Seneca e i cristiani

di Villy Sørensen

L’articolo è tratto da Villy Sørensen, Seneca, Salerno Editrice, Roma 1988, pp. 219-226.

Mentre i Romani nei periodi neri temevano la fine del mondo e negli attimi felici speravano nell’età dell’oro, i cristiani aspettavano contemporaneamente la fine del mondo del peccato e la gloria del mondo futuro. All’ascesa al trono di Nerone, Seneca aveva sperato in un’epoca della purezza, ma all’inizio del 60, nella sua grande opera sulla natura, scrisse ispirato della fine del mondo. Anche la tragedia Tieste probabilmente è scritta in questo periodo:

Noi, proprio noi,
di tante generazioni,
siamo stati prescelti?
Noi, proprio noi, saremo travolti dal mondo
che vuol spezzare il suo asse?
Cadrà su di noi l’ultima ora?
A dura sorte
fummo creati, noi miseri. Il Sole
o l’abbiamo perduto
oppure l’abbiamo scacciato.
Basta, non più lamenti,
non più timore. Troppo
è avido di vita
colui che non vuole morire
quando con lui perisce
l’universo!

(vv. 875-884)

Nel Vangelo di Matteo, Cristo profetizza che «il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo, e le potenze dei cieli saranno sconvolte», e questi tormenti sono vicini, perché «non passerà questa generazione prima che tutto ciò avvenga», e «chi avrà saputo perseverare sino alla fine, questi sarà salvo», e «vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con gran potenza e gloria».

Con la sua morte in croce, Gesù, che aveva annunciato il regno di Dio sulla terra, patì il destino del dio sofferente dei miti e delle religioni misteriche: la morte e la resurrezione di Cristo assunsero un ruolo centrale nel Cristianesimo; però nel Cristianesimo il corso mitico non aveva solo un significato per il culto, ma anche per la storia del mondo: prendendo su di sé i peccati del mondo, il dio poneva fine al vecchio mondo del peccato.

La Lettera agli Ebrei, che probabilmente è scritta ai tempi di Nerone, contiene una diretta polemica contro il fatalismo pagano nei confronti del circolo ineluttabile e infinito: Cristo non doveva «offrir se stesso in sacrificio tante volte, come il pontefice entra ogni anno Santo dei Santi con sangue non suo, altrimenti Cristo avrebbe dovuto soffrire più volte dal principio del mondo, invece egli è comparso una volta sola, nella pienezza dei tempi, per distruggere il peccato col sacrificio di se stesso. E come è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola e dopo la morte venga il giudizio, cosi pure Cristo si è immolato una volta sola per togliere i peccati di molti, e la seconda volta, senz’aver nulla a che fare col peccato, comparirà a quelli che l’aspettano in attesa di ricevere la salvezza» (9, 25-28).

Il 18 giugno del 64 scoppiò a Roma un incendio che infuriò per sei giorni e ricominciò dopo essersi apparentemente spento; tre delle quattordici regioni della città furono distrutte, solo quattro rimasero intatte. Per la concezione mitica dell’epoca, una sventura di quelle dimensioni non poteva essere casuale, e fu paragonata alla distruzione della città da parte dei Galli nel 388, che era stata considerata come la fine dei tempi: «né già più alcuno», scrive Dione Cassio, «per cagione delle cose sue rattristavasi; soltanto cosa pubblica piangeva ciascuno» (Storia romana, LVI, 36).

Ma i cristiani devono aver vissuto la catastrofe universale come una conferma di ciò che era stato loro promesso, e sicuramente non riuscirono a dissimulare loro aspettative. Sicuramente qualcuno se ne accorse e se ne scandalizzò. Le voci che nacquero – e che ancora esistono – sulla responsabilità di Nerone nell’incendio, mancano di qualsiasi fondamento, ma i Romani vedevano una relazione fra la società e l’imperatore, e considerarono l’imperatore responsabile di ciò che era accaduto. Perciò la catastrofe fu catastrofica per Nerone, che amava sentirsi amato, e che fece ciò che poteva per limitare le dannose conseguenze.

