di Antonio Spadaro
Riportiamo di seguito alcuni passaggi di un articolo di Antonio Spadaro, Etica “hacker” e visione cristiana, apparso ne “La civiltà cattolica”, n. 3858 (19/03/2011). La versione integrale del saggio si può leggere nel sito “Zenit”.
Il termine hacker è ormai entrato nel vocabolario comune grazie al fatto che giornali e televisioni, ma anche film e romanzi, lo hanno diffuso ampiamente riferendolo a un’ampia serie di fenomeni quale violazione di segreti, di codici e password, di sistemi informatici protetti e così via. Nel caso di Wikileaks si è addirittura parlato di «hacker all’attacco del mondo», identificando in Julian Paul Assange, il suo fondatore, l’«hacker incendiario del web». In generale, dunque, si è imposto il luogo comune per cui il termine hacker viene associato a persone molto esperte nel riuscire a entrare in siti protetti e a sabotarli o, addirittura, a veri e propri criminali informatici. Parlare di etica hacker può allora suonare persino ironico. Perché allora ce ne occupiamo?
Chi sono gli hacker?
Sebbene ormai i media abbiamo imposto questa immagine degli hacker, in realtà i cosiddetti «pirati informatici» hanno un altro nome: cracker. Il termine hacker invece di per sé individua una figura molto più complessa e costruttiva: «Gli hackers costruiscono le cose, i crackers le rompono (hackers build things, crackers break them)» [E.S. Raymond, How to Became a Hacker]. A scriverlo è l’attuale manutentore del Jargon File, una sorta di «dizionario degli hacker» e ideatore del simbolo rappresentativo della comunità hacker.
È vero che to hack in inglese significa «fare a pezzi», «colpire violentemente», ma c’è un uso informale del termine che significa «riuscire a fare», «cavarsela» o anche «farcela», «resistere». Hacker dunque è colui che si impegna ad affrontare sfide intellettuali per aggirare o superare creativamente le limitazioni che gli vengono imposte nei propri ambiti d’interesse. Per lo più il termine si riferisce a esperti di informatica, ma di per sé può essere esteso a persone che vivono in maniera creativa molti altri aspetti della loro vita.
Quella hacker è, insomma, una sorta di «filosofia» di vita, di atteggiamento esistenziale, giocoso e impegnato, che spinge alla creatività e alla condivisione, opponendosi ai modelli di controllo, competizione e proprietà privata. Intuiamo dunque come parlando in modo proprio degli hacker siamo di fronte non a problemi di ordine penale, ma a una visione del lavoro umano, della conoscenza e della vita. Essa pone interrogativi e sfide quanto mai attuali.
Nel 1984 il tecnologo Steven Lévy riteneva, nel suo volume Hackers, quelli che lui giudicava essere i «sette comandamenti della rivoluzione dei personal computer». Da allora essi sono alla base della cosiddetta etica hacker:
- L’accesso ai computer deve essere illimitato e totale.
- Dare sempre priorità all’handson (metterci su le mani, verificare di persona…).
- Tutte le informazioni dovrebbero essere libere.
- Sfiduciare l’autorità: promuovere il decentramento.
- Gli hacker devono essere giudicati dal loro hacking.
- È possibile creare arte e bellezza su un computer.
- I computer possono cambiare la tua vita in meglio.
Troviamo in questo elenco una sintesi chiara, che parla della libertà di azione, dell’importanza della sperimentazione e della verifica, della sfiducia nei confronti di ogni autorità e di un fondamentale ottimismo circa le capacità umane.
Lévy elenca sostanzialmente una serie di atteggiamenti maturati molti anni prima, alla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta, quando emerse una generazione di giovani appassionati di computer che viveva nella Bay Area di San Francisco, uniti dall’interesse a diffondere l’uso di quelle macchine anche al di fuori del ristretto ambito degli studiosi, con la convinzione che questo avrebbe potuto portare un miglioramento qualitativo nella vita delle persone.
Il primo progetto di diffusione e uso sociale dell’informatica si realizzò nel 1969, anno di fondazione della Community Memory di Berkeley. Questa organizzazione di informatici aveva lo scopo di compilare una «banca dati» legata alla città in modo che, attraverso terminali posti in luoghi come lavanderie, biblioteche e negozi, fosse possibile uno scambio di informazioni e di opinioni tra gli abitanti.
Per migliorare le tecnologie così che fosse davvero possibile diffonderle fra la popolazione, nacque l’Homebrew Computer Club, un’associazione di ingegneri, ricercatori e tecnici accomunati dal sogno di rendere l’informatica un’abitudine popolare e di costruire un nuovo e rivoluzionario prototipo di computer. Nel 1976 Steve Wozniak, un membro venticinquenne del Club, costruì il primo personal computer accessibile anche a persone comuni, cioè l’Apple I.
