La datazione dei vangeli canonici

di Philippe Rolland

La versione originale di questo articolo si può leggere nel sito “Un poisson dans le net”. Traduzione a cura di Luigi Walt.

Secondo l’opinione più diffusa, una prima messa per iscritto di parole di Gesù avrebbe avuto luogo intorno agli anni 50 del I secolo, in una raccolta che gli studiosi hanno chiamato Q, dal tedesco Quelle (“fonte”). L’immagine di Gesù che emerge da questa raccolta di detti è sostanzialmente quella di un sapiente, al quale viene attribuito un solo gesto taumaturgico, ossia la guarigione a distanza del servo di un centurione (Mt 8,5-13 // Lc 7,1-10).

Una seconda tappa nella redazione dei vangeli si sarebbe avuta col vangelo di Marco, comunemente datato attorno al 70. Stando a R. Bultmann, la grande novità di questo testo consisterebbe nella sua rappresentazione di Gesù come “uomo divino” (theios aner), a immagine degli eroi della mitologia greca. È in questa tappa che si sarebbero sviluppate le prime narrazioni di miracoli.

La terza tappa coinciderebbe con la composizione dei vangeli di Matteo e di Luca, verso gli anni 80-90. Questi vangeli avrebbero parafrasato Marco (triplice tradizione), e inserito nel suo schema narrativo alcune parabole, assieme al materiale contenuto in Q (duplice tradizione). Redatti chiaramente nello stesso torno di tempo, anche se in luoghi diversi, Matteo e Luca avrebbero ignorato l’uno l’esistenza dell’altro, e risulterebbero in tal modo indipendenti fra di loro. Essendosi formata nel frattempo la fede nella piena divinità di Gesù, si spiegherebbe così il fatto che entrambi collochino la storia della sua predicazione in mezzo a due blocchi distinti di materiale narrativo: da una parte, una serie di racconti leggendari, che riferiscono della sua infanzia meravigliosa; dall’altra, una serie di racconti di apparizione del Risorto, tutti situati in Galilea, secondo Matteo, o a Gerusalemme, secondo Luca.

Una quarta ed ultima tappa si sarebbe raggiunta con la redazione del quarto vangelo, databile alla fine del I secolo. Questa testo si sarebbe avvalso di una tradizione originale, diversa da quella dei sinottici. La prima forma di tale tradizione sarebbe stata una raccolta di “segni” (Semeiaquelle), arricchita in seguito da una raccolta di “rivelazioni” (Offenbarungsquelle), ove Gesù compare come un essere celeste, venuto dall’alto, e colà ritornato dopo la morte (la sua sarebbe una cristologia “alta”, in contrasto con la cristologia “bassa” dei sinottici).

Da molto tempo, tuttavia, mi sono convinto dell’insostenibilità di una dipendenza di Matteo e di Luca da Marco, e ritengo che lo stesso schema genealogico della composizione dei sinottici andrebbe completamente rivisto, in ragione della sua complessità. Mi trovo in una posizione mediana rispetto al semplicismo della teoria delle “due fonti” (Mc + Q all’origine di Mt e Lc) e all’estrema complicatezza del sistema elaborato da M.E. Boismard (7 documenti scritti anteriori ai nostri vangeli attuali). Le tre posizioni possono essere rappresentate come segue:

Per quanto riguarda la datazione dei vangeli sinottici, lo schema genealogico che propongo (come quello di Boismard, del resto) permette di lasciare aperte alcune questioni cronologiche: Matteo e Luca, ad esempio, potrebbero essere sia precedenti che posteriori a Marco. Per quanto riguarda invece la datazione del quarto vangelo, non dubito affatto della sua composizione tarda (alla fine del I secolo), ma ritengo artificiosa la distinzione tra una “raccolta di segni” e una “raccolta di rivelazioni”. Resto inoltre persuaso, con la tradizione patristica, che l’opera nel suo stato attuale provenga da un testimone oculare, identificabile con l’apostolo Giovanni.

