di Pierre Boutang
Nota: Questa che segue, a mia conoscenza, è la prima traduzione italiana di un testo di Pierre Boutang (uno dei pochi filosofi che riesco ancora a digerire): spero sia di buon auspicio per l’anno appena iniziato, e faccia da sprone per una traduzione integrale delle sue opere maggiori (se c’è qualche editore in agguato, mi offro volontario).
Il brano proviene dal libro Le temps. Essai sur l’origine, Hatier, Paris 1993, pp. 46-50. Andrebbe letto nel suo contesto, ovviamente, ma tutto sommato regge bene anche come estratto.
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Ogni volta che una filosofia moderna (da Pascal a Vico, o da Vico a Kierkegaard) ha cercato di «risalire alle fonti», si è imbattuta nell’idea di ripetizione, intesa necessariamente come ripetizione delle origini. È Pascal che lo dice: «Tutta la fede consiste in Gesù Cristo e in Adamo». Questa ripetizione, di fatto, rappresenta il cuore pulsante del cristianesimo, e trova la sua spinta iniziale nella Lettera ai Romani.
Ma a che cosa allude Paolo, quando parla di un Adam forma futuri, secondo la formula della Vulgata ripresa anche da Pascal? L’espressione originale dell’apostolo, typos toû méllontos (letteralmente, «esempio, modello, figura di colui che sta per venire»), rimanda all’idea formatrice di ripetizione. Il termine typos, che si trova pure nella Prima lettera ai Corinzi (10,6), indica un modello destinato a permanere fino alla fine dei tempi, un esempio vivo e miracoloso, come la roccia profetica alla quale si sarebbero abbeverati i figli di Israele nei giorni dell’Esodo («…e quella roccia era il Cristo»).
In che modo, dunque, la vicenda di Adamo annuncia e prefigura quella del Cristo? Lo possiamo comprendere prestando attenzione al significato che lo stesso Pascal conferisce al termine «figura», come di qualcosa che «reca insieme una presenza e un’assenza», e che «porta alla luce in modo manifesto un significato nascosto».
È questo il caso del typos di Rm 5,14, che sancisce un’identità profonda, sostanziale, fra il mezzo che procura la morte, ossia Adamo, e il mezzo che procura la salvezza, ossia Cristo: da un solo uomo, scrive infatti l’apostolo, giunsero al mondo il peccato e la morte, e da un solo uomo giunse la salvezza. Qui viene posta una radicale alternativa fra la caduta e la grazia: da una parte, dice Paolo, la caduta di uno solo ha portato la morte, e dall’altra il sacrificio di Cristo ha sovrabbondato per la vita.
La ripetizione conserva la contraddizione, e apre la strada al mistero, umanamente incomprensibile, della trasmissione della colpa (tutte le ripetizioni delle origini sono ambigue). Un altro mistero, contemporaneamente, si affaccia all’orizzonte dell’umanità (che è concepita da Paolo come un unico essere umano, che percorre l’intero corso della storia): è il mistero della fede, già affrontato dall’apostolo nel capitolo precedente della sua lettera.
Nel racconto della Genesi, Abramo è «giustificato» per mezzo della fede: la promessa di Dio precede qualunque sua opera o azione, anche quella appena impostagli della circoncisione – e la giustificazione è presentata come il risultato del fatto che Abramo «credette» (epísteusen, secondo il testo greco dei LXX). Dio parla ad Abramo, come ha già parlato ad Adamo nell’Eden, e ciò che gli comunica non è un divieto, bensì una promessa, enorme e incredibile a tal punto da suscitare una reazione paradossale, dove il riso si intreccia alla fede. Qual è infatti il contenuto di questa promessa? È una discendenza numerosa, paragonabile al cielo trapunto di stelle. L’elemento proprio della fede di Abramo, tuttavia, non risiede nell’atto stesso di credere, quanto nel computo imprevisto che Dio vi ricava: «Abramo credette in Dio, e ciò gli fu computato a giustizia» (Gen 15,6). Il testo dei LXX, con l’espressione elogísthē eis dikaiosynen, mette in relazione il computo, inteso come il salario di un lavoratore, e la giustificazione: la deduzione di Paolo è pertanto corretta.
Ma siamo in grado, a questo punto, di comprendere in che senso Adamo possa essere proclamato «figura di colui che sta per venire», e in che modo si possa dire che la grazia cancella gli effetti della caduta?
