Le epistole ai Tessalonicesi

di Francesco Spadafora

Il testo è tratto dalla voce «Tessalonicesi, epistole I e II ai», in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948-1954, vol. XII, coll. 9-16.

[Quelle ai Tessalonicesi] furono le prime lettere scritte da s. Paolo, nel 50-51 d.C., da Corinto, a pochi mesi di distanza l’una dall’altra.

1. PRIMA EPISTOLA AI TESSALONICESI

1.1. Occasione

All’inizio del secondo viaggio apostolico, nei primi mesi del 50, s. Paolo, dopo aver evangelizzato Filippi (At 16), incontrando, come al solito, opposizione da parte dei giudei che gli procurarono «sofferenze ed oltraggi» (1Ts 2,1), si diresse con Sila (At 16,25 – 17,4) verso la Tessaglia. Toccò Anfipoli, Apollonia e si fermò a Tessalonica (150 km da Filippi), dove c’era una sinagoga di giudei. A questi, per tre sabati, espose le S. Scritture, dimostrando la messianicità di Gesù; alcuni di essi credettero e si unirono a Paolo e a Sila ; aderirono anche un «gran numero di proseliti e Greci e non poche donne delle prime famiglie» (At 17,4). Ciò rese furiosi i giudei, i quali sobillarono dei ribaldi, assoldarono i parassiti del mercato e delle piazze, e misero sossopra la città; per disfarsi in modo spiccio di Paolo e Sila, circondarono la casa che li ospitava, ma questi erano fuggiti nella notte a Berea, cittadina vicina, onde poter curare da presso lo sviluppo della nuova comunità dei Tessalonicesi; ma i giudei anche a Berea aizzarono il volgo contro Paolo, che lasciati i collaboratori, dovette allontanarsi per Atene (At 17,1-15).

La prima epistola ai Tessalonicesi accenna a prove esterne, a «referenze, oltraggi che Paolo e i convertiti subirono a Tessalonica, persecuzioni che continuarono accanite (2,2-20): e Paolo trepidante, non potendo tornare, manda il suo diletto Timoteo per confermare ed incoraggiare i cristiani nella fede (3,2-8; cf. ancora 2Ts 1,4-6).

Riusciti a scacciare l’Apostolo dopo appena tre settimane, senza avergli permesso di portare a termine l’insegnamento sulle verità del cristianesimo (1Ts 3,10), i giudei sperano ora di cancellare ogni traccia della sua opera; ricorrono alla violenza e alla calunnia; rappresentano Paolo quale ciarlatano, vanitoso, vile che ha abbandonato quanti gli han creduto. S. Paolo apprende ciò da Timoteo, che però porta notizie consolanti sulla fermezza dei convertiti. Questo rapporto fu l’occasione prossima della prima epistola.

1.2. Contenuto

Dopo il saluto, che è un augurio e una benedizione (1,1), s. Paolo difende con fierezza l’onore del suo ministero, come in Gal e 2Cor. I fedeli di Tessalonica rimangono affezionati (3,6 sgg.) a Paolo, che intreccia le più grandi lodi per essi alle affermazioni più recise in sua difesa. Contro coloro che vorrebbero dipingerlo qual ciarlatano ricorda i miracoli (1,5), i segni palesi dello Spirito Santo che hanno accompagnato la sua predicazione (cf. 2,2) e il grande risultato ottenuto (1,6-9). Paolo ha agito sempre badando a compiere solo la volontà divina tra continue sofferenze e umiliazioni (2,1-6); il suo disinteresse è tale che, pur avendo diritto al sostentamento da parte dei fedeli, ha sempre voluto procurarlo a sé e ai suoi collaboratori, con il suo lavoro manuale (2,7), spinto a ciò da un motivo soprannaturale (cf. 1Cor 9,7-18), non da diffidenza verso i suoi fedeli, che ama come una nutrice, un padre (2,8-11). Non è vero che egli sia fuggito pensando a sé e abbandonando gli altri al loro destino (2,13; 3,1-13); ha tentato due volte di ritornare in mezzo a loro, ma Satana glielo ha impedito; ha mandato Timoteo perciò, che al suo ritorno gli dà le più belle notizie: l’Apostolo si sente rivivere e ringrazia Dio di cui invoca le grazie sui fedeli (3,8-13). Qui termina la parte principale ed unitaria della lettera (capp. 1-3).