Dividerò la mia trattazione in due parti. Nella prima parte, cercherò di dimostrare la debolezza intrinseca allo schema offerto dalla teoria delle due fonti, che andrebbe sottoposto a una serie di modifiche (spiegherò anche per quali motivi sarebbe meglio considerare la redazione di Matteo e di Luca come anteriore a quella di Marco). Nella seconda parte, invece, esporrò alcune ipotesi analitiche sull’origine del quarto vangelo.

1. STORIA DELLA TRADIZIONE SINOTTICA

1.1. Analisi di un caso tipico:
l’introduzione all’episodio
della prima moltiplicazione dei pani

Cominciamo con una lettura sinottica di Mt 14,13a, Mc 6,31-32 e Lc 9,10b:

Mt: Quando Gesù venne a saperlo, partì di là in barca verso un luogo deserto, in disparte.

Mc: Egli disse loro: «Venite in disparte, verso un luogo deserto, e riposatevi un poco». Infatti quelli che venivano e andavano erano così numerosi che non avevano neppure il tempo di mangiare. Perciò se ne andarono in barca verso un luogo deserto, in disparte.

Lc: Allora egli li prese con sé e si ritirò in disparte, verso una località chiamata Betsàida.

Se è vero, come tutti pensano, che Matteo e Luca non si conoscono, è ben strano che condividano due caratteristiche assenti in Marco: per entrambi, innanzitutto, il soggetto della frase è Gesù, mentre per Marco sono i discepoli a mettersi in cammino; il verbo impiegato, poi, è pressoché identico (anechôrésen e hypechôrésen), laddove Marco utilizza “venite” (deute) e “se ne andarono” (apélthon).

Nella frase iniziale, Marco è molto simile a Luca (“in disparte, verso…”), mentre nella frase finale può essere accostato a Matteo (“in barca, verso un luogo deserto”). Nella frase centrale, invece, Marco riproduce un motivo (“non avevano neppure il tempo di mangiare”) che abbiamo già trovato altrove nel suo vangelo (3,20), ma che Matteo e Luca ignorano in questo contesto.

Continuiamo la nostra lettura sinottica, con Mt 14,13b, Mc 6,33 e Lc 9,11a:

Mt: Avendolo saputo, le folle dalle città lo seguirono a piedi.

Mc: Ma molti, avendoli visti partire, compresero, e accorsero a piedi da tutte le città in quel luogo, e giunsero prima di essi.

Lc: Ma le folle compresero, e lo seguirono.

Ancora una volta, per quanto indipendenti l’uno dall’altro, Matteo e Luca concordano fra loro contro Marco, per vari dettagli: a) stesso soggetto (“le folle”), assente in Marco, e b) stesso verbo (“lo seguirono”), assente in Marco.

Come nel caso precedente, Marco presenta un fenomeno duplice: da una parte, le folle vedono e comprendono (stesso verbo di Luca); dall’altra, accorrono a piedi dalle città (come in Matteo) e precedono il gruppo degli apostoli.

Se ignorassimo l’esistenza di Marco, non potremmo in alcun modo dubitare della dipendenza di Matteo e Luca da una stessa fonte. Sarebbe un testo che potremmo ricostruire così: «Prendendoli con sé, si ritirò in disparte, verso un luogo deserto. E le folle, avendolo saputo, lo seguirono».

La versione di Luca (al di là della menzione di Betsaida) è quasi identica a quella di Matteo, ma contiene alcuni dettagli in più riguardo al mezzo di spostamento utilizzato da Gesù e dai discepoli: questi, infatti, si muovono tutti su una barca, mentre le folle li seguono a piedi. La versione di Marco è più ricca di particolari pittoreschi, e non si capisce perché Matteo e Luca, indipendentemente l’uno dall’altro, avrebbero dovuto impoverirla in questo modo. Quanto al testo di Marco, lo si può considerare come il risultato di una felice armonizzazione fra una tradizione pre-matteana e una tradizione pre-lucana: per cui i “molti” non si accontentano di “seguire” Gesù, ma si precipitano nella sua stessa direzione, in modo tale da riguadagnarlo non appena scenderà dalla barca.

Esaminiamo allora un altro brano in sinossi, sempre dallo stesso contesto: Mt 14,14b, Mc 6,5b e 13b, e Lc 9,11b.