Tacito scrive:

«Tuttavia non i rimedi escogitati, né la generosità del principe, né le cerimonie religiose per propiziarsi gli dèi potevano soffocare l’infame diceria che l’incendio fosse stato ordinato. Nerone allora, per troncare quelle voci, fece passare per colpevoli e sottopose a raffinatissimi tormenti coloro che il volgo chiamava Cristiani e odiava per le loro azioni nefande. Cristo, il fondatore della setta, dal quale avevano preso il nome, era stato giustiziato dal procuratore Ponzio Pilato sotto il regno di Tiberio. Ma la rovinosa superstizione, repressa per il momento, dilagava di nuovo non solo per la Giudea, luogo d’origine di quel male, ma anche per Roma, dove confluiscono e trovano seguito tutte le atrocità e le vergogne del mondo. Dapprima pertanto si processarono coloro che erano confessi: poi, in base alle loro denunzie, moltissimi vennero convinti non tanto di avere appiccato il fuoco, quanto di odiare il genere umano. I condannati a morte furono anche oggetto dello scherno più atroce. Alcuni, coperti con pelli di fiere, erano dilaniati dal morso dei cani: altri, crocifissi o arsi vivi, per rischiarare come fiaccole la notte, dopo il tramonto del sole. Per un tale spettacolo Nerone aveva offerto i suoi giardini e dava giuochi nel Circo, mischiandosi alla folla in costume d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò costoro, sebbene colpevoli e meritevoli dei castighi più gravi, suscitavano pietà, come gente sacrificata non al pubblico bene, ma alla crudeltà di uno solo» (Annales, XV, 44).

I cristiani, che attendevano la fine del mondo e potevano essere sospettati di volerla accelerare, furono sacrificati per pacificare il popolo e il potere. Sopportarono le loro sofferenze eroicamente, come eroi stoici: come Cristo aveva sofferto per gli uomini, cosi i suoi discepoli soffrirono per Cristo e si resero degni di seguirlo nel suo regno.

È strano che Seneca, che nell’epistola 91 scrive dell’incendio di Lugdunumus (Lione), non parli di quello di Roma. Ma quello che scrive nell’autunno del 64 può essere scritto sotto l’impressione delle stragi di cristiani, che furono le prime orgie di crudeltà di Nerone, commesse «per deliberazione del Senato e per decreti popolari; nella vita pubblica dello Stato vengono imposti atti che sono invece privatamente vietati. Azioni che fatte di nascosto si sconterebbero colla pena di morte, invece divengono degne di lode quando sono compiute da uomini investiti di autorità […]. L’uomo, cosa sacra all’uomo, è ucciso per divertimento e per gioco: mentre una volta era cosa nefasta che un uomo fosse ammaestrato a dare o ricevere una ferita, ora invece quegli uomini si fanno uscire nudi e inermi nell’arena, e lo spettacolo non è perfetto se un uomo non ha dato la morte a un altro uomo» (Epistola 95, 30 sgg.).

Per il resto Seneca non rivela alcuna conoscenza dei Cristiani; in teoria può aver sentito parlare di San Paolo dal fratello Gallione, col quale fu in stretto contatto per tutta la vita, ma è improbabile se si considera quanta poca importanza Gallione, governatore del’Acaia, dava alle contese interne fra gli Ebrei. Ma molte delle pressioni di Seneca possono ricordare le parole di Gesù nei Vangeli, e nelle sue lettere a Lucilio dimostra una religiosità personale più profonda dell’impersonale fatalismo: «Dio ti è vicino, con te, è dentro di te» (Ep. 41, 1); «Se tu mi presti fede io ti rivelo i miei sentimenti più profondi: ebbene, di fronte a tutto ciò che mi si presenta avverso e doloroso, io sono giunto a formarmi questo stato d’animo, faccio atto non di obbedienza ma di consenso alla divinità, e la seguo per spontaneo atto di volere, non per la necessità» (Ep. 96, 2).