I capp. 4-5 contengono raccomandazioni pratiche varie, brevi e brevissime, che si susseguono senza costituire un insieme organico. Si conservino puri (4,1-8); progrediscano nella carità (4,9-12); temperino le manifestazioni esterne di lutto dando ai gentili, che non hanno speranza, la dimostrazione della loro fede nella futura risurrezione con il ricongiungimento in Cristo di coloro che la morte aveva separati (4,13-18); aspettino con fervore il realizzarsi della promessa divina sul trionfo del Regno di Dio, preparandosi ad esso con la preghiera e la santità della vita (5,1-12); rispettino ed amino i capi della comunità, correggano gli oziosi e quanti han bisogno di riprensione, sempre lieti nel Signore e grati a Dio, perseverino nella preghiera, accolgano i lumi e carismi dello Spirito Santo e fuggano ogni male (5,16-22). Paolo chiude invocando per i fedeli ogni grazia del Signore e inviando loro il suo saluto (5,23-28).

1.3. La «consolazione» circa i defunti

Il testo della terza esortazione (4,13-18) è il seguente: «Non vogliamo che siate nell’ignoranza, o fratelli, circa coloro che muoiono (“si addormentano”), affinché non vi abbandoniate alla tristezza come gli altri (i pagani) che non hanno speranza. Poiché se crediamo che Gesù è morto e risuscitato, dobbiamo anche credere che Dio condurrà con Gesù quanti muoiono in Lui. Questo infatti vi diciamo per parola del Signore: Noi, vivi, superstiti, non saremo separati dai nostri defunti, alla venuta del Signore (muoveremo incontro al Signore quando Egli verrà, tutti insieme, noi e quelli che oggi piangiamo defunti). Perché il Signore in persona, al comando, al grido di arcangelo, allo squillo di tromba divina, scenderà dal cielo, e i morti nel Cristo (tutti) dapprima risorgeranno; poi noi, vivi superstiti insieme ad essi (i cari defunti che piangiamo), saremo rapiti sulle nubi incontro al Signore in cielo, e così uniti saremo sempre con il Signore. Consolatevi pertanto scambievolmente con tali detti».

Questa traduzione, specialmente per la frase «Noi, vivi superstiti, ci riuniremo ai nostri defunti quando il Signore verrà», che esclude in Paolo come nei suoi fedeli l’errore di ogni fantastica attesa dell’imminente ritorno del Cristo e fine del mondo, e quindi dell’esenzione dalla morte di presunti sopravviventi alla parusia del Signore (in netto contrasto con quanto esplicitamente e ripetutamente insegna s. Paolo sulla universalità della morte e sulla certezza e il desiderio che ha di morire per essere con il Cristo), è stata stabilita su solide basi lessicografiche e sintattiche da A. Romeo [1] e accettata da K. Staab nel suo recente commento [2] come l’unica rispondente al testo, al contesto e a tutto l’insegnamento paolino.

Spiegare, come ancora fanno molti [3], «noi lasciati per la parusia del Signore», e ritenere che «lo scopo principale (di s. Paolo in questa lettera) è manifestamente di correggere l’errore dei neofiti sugli svantaggi dei defunti al momento della parusia» ritenuta imminente e di connettere a questo errore l’ozio di alcuni, è poggiare su una base errata una ricostruzione fantastica. In realtà il verbo perileípomai («essere superstite») non si costruisce mai con eis e l’accusativo; non si riferisce mai al futuro; invece il verbo phthánō (Grimme, Zorell: «nequaquam ante illos aut sine illis ad gloriam perveniemus») negli autori greci più recenti si costruisce sempre con eis e l’accusativo; e questo è l’uso di s. Paolo nelle altre due volte che l’adopera (Rm 9,31; Fil 3,16), sempre ponendo eis e l’accusativo prima del verbo phthánō. I due participi («vivi, superstiti»), con l’articolo, equivalgono a due proposizioni relative; e vanno distaccati dal verbo al futuro, altrimenti si dovrebbe tradurre : «Non saremo i primi a vivere» (cf. Platone, Eutidemo, II, inizio; Curtius, § 391 e), il che sarebbe un nonsenso.