Cominciamo col dire che la colpa di un singolo uomo, il primo uomo, non ha cancellato la natura dell’uomo, ma ne ha piuttosto alterato il rapporto col Creatore (e con la creazione). Il castigo di Adamo è unico, esattamente come la sua colpa: la punizione inflitta ad Adamo – cioè la perdita della giustizia originaria, e la condanna alla morte – non è certamente leggera, ma non può essere disgiunta dai gesti di misericordia che Dio stesso vorrà concedere, del tutto gratuitamente, all’umanità futura: dopo il peccato, dopo il diluvio, dopo Babele. Questi gesti, come macigni di attesa e di redenzione, distinguono in maniera radicale la caduta di Adamo da quella degli angeli ribelli.
In maniera speculare rispetto alla colpa, anche la salvezza proviene da un singolo uomo, che è diverso da Adamo perché la sua natura non è più semplicemente umana, ma divina. Se Paolo non ne parla direttamente al capitolo quinto, è per mantenere intatta la forza dell’accostamento figurale. L’apostolo si limita a un accenno fugace:
«Il dono della grazia non è paragonabile alla colpa: se infatti per la colpa di uno solo morirono in molti, molto più sovrabbondarono la grazia di Dio e il dono concesso da uno solo, Gesù Cristo» (Rm 5,15).
L’autorità di Paolo non permette di glissare su questo «molto più»: non è considerando il numero complessivo dei redenti, d’altronde, che l’effetto della grazia oltrepassa le conseguenze del peccato. Il bellissimo verbo che indica la sovrabbondanza allude piuttosto all’effetto della grazia in ciascun uomo, preso singolarmente, e salvato per mezzo della fede.
L’apostolo, inoltre, non sta pensando solo al regno di morte che va da Adamo a Mosè, ma anche ai peccati che precedettero la promulgazione della Legge, non ancora imputabili a colpa; solo in seguito, per effetto della Legge, il peccato sarebbe diventato «positivo», ovvero interpretabile come un atto di disobbedienza nei confronti della Legge: cosa che avrebbe reso ancor più necessaria la fede in Cristo, e l’avvento di ciò che Paolo definisce come sovrabbondanza della grazia (un regno di Dio che avrebbe inglobato i peccatori e, almeno in potenza, l’umanità intera).
Il movimento stesso della Lettera ai Romani ci porta a distinguere all’interno della storia umana, e forse anche all’interno della storia di ciascun essere umano, tra due forme di ripetizione o di riproduzione delle origini, quantomeno laddove si sia diffuso il dogma, o se vogliamo il «mito», del peccato delle origini […]. La prima forma è sostenuta da una visione globale dell’essere o del mondo: pur non ignorando i concetti cardinali di bene e di male, non si separa mai da questo dogma. Pascal, lo abbiamo visto, dice ad esempio che «tutta la fede consiste in Gesù Cristo e in Adamo», ma aggiunge anche che «tutta la morale (consiste) nella concupiscenza e nella grazia». La seconda forma comprende invece le varie visioni che si basano sulla supposizione di una singola origine, storicamente determinata, con una Legge o un corpus di leggi il cui valore può essere limitato nel tempo.
La Lettera ai Romani (ed è questo che la rende un documento assolutamente eccezionale, una vera e propria cattedrale del pensiero umano) riunisce in sé le due forme: essa fa riferimento, innanzitutto, a un dogma o mito universale, che riguarda la creazione e il peccato delle origini, ma lo arricchisce con la ripetizione della promessa ad Abramo, presupposto e discrimine per la comprensione stessa del racconto della Genesi; d’altra parte, però, la lettera colloca la ripetizione delle origini in un periodo di tempo limitato, che va dalla promulgazione della Legge attraverso Mosè (con la costituzione del popolo di Israele) e arriva fino all’avvento del Messia.
Muovendo da un tale bagaglio di dottrine e tradizioni, dalla creazione alla Legge, questa dottrina universale delle origini finisce per porre le basi di un preciso problema filosofico, quello del rapporto fra il tempo e la libertà umana. L’azione della Legge, nella Lettera ai Romani, può essere ancora valutata come una mera ripetizione delle origini, secondo uno schema che non cesserà di essere ripreso dalle elaborazioni teologiche e filosofiche del cristianesimo successivo. Ma cosa dice l’apostolo, a proposito della Legge e dell’atteggiamento d’Israele nei confronti della Legge?