Lo sforzo giocoso della creazione
Un altro membro del Club fu Tom Pittman, uno dei primi «filosofi» hacker. Nel suo manifesto Deus Ex Machina, or the True Computerist egli ha provato a rendere l’idea della sensazione che può accompagnare il vero hacker in questo processo creativo: «Io che sono cristiano sentivo di potermi avvicinare a quel tipo di soddisfazione che poteva aver sentito Dio quando creò il mondo». L’hacker ha in effetti una precisa percezione dell’importanza di dare un contributo personale e originale alla conoscenza. Pittman, che si presenta come «a Christian and a technologist», interpreta questa azione come una partecipazione emotiva al lavoro creativo di Dio, un lavoro che sviluppa interesse, passione, curiosità, che mette in moto le capacità di chi lo compie non avvilendolo. L’hacker è sostanzialmente un creativo sempre in ricerca. Come cristiano egli vive e interpreta il suo gesto creativo come una forma di partecipazione al «lavoro» di Dio nella creazione.
È proprio questo uno dei punti salienti dello spirito hacker: la creatività applicata. Scrive Raymond: «Il mondo è pieno di affascinanti problemi che aspettano di essere risolti». L’hacker è colui che si impegna con spirito lieto e forte motivazione a esercitare la propria intelligenza nel risolvere problemi. In questo senso c’è il rifiuto del lavoro «ripetitivo, faticoso e stupido». L’hacker è capace di grande sforzo, ma perché è mosso da una forte motivazione. Non esclude affatto l’impegno e anzi aborrisce l’ozio, ma sente la sua fatica allietata da una motivazione creativa.
Pekka Himanen, docente all’università di Helsinki e di Berkeley, nel suo fondamentale L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione [Feltrinelli, Milano 2001], a partire da questi presupposti sviluppa una riflessione che ha a che fare direttamente anche con la teologia. Egli articola, in particolare, una profonda critica all’approccio etico protestante, inteso nel senso «capitalistico» di Max Weber, che impone quella che egli definisce «la venerdizzazione della domenica».
Il suo affondo si indirizza contro un certo modo di intendere l’esistenza tutto sbilanciato sul lavoro ottimizzato, legato all’orologio e alla performance, all’efficienza. Propone in alternativa una visione del lavoro umano più ludico e creativo, una «sabatizzazione del venerdì» [Ivi, pp. 30-39].
Himanen mette in guardia circa lo schema fordista della «catena di montaggio», che plasma la nostra vita ordinaria a favore di una nuova «etica» del lavoro caratterizzata da passione e creatività non limitata da turni e tempi rigidi e senza risparmio di capacità. Sotto accusa sono il controllo, la competizione, la proprietà. È una visione che, più che idealizzata, è invece di chiara origine teologica. La sua questione di fondo, infatti, è «Lo scopo della vita», come recita un paragrafo importante del volume: «Si potrebbe dire che la risposta originaria della cristianità alla domanda “Qual è lo scopo della vita?” sia: lo scopo della vita è la domenica» [p. 21].
I suoi riferimenti sono la Divina Commedia di Dante, «apoteosi della visione del mondo preprotestante» [p. 23], Agostino e la Navigatio Sancti Brendani, un’opera anonima in prosa latina, tramandata da numerosi manoscritti a partire dal X secolo. Riflettendo su Agostino che scrive sulla Genesi contro i Manichei, Himanen nota che per il santo d’Ippona «vivere nell’Eden “era più onorevole che faticoso”». Per i peccatori dell’inferno dantesco, invece, «la domenica è sempre qualcosa di allettante, ma non arriva mai. Essi sono condannati a un eterno venerdì» [pp. 22 s.]. La Riforma dunque, a suo giudizio, ha spostato il centro di gravità della vita dalla domenica al venerdì. A questo punto diventa difficile immaginare il Paradiso come un luogo di semplice svago. Mentre nelle rappresentazioni visionarie medievali i peccatori sono puniti con martelli e strumenti di lavoro, il pastore riformato del XVIII secolo Johann Kasper Lavater poteva scrivere che «noi non possiamo essere beati senza avere occupazioni» [p. 23]. È questa visione della beatitudine fatta di lavoro a costituire la base ideologica di un romanzo come Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1719).
L’etica hacker dunque vuol capovolgere l’«etica protestante», affermando che «lo scopo della vita è più vicino alla domenica che al venerdì» [p. 24]. Non è difficile riconoscere l’intuizione di una «vita beata» nel codice genetico della visione hacker della vita, l’intuizione che l’essere umano è chiamato a un’«altra» vita, a una realizzazione piena e compiuta della propria umanità. Ovviamente l’hacker non è l’uomo dell’ozio e del dolce far niente. Al contrario è molto attivo, persegue le proprie passioni e vive di uno sforzo creativo e di una conoscenza che non ha mai fine. Tuttavia sa che la sua umanità non si realizza in un tempo organizzato rigidamente, ma nel ritmo flessibile di una creatività che deve diventare la misura di un lavoro veramente umano, quello che meglio corrisponde alla natura dell’uomo.
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Segnalo un mio articolo del 2005 che tocca gli stessi temi:
Free Software’s surprising sympathy with Catholic doctrine – Linux
e che ha poi dato origine al Progetto Eleutheros – approccio cattolico all’informatica
Molto interessante, grazie!
Interessante, non mi è piaciuto però il titolo del post (più da “l’Espresso” che da “Paulus” :-). Saluti.