Seneca sottolineava che nel rapporto con gli dèi è importante la volontà retta e pia, e scrisse un’opera, il De superstitione, nota solo da citazioni nei Padri della Chiesa che vi trovarono argomenti contro il paganesimo. Sant’Agostino riteneva giusto criticarlo (De Civ. Dei, VI, 10; XX, 19) perché, pur nel suo intimo rapporto con la divinità, rispettava comunque il culto ufficiale (come istituzione sociale), ma per il resto i primi scrittori cristiani se ne servirono volentieri. «Seneca, che spesso è della nostra opinione», scrive Tertulliano, le cui famose parole sull’«anima, per sua natura cristiana» si basano proprio su Seneca (De anima, XX, 1; Apologeticum, XVII, 6).

Lattanzio chiama Seneca «il più acuto di tutti gli stoici» e scrive: «Cosa potrebbe esprimere, uno che conosca Dio, più veritieramente di quello che è stato detto da quest’uomo, che non conosceva la vera religione? Egli avrebbe potuto essere un vero adoratore di Dio, se qualcuno gli avesse mostrato la strada» (Divinae Institutiones, II, 8, 23; VI, 24, 13). Per gli uomini di buona volontà dev’essere stata una grande tentazione immaginare che qualcuno gli avesse mostrato la strada.

Nella Lettera ai Filippesi, san Paolo scrive: «Vi salutano tutti i santi e specialmente quelli della casa di Cesare» (4,22): e Seneca non apparteneva forse alla casa di Cesare? Probabilmente proprio questo passo della lettera è all’origine della fittizia corrispondenza tra San Paolo e Seneca, scritta prima del 300 e considerata autentica nel Medioevo. In realtà fu sicuramente scritta, senza alcun talento, come «esercitazione» in una scuola di retorica, ma è interessante perché mette Nerone in relazione con Cristo: se Cristo è l’agnello che porta i peccati del mondo, Nerone è il caprone che deve espiare per i peccati del mondo: «Come i migliori di tutti hanno dato la testa per molti, così egli dev’essere condannato a bruciare nel fuoco per tutti».

Dato che già una volta Cristo era stato «sacrificato per portare i peccati del mondo», a rigor di logica era superfluo bruciare anche Nerone per lo stesso motivo. Ma è naturale che l’opinione dei Cristiani fosse influenzata dalla constatazione che la gloria del mondo futuro si faceva attendere, e loro intanto venivano perseguitati.

La costanza stoica divenne anche una virtù cristiana, ma fra le sofferenze degli stoici e quelle dei Cristiani c’era ancora una differenza: per gli stoici esse erano una qualificazione morale, mentre per i Cristiani erano anche una qualificazione per il mondo futuro. E il concetto che i buoni saranno premiati sottintende il concetto che i cattivi saranno puniti: i Cristiani non aspettavano solo la redenzione dalle loro sofferenze nel mondo del peccato, ma anche uno sfogo alla loro rabbia. Non immaginavano solo che Nerone, il primo persecutore – il cui nome in ebraico può anche essere interpretato come il numero della bestia nell’Apocalisse (666) – , dovesse bruciare per tutti, ma anche che dovesse punirli.

Come il corpo di Cristo era scomparso dal sepolcro, cosi la tomba di Nerone era scomparsa dalla terra, perciò, come racconta Lattanzio, nacque la superstizione «che Nerone fosse stato portato via dalla terra e conservato in vita per essere, come primo persecutore dei Cristiani, anche il loro ultimo persecutore, e annunciare il regno dell’Anticristo». E quando Cristo tornerà per iniziare il suo sacro ed eterno regno, allora si crede, ma secondo Lattanzio è superstizione, che «anche Nerone tornerà come precursore e araldo del demonio, quando questo si mostrerà per distruggere la terra e spazzar via la stirpe degli uomini» (De mortibus persecutorum, C, 2).