Né si può affermare che 6 versetti (4,13-18), relegati tra le altre raccomandazioni, costituiscano il fine principale dell’epistola, che qui parla di eccessiva manifestazione di lutto; l’Apostolo esplicitamente afferma che scrive ai fedeli «perché non si rattristino come i pagani, privi della consolante speranza cristiana», e per «consolarli» (vv. 13 e 18): è un tema secondario concernente la vita pratica, e non «errore» o dottrina nuova (Vosté, Buzy, Amiot, ecc.). Di pretesi «vantaggi» o «svantaggi» a proposito della venuta finale del Cristo non si ha traccia né in s. Paolo né nel resto del Nuovo Testamento; del supposto «errore» non si riesce a comprendere i motivi e la natura.

È, infine, un arbitrio connettere la naturalissima raccomandazione contro gli oziosi (che ritorna, ad es., in Ef 4,28; 1Tim 5,13, «Ve ne preghiamo, fratelli, riprendete gli oziosi, incoraggiate i pusillanimi ecc.» (1Ts 5,14; cf. 4,11 sg.) alla pretesa aspettazione della fine imminente. S. Paolo la ripeterà con energia in 2Ts 3,6-12: «Se qualcuno rifiuta di lavorare, non mangi». A Tessalonica dovevano abbondare i fannulloni (cf. At 17,5), e alcuni si erano introdotti tra i fedeli, sfruttando magari la generosa carità dei buoni convertiti, lodata da Paolo (2Ts 1,3). Non una sola parola, nelle due lettere, può suscitare il sospetto che qualcuno si astenesse dal lavoro per un errore teorico, e precisamente per l’attesa della parusia.

1.4. La quarta raccomandazione (5,1-11)

Dopo menzionata la Resurrezione finale e la venuta fisica di Gesù giudice, ha inizio un altro tema (perì dé, come 4, 9), riguardante la determinazione dell’epoca del «giorno del Signore». Tutti gli esegeti [4] riconoscono che qui s. Paolo riprende letteralmente (come in 2Ts 2,1) il tema di Gesù (Mt 24; Lc 17,22 – 18,8; 21), con le medesime esortazioni ad essere vigilanti, che la morte può sorprendere ciascuno improvvisamente, specie in occasione di calamità collettive. Gesù parlava direttamente ed unicamente della fine di Gerusalemme, come ormai si riconosce sempre più [5]. «Giorno del Signore », come nei Profeti del Vecchio Testamento, e come in Lc 17,22 sg., è l’intervento del Signore con la sua giustizia a punire i pravi e a proteggere i suoi; manifestazione spettacolare della potenza del Messia, vaticinio di speranza per la Chiesa nascente, perseguitata dalla Sinagoga, è appunto la distruzione di Gerusalemme (Mt. 10,23; 16,27 sg.; 26,69 sg.; e passi paralleli; oltre a Mt 24 e Lc 17).

S. Paolo ripete la esortazione del Redentore. Invece di investigare il tempo e le circostanze (Mt 24, 36.42; At 1,6 sgg.: identici termini), che sono il segreto di Dio, i discepoli curino di essere sempre ben disposti; perché il giudizio di Dio, per ciascuno di essi, può giungere improvvisamente (Mt 24,43; Lc 21,34.36 ecc.). Nel castigo che si abbatterà sul popolo giudaico (come in genere nei flagelli che si abbattono sull’umanità), periranno insieme giusti e peccatori: gli uni per il premio, gli altri per il castigo eterno. Tra gli stessi discepoli, quanti si lasceranno sorprendere in peccato periranno per sempre. Su tale ammonimento si ferma Gesù in Lc 17,26-30.33 sgg. (cf. Mt 24,36-44); s. Paolo lo ripete, e conclude: «perciò consolatevi a vicenda ed edificatevi l’un l’altro, come già fate» (5,11); si tratta pertanto della stessa profezia di Gesù sulla fine della sinagoga persecutrice (Lc 17,20 – 18,8; Mt 24; Lc 21; Mc 13), di conforto per la Chiesa nascente.