Mt: …e guarì i loro infermi

Mc I: …ma soltanto guarì pochi infermi, imponendo loro le mani

Mc II: …ungevano con olio molti malati e li guarivano

Lc: e si mise a sanare quelli che avevano bisogno di cure

Nel contesto della moltiplicazione dei pani, in Matteo e in Luca (come d’altronde in Gv 6,2), Gesù guarisce alcuni infermi. Nello stesso contesto, Marco si limita a menzionare l’insegnamento di Gesù. Ma il tema delle guarigioni si ritrova in due episodi vicini: la visita di Gesù a Nazareth (laddove Mt 13,58 e Lc 4,23 insistono sull’assenza di guarigioni operate da Gesù), e l’incarico missionario conferito agli apostoli (laddove Matteo e Luca non menzionano affatto le guarigioni che avrebbero potuto realizzare).

Se prendiamo sul serio l’ipotesi dell’indipendenza tra Matteo e Luca, siamo costretti ad ammettere che la tradizione primitiva collocò queste guarigioni nel contesto della moltiplicazione dei pani, e che Marco le spostò redazionalmente in due contesti che gli sembravano più adatti: in Mc 6,5b e in Mc 6,13b.

Osservazioni simili si possono fare per tutti gli episodi comuni ai tre vangeli: pressoché ad ogni pagina si trovano “accordi minori” fra Matteo e Luca, contro Marco. Un esempio classico è quello di Mt 9,17, Mc 2,22 e Lc 5,37:

Mt: e il vino si spande, e gli otri sono persi.

Mc: e il vino è perso, così come gli otri.

Lc: e il vino si spanderà, e gli otri andranno persi.

la differenza tra Matteo e Luca, in questo caso, si spiegherebbe senza troppe difficoltà seguendo l’ipotesi di un vangelo primitivo in lingua semitica, che starebbe alla base della tradizione sinottica. Le lingue semitiche, infatti, conoscono soltanto due forme verbali: il perfetto e l’imperfetto (o incompiuto). In greco, l’imperfetto può essere reso sia col presente, sia col futuro. Il fatto che Matteo utilizzi il presente e Luca il futuro, pertanto, potrebbe essere agevolmente spiegato con l’ipotesi di una fonte comune in lingua semitica, che avrebbe dato luogo a un proto-Matteo e a un proto-Luca.

Ma continuiamo a leggere i testi in sinossi, soffermandoci sulla particolare posizione di Marco. Un esempio celebre è offerto dal confronto tra Mt 8,16, Mc 1,32 et Lc 4,40:

Mt: Venuta la sera…

Mc: Venuta la sera, al tramonto del sole…

Lc: Al tramonto del sole…

Notiamo innanzitutto il sapore semitico dell’espressione di Luca, che si perde completamente in Matteo. Il sopraggiungere della sera, nella Bibbia ebraica, è sempre reso con l’espressione che ritroviamo in Luca. Quanto al termine “sera”, che ricorre in Matteo e in Marco, esso indica di fatto l’“ora tarda” (in greco, opsia), un concetto praticamente ignoto all’Antico Testamento. Lo stesso termine opsia, utilizzato in questo senso, non si trova neppure nel testo dei LXX, eccezion fatta per quei passi la cui redazionale originale avvenne in greco. La versione di Luca, in definitiva, risulta più “semitizzante” di quella di Matteo. Questo insieme di elementi non fa che confermare quella che all’inizio era una semplice ipotesi di lavoro, e cioè che Matteo e Luca non dipenderebbero affatto da Marco, ma da due fonti che quest’ultimo avrebbe armonizzato: un proto-Matteo e un proto-Luca.

1.2. Verosimiglianza di questo schema genealogico

L’esistenza di un vangelo in lingua semitica, al tempo delle origini, è attestata da una serie di testimonianze offerte dalla letteratura patristica. Lo storico non può non tenerne conto.