Gli Ebrei, fin dai tempi di Mosè, si sono impegnati nella conservazione e nell’adesione alla Legge; non se ne possono distaccare completamente, e ancor meno la possono condannare dal punto di vista della sua origine (questo è un punto che il cristianesimo, nella sostanza, ha mantenuto intatto). La strada indicata dall’apostolo, apparentemente tortuosa, esige con la fede in Gesù Cristo una ripetizione dell’origine, cioè del tempo che va da Adamo a Mosè, e al contempo una ripetizione del tempo della Legge. Nell’esperienza personale di Paolo, nella sua ripetizione dell’avventura di Adamo, non c’è infatti posto per alcuna conoscenza del peccato, se non per mezzo della Legge:
«Quando vivevamo nella carne, le passioni dei peccati si servivano della Legge per agire nelle nostre membra, portando frutti di morte. Ma ora siamo stati risvegliati, liberati dalla Legge» (Rm 7,5-6).
In che cosa consiste, allora, questo risveglio dalla Legge, questa rinnovata libertà? Paolo scrive:
«Diremo forse che la Legge è peccato? Non sia mai! Ma io non conobbi il peccato se non per mezzo della Legge, e non avrei saputo nulla del cattivo desiderio, se la Legge non avesse detto: Non desiderare. Così il peccato, appoggiandosi al divieto [nella traduzione di Boutang, interdiction; nel greco originale, entolē, “comandamento”], ha scatenato in me ogni sorta di desiderio: perché senza la Legge il peccato è morto. Ed io vissi un tempo senza la Legge, ma quando giunse il divieto, il peccato prese vita, ed io morii; e si trovò che il divieto, che avrebbe dovuto mantenermi in vita, mi condusse invece alla morte. E così il peccato, appoggiandosi al divieto, mi sedusse, e per mezzo suo mi tolse la vita» (Rm 7,7-11).
Non si può davvero restare indifferenti, di fronte a questa «originazione» del peccato nel divieto; e non è un caso che di essa siano state offerte letture discrepanti, talora completamente opposte: a gloria del divieto, magari arrivando a supporre un legame tra la proliferazione del peccato e la sovrabbondanza della grazia; oppure contro il divieto, nel senso mai completamente eluso, e ancor oggi seducente, del «vietato vietare».
Resta poi un altro problema spinoso da risolvere, che riguarda il primo divieto, quello che Dio, e non Mosè, avrebbe imposto ad Adamo nell’Eden: si sarebbe potuto affacciare, nella mente del primo uomo, un pensiero simile a quella sviluppato dall’apostolo? La differenza, in effetti, è palese: Adamo non viveva nel peccato, ma nella giustizia, allorquando sopraggiunse il divieto e Dio permise la tentazione e la caduta.
Questa differenza non può che accentuare il nostro senso di mistero, un mistero che non riusciremmo nemmeno a concepire come tale, se non facessimo nostra la riflessione dell’undicesimo libro delle Confessioni di Agostino, per cui il futuro dev’essere visto come il momento fondativo del presente e del passato… L’avvenire e l’avventura della grazia, in questo senso, risultano inscritti fin dalle origini nella volontà provvidenziale e imperscrutabile del Creatore.
L’ecumenismo è l’AVVENIRE! Domando un parere su questa traduzione ecumenica della III° p.e., che vorremmo usare nella nostra Parrocchia, preghiera che per le accuse di eresia su MessaInLatino non ci è stata finora autorizzata.
Veramente sei santo, Signore, ti benedice tutta la creazione, Tu che, per mezzo del tuo figlio, Gesù e con la potenza dello Spirito, dai vita e santità a ogni cosa, e sempre e ovunque non manchi di accogliere in santa Assemblea tutti i popoli, Tu che sei sempre e ovunque presente, quando due o tre proclamano il tuo Nome in offerta spirituale. Ti preghiamo, dunque, perché questo pane e questo vino, che a Te portiamo come segni della nostra umile dedizione, per mezzo dello stesso Spirito, Tu li santifichi, perché diventino il corpo e sangue di Gesù, sacramenti del suo Amore, che ci ha chiamato a celebrare e condividere. Egli stesso, nella notte in cui fu tradito, ringraziando e benedicendo Te, prese il pane, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: PRENDETE E MANGIATENE TUTTI, QUESTO È IL MIO CORPO, SACRAMENTO DATO A VOI
Allo stesso modo, dopo la santa Cena, ringraziando e benedicendo Te, prese il calice del vino e lo diede ai suoi discepoli dicendo: PRENDETE E BEVETENE TUTTI, QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE, SACRAMENTO DELLA NUOVA E ETERNA ALLEANZA, DATO A VOI E A TUTTI PER LA LIBERAZIONE E RISCATTO DAL MALE. MANGIATE E BEVETE IN MEMORIA DI ME.
Mistero della fede. Annunciamo la tua morte, Signore, celebriamo la tua resurrezione, perché venga il Regno!