A Tessalonica, si era verificata la stessa situazione che in Palestina (lo dice espressamente s. Paolo in 1Ts 2,14 sgg., con un parallelismo perfetto). L’Apostolo quindi fortifica i neofiti perseguitati dai giudei, esponendo loro la celebre profezia di Gesù; accennata d’altronde in 2,15 sgg.: «I giudei, perseguitando la Chiesa, colmano sempre più la misura dei loro peccati; già l’ira di Dio piomba su di essi, in tutta la sua forza»; anche qui l’avvicinamento con Mt 23,32.34.38; 24,2 non lascia dubbi: «l’ira minacciata da Paolo ai giudei come prossima e definitiva o completa è la prossima totale distruzione di Gerusalemme predetta da Gesù» [6].

2. SECONDA EPISTOLA AI TESSALONICESI

Prolungamento e integrazione della prima epistola, fu scritta alcuni mesi dopo.

2.1. Contenuto

Dopo il saluto iniziale (1,1 sgg.) e il più vivo ringraziamento a Dio per la perseveranza dei Tessalonicesi nella fede e nella pratica della carità, pur tra le vessazioni dei giudei, s. Paolo anima i fedeli con la promessa del trionfo del Regno di Dio e della loro liberazione dalla odiosa persecuzione (eventi ai quali devono degnamente prepararsi), e con la minaccia per i giudei del meritato castigo(1,3-10).

È il tema trattato in 1Ts 5,1-11, ora riesaminato: basti avvicinare 2Ts 1,7.10; Mt 24,30 sg.; Lc 22,28.31 [7]. Segue quindi la rettifica che riguarda un particolare del tema suddetto: si continui a notare il parallelismo letterale tra 2Ts 2,1 sgg. e Mt 24: «Vi preghiamo, fratelli, circa la venuta del nostro Signore Gesù Cristo (= Mt 24,3; Mc 13,4; Lc 21,7; il «giorno del Signore» della 1Ts 5,1-11 = la distruzione di Gerusalemme) e del nostro adunarci con Lui (= Mt 24,31; cf. Lc 21,28.31; e la «trionfale espansione del Vangelo, del regno messianico a partire dalla rovina di Gerusalemme») [8], di non lasciarvi perturbare (= Mt 24,6), come fosse imminente il giorno lei Signore»; «che nessuno vi confonda » (= Mt 24,4 sgg.: non si lascino ingannare; l’Apostolo ha dato loro segni inconfondibili che lo manifesteranno vicino: li richiamino alla memoria). Seguono quindi un ammonimento generico, che è anche un voto di Paolo (3,1-5); una energica riprensione per quei fedeli che continuano a vivere alle spalle degli altri (3,6-15) e l’augurio e il saluto finale (3,16-19).

2.2. I «segni» della parusia

«Quel giorno non verrà prima che sia avvenuta l’apostasia (Mt 24,6-13; cf. 23,16.19; Mc 13,11; e specialmente Lc 18,8: si tratta delle defezioni avvenute nella Chiesa di Palestina: Eb 6,4 sgg.; 10,21-35: cf. Mt 24,13; Lc 21,19; Eb 10,36) e si sia manifestato l’iniquo, il dannato, l’avversario (o «l’anticristo»: cf. 1Gv 2,18-22: è la sinagoga in senso collettivo: gli zeloti, i loro capi, o in particolare qualcuno di questi), «colui che s’oppone a Dio e si esalta (frasi tolte da Dan 11,36, dette del persecutore Antioco IV Epifane, profanatore del Tempio «che s’innalzerà e si magnificherà sopra ogni dio…»), «fino a insediarsi ne Tempio di Dio e a proclamarsi Dio». In realtà, gli zeloti e i loro capi si insediarono nel Tempio che profaneranno (Flavio Giuseppe, Bell. Iud., V, 1, 3.13).