È naturale collocare la redazione di questo vangelo in lingua semitica a Gerusalemme. Non appena il movimento dei seguaci di Gesù si diffuse fuori dai confini d’Israele (notoriamente a causa di una prima persecuzione subita dai discepoli: At 8,1 e 11,19), divenne sempre più urgente la necessità di adattare i contenuti di questo vangelo a un uditorio diverso, di lingua greca.

Una prima traduzione fu realizzata, verosimilmente, ad Antiochia. Diverse osservazioni lessicali spingono a ipotizzare che Pietro stesso abbia presieduto a questa prima operazione di adattamento, durante il suo soggiorno in questa città (Gal 2,11). Anche Paolo, nel corso dei suoi viaggi missionari, si serviva senza dubbio di tradizioni provenienti da Gerusalemme (cf. 1Cor 11,23): del resto, non era egli stesso «Ebreo, figlio di Ebrei» (Fil 3,5)? Ma non appena si spostava da una regione evangelizzata a un’altra (cf. Rm 15,23), è ovvio supporre che lasciasse traccia della propria predicazione, e che facesse in lingua greca (anche se è più tardi, forse durante il suo terzo viaggio missionario, che potrebbe essere stato approntato un ulteriore adattamento del vangelo di Gerusalemme).

Per quanto riguarda la redazione della fonte Q, la cui esistenza mi pare indubitabile, essa potrebbe essere collocata a Cesarea. Si trattava probabilmente di una sorta di catechesi complementare, ad uso dei convertiti di origine gentile. Di fatto, Dio non vi appare mai come il Dio del Patto con Israele, ma come il Creatore, la cui provvidenza si estende a tutti gli uomini e a tutte le creature (è lui che nutre gli uccelli del cielo, ed è lui che veste di splendore i fiori nei campi). Le sentenze raccolte in Q, peraltro, dimostrano una spiccata simpatia per le città di Tiro e Sidone, provano indulgenza nei confronti di Sodoma e Gomorra, non sdegnano di proporre come esempi positivi gli abitanti di Ninive e la regina di Saba. Figure come Abele, Noè e Lot sono oggetto di ammirazione e di lode. Vi si predica un amore che abbatte ogni confine, cosicché la principale guarigione riguarda il servo di un centurione. Una tensione “universalista” così forte, lo si capisce bene, non può essere frutto del caso: l’intera raccolta, probabilmente, era destinata a un pubblico di Gentili, come il Cornelio di cui parlano gli Atti.

Lo schema genealogico esposto finora può essere corroborato dalle seguenti indicazioni di Ireneo di Lione:

«Matteo, infatti, pubblicò presso gli Ebrei, nella loro lingua, una versione scritta del suo vangelo, mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e vi fondavano la chiesa. Dopo la loro dipartita, Marco, discepolo e interprete di Pietro, ci trasmise anche lui, per iscritto, ciò che Pietro predicava. Luca invece, essendo collaboratore di Paolo, trasmise in un libro il vangelo che quest’ultimo predicava. In seguito anche Giovanni, il discepolo del Signore, colui che aveva appoggiato il capo sul suo petto, pubblicò il suo vangelo, e questo avvenne mentre si trovava ad Efeso, in Asia» (Adv. Haer., III, 1, 1).

Stando ad Ireneo, il Matteo greco che oggi leggiamo deriverebbe da un Matteo ebraico, di cui ci parlano anche altre fonti antiche. Luca avrebbe trasmesso, da parte sua, la predicazione di Paolo, mentre Marco sarebbe stato composto a Roma, dopo l’arrivo e la “dipartita” (forse la morte) di Pietro e di Paolo, e quindi dopo gli avvenimenti che vengono narrati in At 28,30-31.

Considerando questo schema, possiamo immaginare che Pietro avesse condotto con sé, a Roma, il proto-Matteo, mente Paolo vi sarebbe giunto col proto-Luca. Le comunità romane, in seguito, avrebbero sentito la necessità di armonizzare questi due diversi adattamenti del vangelo primitivo, eredità di Pietro e di Paolo, e avrebbero affidato l’incarico di questa armonizzazione a Marco.