Ora dunque, Signore, noi ricordiamo la passione liberatrice di Gesù, la sua mirabile resurrezione e il suo ritorno a Te, ma attendiamo anche la venuta del Regno e perciò ti dedichiamo questa nostra eucarestia di lode, offerta viva e santa al tuo Nome. Guarda, ti preghiamo, questa tua Assemblea in eucaristia e, riconoscendo in essa le stesse disposizioni di Gesù sulla croce, concedici che, nutriti del Pane della vita e del Vino della tua benedizione, sacramenti di Gesù stesso, da Te siamo trovati nell’unità dello Spirito. Lo stesso Spirito ci trasformi in eucaristia incessante per l’avvento del Regno, in comunione universale nel tuo Amore, in particolare con Maria, gli apostoli, i martiri e tutti i santi. Fa, Signore, che questa eucaristia sia germe di pace per la terra e per i viventi, in cui Tu stesso poni la tua compiacenza, sia germe di unità e pace per la chiesa, pellegrina nell’esodo e nel nascondimento, sia germe di fede e comunione nel tuo Amore con i nostri pastori (il papa, il nostro vescovo, le conferenze episcopali, i sacerdoti, i religiosi), con i diaconi, i ministranti, i tuoi servi nella pastorale, i laici e con tutto il mondo, che consideri tuo anche se non ti professa. Ascolta le speranze e le attese della famiglia umana, Tu che congiungi nel tuo Amore tutti quelli che sono lontani e dispersi. Ricordati infine dei nostri defunti e di tutti quelli che hanno lasciato questo mondo e fa che, come per tutti speriamo, tutti giungano al banchetto del cielo, in Gesù nostro Signore, nel quale Tu doni ogni bene. Per Gesù, con Gesù e in Gesù, nell’unità dello Spirito, a Te Padre buono, ogni benedizione per sempre fino a che venga il Regno. Amen.
Non sono un liturgista, e sono decisamente colpito da questa forma bizzarra di “spam liturgico”, ma provo comunque a dare un mio modesto parere:
1. Problema di “circostanza”: c’è davvero bisogno di aggiungere una nuova preghiera eucaristica a quelle già esistenti? Quella proposta, di fatto, non è una “traduzione”, ma una vera e propria (ri)elaborazione. La strada per l’inferno liturgico è spesso lastricata di buone intenzioni (ecumeniche o meno).
2. Problema di “forma”: il Messale romano va pensato necessariamente in latino, non da ultimo per ragioni di economia linguistica. Mi pare che il testo proposto manchi della limpida asciuttezza propria delle formule tradizionali. Anche una retroversione porrebbe parecchi grattacapi, persino a un latinista esperto (prendiamo ad es. l’espressione “i tuoi servi nella pastorale”, forse apposizione per “ministranti” – et pour cause! – o forse riferimento a scaccini e animatori di parrocchie).
3. Problema di “sostanza”: anche da questo punto di vista ci sono parecchi punti problematici (ingenuità? ambiguità volute?). Ad es. il riferimento all’avvento del regno (chiliasmo?), o la definizione di “chiesa” (edificio?) come “pellegrina nell’esodo e nel nascondimento” (Ernst Bloch?). Ma qui la valutazione dipende per forza dalla percentuale di “ecumenicità” che si pretende di rappresentare. A me pare un po’ ristretta, dato che esclude ipso facto i cattolici…
Che ne dici di tradurre qualche passo dell’Ontologie du Secret?
Qui http://stalker.hautetfort.com/, poi, trovi diverse cose notevoli.
p.s. Complimenti per la tua argutissima risposta al/alla chierichetto/a.
Ecco cos’altro non mi tornava nella prece…
L’uso di “Signore” solo al maschile!
P.S. Mi era già capitato di spulciare in quel sito (arrivandoci attraverso una rivista online che credo non esista più, “Dialectique”). Quanto a “Ontologie du secret”, ci ho pensato a lungo, ma i brani isolabili sono troppo lunghi e densi per le mie povere forze… Per non parlare del bellissimo “Apocalypse du désir”, che richiederebbe uno sforzo linguistico ancora maggiore… Intanto lanciamo l’idea, e chissà che qualche sofo non la raccolga!
Vuoi vedere sistemata per le feste l’idea cattolica di sacrificio? Se non ti bastano le anafore ecumeniche, vai sull’ultimo quaderno di Servitium…
Quanto a Dialectique, qualcosa rimane tra le pagine chiare e spt le pagine scure: http://revue.dialectique.free.fr/public_html/dialectique9.htm
Grazie per le segnalazioni!
P.S. Servitium aut Sevitium: hoc est problema…