È il segno per eccellenza, ultimo, dato da Gesù per l’«inizio della tribolazione» (l’assedio) e la distruzione di Gerusalemme (Mt 24,15; Mc 13,14: «quando vedrete l’orrenda abominazione [Dn 9,17; 12,11] stare nel luogo santo»). L’abominazione della desolazione sarà là dove non dovrebbe (Mc); più precisamente nel luogo santo (Mt), cioè nel Tempio (Dn). Sarà la profanazione del Tempio, che avvenne nel 68 d. C, due anni prima della rovina di Gerusalemme (Flavio Giuseppe, Bell. Iud., IV, 5, 1; 5, 3); la profanazione del Tempio operata da Antioco Epifane e che deve riprodursi alla vigilia della desolazione predetta da Daniele.

Nel 68, quando Giovanni di Giscala s’impadronì del santuario per farne la sua fortezza, il sangue umano corse a rivi nel luogo santo: due sommi sacerdoti e una folla di nobili vittime caddero sotto il pugnale degli zeloti. Questa profanazione era il presagio dell’imminente rovina. S. Luca pose al posto di questo segno uno equivalente più intellegibile per i suoi lettori: «Quando vedrete Gerusalemme cinta di armate». Nel 69 d.C. le legioni romane occupavano Hebron, Emrnaus, Bethel e Gerico; il cerchio di ferro si chiudeva intorno alla capitale.

«Non vi ricordate come, quand’ero tra voi, vi dicevo queste cose? E voi ben sapete l’impedimento (to katéchōn, “ciò che trattiene”) in modo che egli (l’avversario) si manifesti soltanto nel momento assegnatogli (nel tempo suo); questo mistero d’iniquità infatti già esercita la sua azione, solo che c’è chi attualmente lo trattiene (ho katéchōn) fino a che non verrà tolto di mezzo. Allora l’iniquo si manifesterà; ma Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con il fulgore della sua venuta (parusia); e la parusia dell’empio, per l’azione di Satana, si effettuerà con ogni specie di seduzione di cui l’iniquità è capace, a rovina di quelli che si perdono perché non hanno accettato e amato la verità che li avrebbe salvati».

«Bisogna ammettere con certezza che Gesù (Mt 24; Mc 13,22) e Paolo (2Ts 2,1-12) parlano dello stesso evento, e vedere nella profezia di Gesù la fonte della dottrina di Paolo» (K. Staab). Il «mistero d’iniquità», già in azione, è la violenta persecuzione dei giudei, di cui parla l’Apostolo in tutte e due le lettere. Chiave di vòlta, per l’esegesi della pericope e del tema trattato, è l’identificazione della potenza (to katéchōn al neutro) e della persona (ho katéchōn, participio maschile) che impedisce la manifestazione piena di questo iniquo furore. «Il neutro del v. 6 esprime una funzione impersonale dell’ostacolo, il maschile del v. 7 l’agente personale di questa medesima funzione… Bisogna riconoscere che l’unica spiegazione che tiene conto del passaggio dal neutro al maschile è la più antica, e la più comune, dai Padri della Chiesa ai moderni, pur nei diversi modi in cui è intesa: il neutro indica l’Impero di Roma, l’autorità romana; il maschile il rappresentante di questa autorità in Palestina (altri, l’imperatore, con divergenza nell’indicazione). Hugo Grotius proponeva, con probabilità, il nome del governatore, Vitellio» (O. Cullmann). Il p. Vosté definiva «tradizionale» e quasi «apostolica», questa spiegazione.

2.3. Difficoltà e obbiezioni

L’obbiezione, ripetutamente formulata (O. Cullmann, D. Buzy, ecc.) contro di essa, che l’Impero romano è caduto e l’anticristo con la fine del mondo non è venuto, svanisce quando, invece di proiettare indebitamente questa pericope alla fine del mondo, si spiegano i termini nel loro vero significato e alla luce di Mt 24 e Lc 21 da cui sono presi; e quando si guardi realisticamente al compimento di questa profezia. I giudei sono trattenuti nel loro odio contro la Chiesa nascente dall’autorità di Roma. Simulano una sommossa popolare per uccidere, senza autorizzazione, s. Stefano (At 7,57-60); solo l’intervento provvidenziale di un tribuno toglie loro di mano Paolo, mentre lo tiran fuori dal luogo sacro per ucciderlo (ibid. 21,27-34); e il tribuno deve mandarlo sotto scorta a Cesarea, per sventare la congiura fatta per sopprimerlo (ibid. 23,12-35). Sotto Erode Agrippa (ibid. 12) viene ucciso Giacomo, e Pietro avrebbe dovuto subire la stessa sorte. Invece, ritornata la Giudea sotto i procuratori romani (42-62: dalla persecuzione di Agrippa fino alla morte di Giacomo «fratello del Signore»), la Chiesa vive in pace.