La catechesi contenuta nella fonte Q, certamente nota alla chiesa di Roma, non poteva essere integrata in questo vangelo, date le sue finalità liturgiche: si trattava semplicemente di unificare due documenti paralleli. Matteo e Luca, invece, ebbero un’altra intenzione, quella di raccogliere in un singolo testo tutti gli elementi essenziali della vita e del messaggio di Gesù: per questo utilizzarono tutte le fonti a loro disposizione.

Lo schema genealogico dei vangeli si può dunque ricostruire in questo modo:

1.3. La datazione dei vangeli sinottici

Le indicazioni di Ireneo su Marco, come abbiamo visto, sono abbastanza precise, e non vi sono ragioni di critica interna che spingano a porre in dubbio la loro attendibilità. Il secondo vangelo sarebbe stato redatto, si dice, dopo l’exodos di Pietro e di Paolo. Se la parola exodos indicasse la semplice partenza dei due apostoli da Roma, questa non avrebbe potuto aver luogo che due anni dopo l’arrivo di Paolo (At 28,30-31). Marco, se così fosse, non sarebbe stato redatto prima del 63. Tuttavia, se teniamo conto del linguaggio di Sap 3,2, di Lc 9,31 e soprattutto di 2Pt 1,15, exodos potrebbe indicare la morte degli apostoli (databile al 65, piuttosto che al 67). Saremmo proiettati, in questo modo, agli inizi della guerra giudaica, e Marco sottolinerebbe, in questo contesto, la speciale natura messianica di Gesù: egli è da sempre il Crocifisso (Mc 16,6). La data più probabile per Marco, allora, potrebbe essere quella indicata dalla maggior parte delle ricostruzioni cronologiche, e cioè il 66 o il 67.

Dato che il vangelo di Luca fa parte di un dittico, che comprende anche gli Atti degli apostoli, l’intervallo fra la redazione dei due libri non può essere considerata come troppo ampia. Per gli Atti, il terminus post quem è sicuramente rappresentato dalla fine della prigionia di Paolo, di cui si parla in At 28,30-31, e dunque dall’anno 63. Ma la composizione del testo non può essere spostata troppo avanti.

In effetti, dopo la persecuzione dei cristiani di Roma che venne ingaggiata da Nerone, Luca non avrebbe mai potuto avere il coraggio di parlare dei numerosi contatti di Paolo con le autorità romane (Sergio Paulo, Gallione, Festo, il centurione Giulio, ma anche lo stesso governatore Felice, nei confronti del quale Luca non pare nutrire alcuna stima) come se fossero stati urbanissimi faccia a faccia. Nulla, nel suo testo, lascia presagire la futura azione criminale di Nerone. Anche il totale silenzio sul martirio di Paolo, segno eloquente della sua fede in Cristo, risulta incomprensibile da parte di un ammiratore così indefesso dell’apostolo.

Pertanto, l’anno 64 può essere indicato come il termine ultimo per la redazione del suo testo, pur considerando che il vangelo non poteva essere stato redatto prima del 62-63. Gli annunci di Gesù sulla rovina imminente di Gerusalemme, del resto, non possono essere attribuiti a Luca, magari alla luce degli avvenimenti del 70. A questo proposito, non possiamo che rimandare alle eccellenti note che la Bibbia di Gerusalemme ha approntato per Lc 19,41-44 e 21,20.

Per quanto riguarda il Matteo greco, poi, si può argomentare in questo modo: se è vero che Luca è stato redatto nel 63, è difficile pensare a un Matteo composto dopo il 70. Gli scritti protocristiani, di fatto, circolavano molto rapidamente. L’autore del Matteo greco non avrebbe mai potuto comporre una narrazione inconciliabile con quella del suo predecessore, ad esempio nel suo vangelo dell’infanzia o nella sezione conclusiva riguardante le apparizioni di Gesù risorto (per Luca, come si è detto, tutte le apparizioni sono ambientate a Gerusalemme, per Matteo in Galilea). Bisogna dunque riconoscere che Matteo e Luca sono stati composti in aree geografiche differenti, anche se più o meno nello stesso periodo.

