di Danièle Hervieu-Léger
Il brano è tratto da D. Hervieu-Léger, Religione e memoria, trad. it. Il Mulino, Bologna 1996, pp. 192-197.
Ogni religione implica […] un appello specifico alla memoria collettiva. Nelle società tradizionali, il cui universo simbolico-religioso è interamente determinato da un mito d’origine, che rende conto dell’origine del mondo e del gruppo, la memoria collettiva è presente, di fatto, nelle strutture, nell’organizzazione, nel linguaggio, nelle pratiche quotidiane di società governate dalla tradizione. Nel caso di società diverse in cui prevalgono religioni fondate che danno vita a comunità di fede, differenziate in quanto tali, la memoria religiosa collettiva diventa lo strumento di una struttura indefinitamente ripresa, tale che il passato inaugurato dall’evento storico della fondazione possa essere sempre visto come una totalità di senso.
Nella misura in cui il significato complessivo dell’esperienza del presente è supposta essere contenuta, in modo almeno potenziale, nell’evento fondatore, il passato è costituito simbolicamente come un tutto immutabile, e situato «fuori del tempo», cioè fuori della storia. Nelle tradizioni ebraica e cristiana, questa sottrazione religiosa del passato alla storia si realizza, in maniera privilegiata, nell’esaltazione del tempo della fondazione: essa rende possibile anche l’anticipazione utopica del tempo della fine. L’integrazione simbolica del tempo assume altre forme in tradizioni diverse (per esempio, nelle religioni orientali), ma che rimandano tutte al carattere essenzialmente normativo della memoria religiosa.
La dimensione normativa della memoria non è, in quanto tale, specifica della memoria religiosa: essa caratterizza ogni memoria collettiva che si costituisce e si mantiene attraverso delle operazioni di oblio selettivo, di vaglio e anche d’invenzione retrospettiva di ciò che è stato. Essenzialmente fluida ed evolutiva, la memoria collettiva funziona come istanza di regolazione del ricordo individuale, in funzione delle circostanze del presente. Essa si sostituisce al ricordo individuale anche ogni volta che supera la memoria di un gruppo dato e l’esperienza vissuta di coloro per cui essa è di riferimento.
La «memoria culturale», molto più vasta della memoria di un gruppo particolare, ingloba, riattivandole e rimaneggiandole continuamente, le «correnti di pensiero» che sono sopravvissute a delle esperienze compiute, e che si attualizzano in modo nuovo nelle esperienze del presente. Nell’analisi che ne dà Halbwachs, la dinamica inseparabilmente creativa e normativa della memoria collettiva è, in quanto tale, una funzione produttrice della società stessa [1].
Nel caso della memoria religiosa, la normatività della memoria collettiva si trova rafforzata dal fatto che il gruppo si definisce, oggettivamente e soggettivamente, come una discendenza credente. Si costituisce e si riproduce dunque interamente a partire dal lavoro della memoria che alimenta questa autodefinizione. Al principio di ogni credenza religiosa, vi è […] la fede nella continuità di una discendenza dei credenti che trascende la storia. Essa è attestata e manifestata nell’atto, essenzialmente religioso, di fare memoria (anamnesi) del passato che dà un senso al presente e contiene l’avvenire.
La pratica dell’anamnesi avviene in genere nella forma del rito. Ciò che caratterizza il rito religioso in rapporto a tutte le altre forme di ritualizzazione sociale, è il fatto che la ripetizione regolare dei gesti e delle parole stabilite dal rito ha lo scopo d’inserire nel decorso temporale della memoria (come nel corso della vita di ogni individuo facente parte della stirpe) alcuni eventi fondatori che hanno permesso alla discendenza di costituirsi e/o che attestano, in maniera particolare, della capacità della discendenza di protrarsi, attraverso tutte le vicissitudini che hanno messo e che mettono la sua esistenza in pericolo.
Il ciclo di feste ebraiche illustra in maniera paradigmatica la specificità del rituale religioso. Ma dobbiamo tener presente che la pratica ritualizzata dell’anamnesi non è soltanto caratteristica delle religioni storiche. Essa è costitutiva della dimensione religiosa dei rituali secolari, purché questa dimensione (sempre potenziale) si attualizzi; così la ritualità politica assume una dimensione specificamente religiosa, ogni volta che ha per funzione principale quella di restituire la presenza della memoria gloriosa delle origini nella vita politica comune [2].
Si farà giustamente notare che esistono delle religioni debolmente ritualizzate: è il caso della maggior parte delle sette di origine protestante, che conservano del rito soltanto ciò che deriva direttamente dalle Scritture. La critica del rito è portata all’estremo nei quaccheri che si riuniscono il primo giorno della settimana per la ricerca silenziosa del Cristo interiore. Ma anche in questo caso, come in quello delle cosiddette religioni senza riti (il baha’ismo, per esempio) che riconoscono unicamente la lettura e la meditazione dei testi fondatori, è attraverso una pratica (a-rituale, se necessario) dell’anamnesi che il gruppo religioso si costituisce in quanto tale. L’esistenza di una tale pratica, nella quale un gruppo di credenti si riconosce rispetto a se stesso e agli altri, il suo inserimento nella continuità di una filiazione che giustifica interamente il rapporto che essa intrattiene col presente, è ciò che permette di considerare che si ha a che fare con una religione, e non con una saggezza, una filosofia della vita o una morale.