«Questa tregua di venti anni è senza dubbio procurata dalla amministrazione romana che ha ripreso il governo della Giudea…» [9]. «Nel 61 e nel 62 il sommo sacerdote Anna (Hanan) il giovane, approfittando dell’occasione che Festo era morto e che Albino, suo successore, non era ancora arrivato, radunò il Sinedrio e vi fece comparire il fratello di Gesù, chiamato Giacomo, e alcuni altri, come colpevoli di aver violato la legge, e li fece lapidare» (Flavio Giuseppe, Ant. Iud., XX, 9, 1). L’odio esploderà violento, quando questa autorità, nel suo rappresentante, sarà messa da parte con la ribellione degli zeloti, insorti contro i Romani; essi scacciarono Gessio Floro (a metà del 66 d.C.) e sconfissero il legato di Siria Cestio Gallo (ai primi del novembre 66), intervenuto con un esercito.

Per i prodigi, segni ecc., da parte dell’empio, cf. Mt 24,23 sgg.; Mc 13,21 sg. (Flavio Giuseppe, Bell. Iud., VI, 5). Gesù aveva detto ai giudei che essi, rifiutando la sua parola, avrebbero accolto qualunque altro pseudomessia (Gv 5,43); ciò si andava realizzando, e i giudei (2Ts 2,12), «che non conoscono Dio, che non obbediscono al vangelo di nostro Signore» subiranno il tremendo castigo (ibid. 1,7-9). Ai cristiani invece è predetta l’espansione mirabile della Chiesa in connessione con la distruzione di Gerusalemme (Lc 21,28-31; 2Ts 2,17) [10].

S. Paolo a Tessalonica, dinanzi alla violenta persecuzione giudaica, aveva comunicato tale profezia, imitando l’esempio di Gesù, che dopo aver predetto ai suoi seguaci sofferenze e persecuzioni aveva aggiunto la promessa del trionfo della Chiesa. S. Paolo sapeva dalla catechesi apostolica che la distruzione di Gerusalemme sarebbe avvenuta prima che perisse la generazione contemporanea del Redentore (Mt 24,34 e paralleli), ma ne ignorava la data precisa taciuta dal Signore (Mt 24,36; Mc 13,32). Eran passati circa 20 anni (dal 30 d.C. al 51 circa) e Paolo la riteneva già prossima (1Ts 1,10; 2,16; cf. 5,1-11).

Nessuna meraviglia e nessun errore (nessuna dottrina nuova), se ancor più i fedeli, sotto la sferza delle persecuzioni, l’avessero creduta imminente. Ma s. Paolo aveva anche comunicato loro i segni premonitori, e, tra questi, il segno immediato e inconfondibile, della ribellione a Roma e della profanazione del Tempio. Non dovevano, non potevano pertanto lasciarsi andare ad attese inutili o crearsi illusioni che potevano essere pericolose. In tal modo, si spiega perché s. Paolo non ritorni più, nelle altre sue lettere, su questo argomento; è questione di circostanza ambientale. Vi ritornerà invece, con accenni abbastanza chiari, la lettera agli Ebrei. L’esegesi letterale-storica, che esclude ogni riferimento alla fine del mondo, è la sola plausibile, e rende ragione del testo e del contesto [11]. Basti considerare l’inutilità dei tentativi fatti per spiegare 2Ts 2 nella prospettiva della fine del mondo, sicché molti moderni (B. Rigaux, G. Ricciotti, ecc.), eco di s. Agostino (De Civ. Dei, XX, 19), affermano che è impossibile determinare la natura dell’ostacolo e pertanto il senso preciso della pericope.