Come argomentato a suo tempo da J.A.T. Robinson, non è possibile dedurre da Mt 22,7 che il redattore del Matteo greco fosse a conoscenza dell’incendio di Gerusalemme provocato da Tito, nel 70. In tutta la letteratura antica, e in particolare nell’Antico Testamento, si parla sistematicamente della messa a ferro e fuoco delle città conquistate. Pertanto, quello di Mt 22,7 va visto come un cliché letterario, più che come una predizione ex eventu.

Un altro elemento da tenere in considerazione, ravvisabile in Mt 21,43 e 28,15, è la separazione tra le comunità ebraiche e le comunità protocristiane. Molti esegeti ritengono che questa separazione non poté divenire effettiva che dopo la distruzione di Gerusalemme e la nascita del giudaismo rabbinico, sotto l’autorità di Jochanan ben Zakkaj. Ma alcuni casi di espulsione di cristiani da comunità ebraiche, sanciti dalle autorità locali, sono documentabili anche per un periodo precedente. Nel 62, ad esempio, Giacomo venne lapidato su disposizione del sommo sacerdote Anano. Nel 64, invece, Nerone considerava il cristianesimo come religio illicita, e la sua professione punibile con la condanna a morte: ciò significa che i seguaci di Gesù non erano più protetti dalla rete di privilegi di cui godevano le comunità ebraiche. La rottura si era già consumata. Nulla impedisce, pertanto, di situare la composizione di questo primo vangelo a partire dall’anno 62.

Eusebio di Cesarea ha le sue buone ragioni, quando riferisce questa opinione di Clemente Alessandrino:

«Clemente… riguardo all’ordine dei vangeli, riporta un’antica tradizione dei padri, secondo la quale – come dice egli stesso – furono composti prima quei vangeli che espongono le genealogie…» (Hist. Eccl., 6, 14).

Questa tradizione implica la priorità di Matteo, seguito da Luca e da Marco. Si può restare dubbiosi di fronte ad essa. Ma è comunque ragionevole collocare la redazione dei tre vangeli sinottici in un arco temporale che va dal 62 al 67. Ne consegue l’infondatezza delle ricostruzioni di R. Bultmann: la presentazione di Gesù come taumaturgo non deriva da un ambiente greco, né può essere datata tra il 50 e il 70, perché risulta già attestata a Gerusalemme, nel Matteo ebraico. I vangeli dell’infanzia, di conseguenza, non sono affatto leggende fabbricate a bella posta verso l’anno 80: fanno già parte dei racconti evangelici di Matteo e di Luca, composti negli anni 62-67 (mentre Pietro e Paolo sono ancor in vita, o poco dopo la loro morte). Hanno dunque lo stesso valore documentario del vangelo di Marco.

2. LA DATAZIONE DEL QUARTO VANGELO

2.1. La datazione tarda

Tutti i padri della Chiesa, da Ireneo a Clemente d’Alessandria, fino ad Origene, datano la redazione del vangelo di Giovanni dopo quella dei sinottici. Ireneo precisa che l’Apocalisse sarebbe stata composta «verso la fine del regno di Domiziano», e che il suo autore sarebbe morto sotto Traiano. L’analisi interna del quarto vangelo dimostra che il capitolo 21 di questo testo, nella sua forma attuale, non può esser fatto risalire a un periodo precedente al martirio di Pietro (Gv 21,18-19). Al contempo, è possibile stabilire che la notizia sui timori del Sinedrio riferita in Gv 11,47-48, proprio per la sua estrema precisione, può essere considerata come il frutto di una riscrittura redazionale, successiva ai fatti del 70. Ma tutte queste osservazioni, che vanno nella stessa direzione della tradizione ecclesiastica, dovranno essere verificate attentamente dagli specialisti.

2.2. L’identificazione dell’autore

Una lettura attenta degli scritti di Ireneo ci dimostra che per lui, al di fuori del Battista, non esiste un altro Giovanni nell’entourage di Gesù: Ireneo lo chiama «Giovanni l’apostolo», «il discepolo di Gesù», o «il discepolo amato», ma si tratta sempre dello stesso personaggio. A lui attribuisce la stesura dell’Apocalisse, di due delle tre lettere che ritroviamo oggi nel canone, e ovviamente dell’ultimo dei vangeli canonici. Anche se si parla ormai di una “scuola giovannea”, piuttosto che di un singolo autore di nome Giovanni, nessuno mette in dubbio l’aria di famiglia che percorre tutti questi testi, evidentemente composti in un’epoca in cui la comunità cristiana si trovava in una situazione di forte contrasto, sia rispetto alla Sinagoga (Ap 2,9 e 3,9; Gv 9,22 e 12,42) che nei confronti dell’autorità imperiale (Ap 17,9).