La normatività specifica della memoria religiosa in rapporto a tutte le esperienze del presente si inserisce nelle strutture del gruppo religioso. Essa prende corpo, il più delle volte, nel rapporto impari che unisce i «semplici fedeli» – utenti abituali e dipendenti di questa memoria – ai produttori autorizzati della memoria collettiva.
La memoria autorizzata si fonda e si trasmette secondo differenti modalità. Essa si autolegittima in modo diverso a seconda del tipo di socialità religiosa propria del gruppo preso in esame, e a seconda del tipo di autorità prevalente: la gestione della memoria non è la stessa – se riprendiamo le categorie di Troeltsch – in una Chiesa, in una setta e in un gruppo mistico. La sua attivazione controllata ad opera di un corpo sacerdotale, istituito a questo scopo, differisce dall’attivazione carismatica della memoria operata da un profeta. Ma, in tutti i casi, è la capacità riconosciuta di dire la «memoria vera» del gruppo che costituisce il nucleo del potere religioso.
Ciò non vuol dire che la memoria religiosa presenti un più alto grado di unità e di coerenza rispetto ad altre memorie collettive (familiari, locali, nazionali o altre): Halbwachs ha insistito al contrario sul carattere eminentemente conflittuale della memoria religiosa, che combina sempre una pluralità di memorie collettive in tensione fra di loro. Il conflitto più grande risiede, secondo lui, nell’opposizione fra una memoria di tipo razionale-dogmatico (che chiama «memoria teologica»), e una memoria di tipo mistico. Esse non gestiscono allo stesso modo il rapporto con l’episodio fondatore in cui si radica la discendenza credente. Secondo Halbwachs, il cui punto di vista sembra del resto fortemente influenzato dal riferimento all’esempio cattolico, il dogma di un gruppo religioso non è altro che il punto di approdo di un lavoro di unificazione forzata della memoria religiosa:
«[Esso] risulta dalla sovrapposizione e dalla fusione di una serie di strati successivi e come da tante parti di pensiero collettive; il pensiero teologico proietta così nel passato [.,.] l’idea che ne ha avuto successivamente. Esso ricostruisce secondo parecchi piani che cerca di collegare tra loro l’edificio delle verità religiose, come se non avesse lavorato altro che su un piano solo» [3].
Omogeneizzando in permanenza le differenti sintesi di memoria già realizzate nel passato, la memoria teologica assicura l’unità della memoria religiosa nella durata e la sua attualizzazione nel presente, elementi indispensabili alla realizzazione soggettiva della discendenza credente. Essa protegge la discendenza dalle perturbazioni che vi introduce la memoria mistica e anche la sua pretesa di restituire il momento fondatore nel presente immediato, mediante la comunicazione diretta col divino.
Uno degli interessi dell’analisi che secondo Halbwachs ha la memoria religiosa è quello di mettere in rilievo il lavoro di razionalizzazione che accompagna il lavoro unificatore della memoria autorizzata. Essa chiarisce anche la dialettica che si stabilisce tra l’appello affettivo e simbolico alla discendenza (assicurato in particolare dal culto) e l’elaborazione di un corpo di credenze la cui accettazione costituisce la condizione formale d’ingresso nella discendenza e della sua conservazione. L’intensità affettiva, la ricchezza simbolica del richiamo rituale alla discendenza può variare considerevolmente, proprio come il grado di esplicitazione e di formalizzazione delle credenze condivise nella comunità in cui si crea una discendenza: ma questa dialettica, che può essere definita «la tradizione nel suo farsi», costituisce per noi la dinamica centrale di ogni «religione».
Note
[1] Questa analisi, soprattutto per quel che riguarda i vari aspetti della memoria religiosa, è sviluppata nelle tre opere principali di Maurice Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire, Paris, Puf, 1952; Topographie légendaire des Évangiles, Paris, Puf, 19712; La mémoire collective, Paris, Puf, 1968 (I ed. 1950). Non potendo in questa sede analizzare le sue tesi, purtroppo poco note, rimandiamo al libro di Gerard Namer, con prefazione di Jean Duvignaud, Mémoire et société, Paris, Méridiens-Klincksieck, 1987.
[2] Ciò vuol dire al contrario che ogni rituale sociale, politico, giudiziario o altro, non è, neppure implicitamente, religioso, quali che siano le analogie a cui si presta: il rituale di un’elezione o quello di un congresso di partito sono dei rituali politici che presentano eccezionalmente degli aspetti religiosi, mentre nel caso di una manifestazione del Primo Maggio, la dimensione religiosa può affermarsi in maniera molto netta, facendo all’occorrenza passare in secondo piano la dimensione politica del rito.
[3] Les cadres sociaux de la mémoire, cit., pp. 201 ss.