spesa militare più alta di quella di tutte le altre nazioni del mondo messe insieme: anche se siamo sempre più interessati a parlare della violenza degli altri. Nonostante tutti i discorsi che si fanno sui tagli del bilancio, la voce relativa alle spese militari resta intoccabile, e questo accade, almeno in parte, perché pensiamo che la nostra la violenza non sia una vera violenza. Abbiamo altri nomi per indicarla, molto più nobili: come “pace”, o “patriottismo”.

Martin: Mi sembra di capire che questo libro rappresenti una sorta di allontanamento rispetto alla tua normale attività di teologo. Se non avessi saputo che sei un teologo, non l’avrei mai intuito partendo da queste pagine. Ora, che rapporto vedi tra gli argomenti di questo libro e le tue opere precedenti? Hai avuto qualche difficoltà a scriverlo? E come valuti il fatto che il tuo discorso, in qualche misura, dipende dalle riflessioni di Russell McCutcheon, cioè di un autore che si è sempre opposto all’insegnamento delle materie teologiche nelle università?

Cavanaugh: La preoccupazione principale di McCutcheon è che i dipartimenti di Studi religiosi possano servire da copertura per la teologia [e dunque per un approccio confessionale]. Il suo intento profondo, quando esplora le visioni ideologiche che sottostanno alla categoria di “religione”, è quello di liberare l’accademia dalle discipline teologiche, una volta per tutte. Bene, io non credo che questo sia possibile, né tantomeno auspicabile. Penso al contrario che la stessa critica del termine “religione” riveli un’onnipresenza del “culto”. Il motivo per cui è così difficile distinguere, per esempio, tra una religione normalmente riconosciuta come tale e un fenomeno come il nazionalismo, è che gli esseri umani, come aveva visto bene Durkheim, finiscono sempre per trattare come “sacro” un insieme eterogeneo di cose. Riflessione politica e teologia sono quindi inseparabili. Cercare di bandire la teologia dalle università significa ignorare il fatto che tutti facciamo, in qualche modo, “teologia”, anche quando ci occupiamo di scienze sociali. Tutti i miei lavori cercano di dimostrare questo intreccio fra teologia e politica, portando alla luce le visioni teologiche che soggiacciono alle nostre idee di Stato o di mercato, come pure i sottintesi politici delle riflessioni teologiche su Gesù. Se ho scritto questo libro senza un impianto teologico, è soprattutto per il fatto che intendevo rivolgermi a un pubblico laico, con argomenti storici che potessero essere valutati per se stessi. Visto da un’altra angolazione, tuttavia, il libro ha anche un tema teologico, un tema implicito se vogliamo, che è quello dell’idolatria. Le persone sono disposte ad adorare spontaneamente un sacco di cose, che vanno dal denaro alla bandiera della propria nazione. Il punto in cui prendo le distanze da Durkheim, è quando suppongo che ci sia davvero un Dio, e che noi possiamo provare a distinguere, almeno provvisoriamente e umilmente, tra un culto “autentico” e un culto idolatrico. Da questo punto di vista, credo che uno dei segni di autenticità per un culto consista proprio nel suo sforzo di rifiutare la violenza.

Martin: Sei riuscito a farti un’idea della ricezione del libro? Ha avuto un’accoglienza positiva? E credi di aver raggiunto il tipo di pubblico a cui intendevi rivolgerti?

Cavanaugh: Il libro, finora, è stato letto soprattutto dai teologi, ma sono contento che abbia ricevuto attenzione anche in altri ambienti. Lo storico Brad Gregory ne ha parlato molto bene, è stato segnalato in “Historically Speaking”, e ha avuto parecchie recensioni in riviste internazionali. Sarà al centro di un convegno che si terrà a Dartmouth, nel maggio 2012, e in quell’occasione potrei essere l’unico teologo presente.

Martin: Qual è la parte del libro di cui sei più soddisfatto? E qual è quella che consideri più debole, rileggendola adesso?

Cavanaugh: Direi che il terzo capitolo è la parte che mi è riuscita meglio: lì sento di aver centrato bene l’obiettivo, scavando nella storiografia delle cosiddette “guerre di religione”. Il capitolo ha 311 note, il che dimostra perfettamente tutta la mia passione per le questioni “oziose”. Gli storici troveranno certamente qualcosa da ridire, ma penso di aver fatto, complessivamente, un buon lavoro. Se potessi rivedere il libro, mi piacerebbe chiarire meglio le conclusioni del secondo capitolo, perché quella che abbraccio non è una teoria funzionalista della religione. Molti recensori si sono lasciati sfuggire questo punto. Credo che le battaglie tra essenzialisti e funzionalisti, per esempio sul fatto di considerare o meno come religioni il confucianesimo o il nazionalismo, lascino il tempo che trovano. Personalmente potrei definirmi un costruttivista. Ma la questione veramente interessante è in quali circostanze, e per quali motivi, alcuni sono convinti che il confucianesimo sia una religione, mentre altri si oppongono decisamente a questa idea.

Martin: Fin dal sottotitolo, tu cerchi di contrastare quella che definisci come “ideologia secolare”. Anch’io penso che la critica ideologica sia ancora utile. Però quest’approccio, soprattutto in certi ambienti, è visto oggi come superato, in parte perché implica un’opposizione troppo netta tra “realtà” e “apparenza”, e in parte perché sembra presupporre, in termini quasi positivisti, la possibilità di un accesso diretto alla realtà (d’altronde, come si potrebbe pensare di smascherare un’illusione, se non si pensa all’esistenza di un “volto reale”?). Tu come risponderesti a questo tipo di obiezioni?

Cavanaugh: Come ho detto nell’introduzione, il miglior modo per smascherare i “miti” o le “ideologie” è quello di mostrare in che modo essi non fanno quello che dicono di fare. Nel nostro caso, il mito della violenza religiosa non riduce realmente la violenza, ma serve appunto a nasconderla dietro a una maschera. Il mito della violenza religiosa può essere annullato soltanto facendo capire come esso non serva a risolvere il problema che pretende di identificare. Insomma, c’è un punto in cui anche la critica alla critica dell’ideologia finisce la benzina. È ovvio che l’accesso alla realtà non possa essere considerato, se non a certe condizioni, come un accesso diretto, ma se non siamo in grado di dire che alcune cose sono vere e altre sono false, beh, allora siamo veramente fregati.

(Testo originale in “Bulletin for the Study of Religion”).

Traduzione a cura di Luigi Walt.

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Alcuni argomenti del libro sono stati anticipati in William T. Cavanaugh, “Does Religion Cause Violence? Behind the common question lies a morass of unclear thinking”, in Harvard Divinity Bulletin, Spring/Summer 2007 (35, 2-3).

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