Tutto ciò conferma il carattere tardivo di questo corpus.

La prima lettera di Giovanni si presenta esplicitamente come l’opera di un testimone oculare. Ma questa qualifica non è certamente il frutto di una pretesa arbitraria. Di fatto, l’intera argomentazione della lettera si regge sull’autorità di un testimone: gli “anticristi” possono pure affannarsi a negare «che Gesù è il Cristo» (1Gv 2,22), ma il loro insegnamento non ha alcun peso di fronte a quello dei testimoni, i quali hanno «veduto con i loro occhi e toccato con le loro mani» (1Gv 1,1). Se questa lettera fosse l’opera di un anonimo autore della seconda generazione apostolica, il suo argomento non avrebbe alcuna efficacia polemica.

Allo stesso modo, anche il quarto vangelo rivendica solennemente la qualità della propria testimonianza (Gv 1,14; 19,35; 20,30; etc.).

Tra i discepoli di Gesù menzionati nei più antichi scritti cristiani, c’è un solo Giovanni, ed è il fratello di Giacomo, figlio di Zebedeo. La sua autorità è somma (Gal 2,9; At 3,1; etc.). Non si può escludere il lignaggio sacerdotale di Zebedeo e dei suoi figli, dato che ai sacerdoti giudei non era proibito risiedere in Galilea, e che guadagnarsi da vivere col lavoro delle proprie mani poteva essere considerato come un loro dovere (così J. Jeremias). Le classiche difficoltà che si riscontrano nell’identificazione di Giovanni col discepolo amato, a ben vedere, non sono così insormontabili.

2.3. L’unità del testo

L’ipotesi per cui nel quarto vangelo bisognerebbe distinguere due tipi diversi di materiale (narrazioni storiche e discorsi) non trova alcun riscontro negli studi attuali. Gli specialisti possono rifarsi, per questo punto, al magistrale libro di G. van Belle, The Signs Source in the Fourth Gospel (Leuven 1994). È impossibile, ad esempio, attribuire un’esistenza separata al racconto che troviamo in Gv 11,22-24: questo episodio, di grande valore storico, acquista pienamente il suo senso come introduzione al discorso di Gv 11,25-30. I discorsi del quarto vangelo hanno poi lo stesso stile della prima lettera di Giovanni.

Il Gesù di Giovanni si esprime alla maniera di Giovanni. Non si cercherà in quest’opera la ipsissima vox di Gesù, come si può fare nei sinottici. Ma è la portata più profonda degli insegnamenti del Maestro che vi è espressa, in un’epoca tarda, sotto l’impulso dello Spirito (cf. Gv 16,13-15), attraverso il suo discepolo amato, in un linguaggio commisurato alla sensibilità dei cristiani della fine del I secolo e all’ardore dei cristiani di ogni tempo.

3. CONCLUSIONE

Le opinioni esposte in questo breve articolo sono il risultato di lunghe riflessioni, anche se ovviamente restano passibili di correzioni e di critiche. Spero in ogni caso di aver contribuito a dimostrare il carattere provvisorio dei risultati raggiunti dall’indagine scientifica, il che implica l’inesistenza di “dogmi critici”.

La datazione tarda dei vangeli di Matteo e di Luca (dopo il 70), come abbiamo visto, non risulta fondata su ragioni inoppugnabili. La datazione tarda del quarto vangelo, al contrario, appare ben documentata, e non è possibile escludere che il testo risalga direttamente a Giovanni. Del resto, la longevità di questo apostolo fu eccezionale, se prestiamo fede alle informazioni trasmesse da Ireneo, discepolo di Policarpo, a sua volta discepolo dello stesso Giovanni.