Tra gli ultimi tentativi esegetici, gode attualmente favore tra i cattolici (Allo, Buzy, Amiot) quello che, avvicinando 2Ts 2,1-11 ad Ap 11, vede nella lotta della bestia contro i due testimoni l’analogia chiarificatrice per la nostra pericope: i testimoni (che combattono le forze del male e vengono uccisi dalla bestia) corrisponderebbero esattamente all’ostacolo che impedisce la manifestazione dell’«avversario», il quale avrà campo libero solo quando l’ostacolo sarà messo da parte; ma lo stesso Amiot deve riconoscere che «la scomparsa momentanea dei predicatori del vangelo rimane un mistero», che Gesù ha assicurato la sua protezione fino alla fine della fase terrestre del Regno di Dio (Mt 28,20). Ma, quel che più conta, è erroneo addurre qui l’Apocalisse, scritto posteriore e di un genere letterario ben differente; il veggente di Patmos adombra la lotta continua di Satana contro il Regno di Dio in tutto il corso del suo sviluppo, dalla incarnazione del Verbo fino a che la fase terrestre del Regno di Dio non sia finita; e la pericope dei due testimoni è attualmente intesa, ben a ragione, del martirio di s. Pietro e di s. Paolo a Roma sotto Nerone. Satana trionfa, nei suoi satelliti; ma i veri trionfatori sono i martiri; la persecuzione è passata, Nerone è stato ucciso, ma la Chiesa permane, si sviluppa purificandosi, trionfa (Ap 11,3-13) [12].

Né c’è bisogno di sottolineare come i segni offerti da s. Paolo dovevano essere cose chiare, inconfondibili, che si sarebbero realizzate allora. Nelle altre spiegazioni, invece, si rimane nella più grande indeterminatezza: i segni sarebbero generici e perciò inutili. L’ammettere, poi, in Paolo una opinione errata circa la prossimità della fine, contraddice alle circostanze ambientali-storiche ed a tutto il contesto delle due epistole ai Tessalonicesi. Con la spiegazione del discorso di Gesù sulla fine di Gerusalemme (Lc 17,20 – 18,8; Mt 24; Mc 13; Lc 21), che esclude ogni accenno sulla fine del mondo, si è finalmente aperta la strada alla retta comprensione della seconda epistola, in stretta connessione con la prima (specie con 1Ts 5,1-11); epistole ai Tessalonicesi echeggia la solenne profezia di Gesù.

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Note

[1] A. Romeo, Nos qui vivimus, qui residui sumus, in “Verbum Domini”, 9 (1929), pp. 307-312; 339-347; 360-364.

[2] K. Staab, Regensburger Bibel, Ratisbona 1950, pp. 9-49.

[3] D. Buzy, La S.te Bible, ed. L. Pirot 12, Parigi 1938, pp. 126-190; e comunemente.

[4] F. Amiot, D. Buzy, A. Plummer, J.N. Orchard (Thessalonians and the Synoptic Gospels, in “Biblica”, 19 [1938], pp. 24-31), G. Rinaldi, ecc.

[5] A. Feuillet, F. Spadafora, A. Romeo, P. Benoit (in “Revue biblique”, 59 [1952], p. 119 sg.) P. Benoit (Comm. a Mt. [La Bible de Jérusalem], Parigi 1950, pp. 135 sgg.), C. Spicq (in “Rev. des sciences philos. et théol.”, 36 [1952], p. 166, n. 53).

[6] G. Rinaldi, nel suo commento a 1Ts (Milano 1950, p. 56).

[7] F. Spadafora, La fine di Gerusalemme, Rovigo 1951, pp. 93-108.

[8] Così M.-J. Lagrange. Cf. F. Spadafora, op. cit., pp. 97 sgg.

[9] G. Lebreton, in A. Fliche – V. Martin, Storia della Chiesa, vol. I, Torino 1937, p. 209.

[10] Cf. A. Harnack, Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, trad. it. Torino 1906, pp. 41 sgg.

[11] Cf. L. Tondelli, Gesù Cristo, Torino 1936, pp. 388-399.

[12] Cf. J. Munck, Petrus und Paulus in der Offenbarung Johannis, Copenhagen 1950; P. Boismard, L’«apocalypse» ou les apocalypses de st. Jean, “Revue biblique”, 56 [1949], pp. 533 sgg.; ma già J. Mariana, nel 1619.

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