In questo modo Nerone, principe di questo mondo e allievo di Seneca – che aveva cercato di insegnargli a essere il servitore dei più piccoli – entrò come Anticristo nel mondo dell’immaginario cristiano-popolare!

Fu il cristianesimo, e non lo stoicismo, a diventare popolare, ma la sua popolarità era condizionata dal dualismo primitivo che metteva l’Anticristo in contrapposizione a Cristo e poneva un limite fra il naturale e il soprannaturale, fra l’umano e il divino, fra il male e il bene. Lattanzio, secondo il quale Seneca aveva espresso molte cose meglio dei Cristiani, ci ha anche dato di lui una critica che precisa la differenza fra stoicismo e cristianesimo. Le sue obiezioni sono:

che il naturale non è il bene,
che la conoscenza del bene (saggezza) non è di per sé il bene,
che il suicidio non è permesso, e
che la compassione non è una debolezza

(Divinae Institutiones, III, 8.18.23).

Se per ora prescindiamo da quest’ultimo punto, gli altri tre possono essere riassunti dicendo che secondo lo stoicismo l’essere mano, grazie alla sua natura e alla sua ragione, può emanciparsi, se non altro dalla vita, mentre secondo il cristianesimo può essere redento solo con la grazia.

Ma pur constatando che noi tutti siamo peccatori, i Cristiani non erano più indulgenti nei confronti di quei peccatori che non venivano salvati dalla grazia di Dio ma condannati dalla sua ira. Tertulliano, che intorno al 200, nel De spectaculis, condannò i combattimenti ancora più passionalmente di Seneca, consolava i Cristiani – per i quali adesso era davvero difficile non partecipare a questi peccaminosi divertimenti – dicendo che il giorno della promessa – che ebbe anche il nome di dies irae – avrebbero visto uno spettacolo molto più sanguinoso.

Tertulliano accettava in cielo ciò che condannava sulla terra, e l’ira repressa esteriormente continuava a covare nell’intimo e assumeva dimensioni divine. L’ira, il bisogno di infliggere punizioni, che per Seneca era il peggiore dei peccati, caratterizzò in qualche caso il cristianesimo, che era nato nelle persecuzioni e che poi conquistò potere e regno. Gesù aveva detto: «Perdonali, perché non sanno quel che fanno», e Seneca aveva scritto: «Perdona a tutti perché tutti sono stolti» (De beneficiis, V, 17, 4).

Nella storia della Chiesa lo spirito evangelico o stoico non ottenne un trionfo, ma dovette accontentarsi di una limitata vittoria morale. L’ultima obiezione di Lattanzio a Seneca – che la compassione non è una debolezza – in un certo senso aveva già avuto risposta nel De clementia, dove Seneca aveva scritto che tutto ciò che ci si può aspettare dal compassionevole lo fa il saggio, ma con un’«indole buona».

Secondo la concezione stoica, la compassione era partecipazione alla sofferenza, quindi essa stessa una sofferenza, e chi è preso dalle passioni non può agire liberamente. Però vale la pena notare che Seneca, che nel De ira aveva nominato la pietà fra i «vizi più blandi» (II, 15, 3), in un passo dei Benefici parla di «umanità ovvero pietà» (III, 7, 5), e in un altro passo nomina la pietà insieme alla magnanimità e alla clemenza (V, 9, 2).

Se non aveva cambiato opinione, aveva cambiato però l’uso della lingua, e si era lasciato alle spalle la dogmatica; solo nel De clementia considera la pietà come una «debolezza psicologica», e questo scritto era diretto a Nerone. Per giovare veramente agli altri è fondamentale essere se stessi, come è sottinteso anche nel messaggio d’amore dei Cristiani: ama il prossimo come te stesso.