Da Saulo a Paolo: di nomi propri e d’altro

Cosa si intende, precisamente, per “conversione” di Paolo? Molti storici non ritengono del tutto opportuna la qualifica di “conversione”, per designare l’esperienza paolina del passaggio dal giudaismo alla fede in Gesù: in qualche misura non a torto, poiché è certo che tale passaggio non venne mai avvertito dall’apostolo come adesione improvvisa a una nuova confessione religiosa.

Del resto, almeno fino ai tempi della prima persecuzione neroniana, una distinzione netta fra cristiani ed ebrei restò pressoché impossibile, per un osservatore esterno: lo stesso nome di “cristiani”, che gli Atti degli apostoli segnalano come entrato in uso per la prima volta ad Antiochia (At 11,26), non viene mai esplicitamente impiegato da Paolo nelle lettere. L’ostinazione di Paolo nel rivendicare fieramente la propria ebraicità, ugualmente, sembrerebbe invitarci a scartare qualunque interpretazione meramente “esteriore” del suo incontro con la Buona Novella. Eppure, non è su questo che ci si può basare per l’esclusione del termine “conversione”.

La triplice narrazione che gli Atti degli apostoli riservano al famosissimo episodio sulla via di Damasco (At 9,3-9; 22,6-11 e 26,12-19), del resto, può essere intesa come il segnale dello stupore e del disagio col quale le prime comunità dei seguaci di Gesù accolsero l’inaspettato neofita. Gli Atti, unitamente ai brevi ed efficaci autoritratti dell’apostolo contenuti nella comunicazione epistolare, contribuiscono inoltre a dare del Paolo “pre-cristiano” un’immagine di fiero campione del giudaismo, di custode “pieno di zelo” (Fil 3,6; At 22,3) della Torah, e questo in evidente contrasto con la sua successiva attività missionaria.

L’ipotesi di un reale mutamento interiore (ed esteriore) nella vita di Paolo, quindi, è fuori discussione. E che tutto ciò possa definirsi come “conversione” sembra più che accettabile, anche sulla base della distinzione fra “conversione” e “adesione” proposta a suo tempo da Arthur D. Nock, nell’ormai classico volume Conversion. The old and the New in Religion from Alexander the Great to Augustine of Hippo (1933). Il libro di Nock, pregevole nel tracciare il dinamismo missionario dei culti orientali in epoca ellenistica, con la loro forza di attrazione sociale, distingue infatti con i nomi di “conversione” e di “adesione” due modalità di approccio esistenziale ai sistemi di pratiche e credenze religiose: la prima dinamica e interiore, la seconda statica e prettamente “intellettuale”.

«Per “conversione” – scrive Nock – noi intendiamo il nuovo orientamento dell’anima di un individuo, il suo decisivo rivolgersi dall’indifferenza o da una precedente forma di religiosità ad un’altra; rivolgimento che implica la consapevolezza di un grande mutamento, che l’antico era errato mentre il nuovo è giusto».

Sarebbe utile, in proposito, verificare direttamente la presenza di questi due concetti all’interno del lessico paolino. Essi sono rappresentati, rispettivamente, dai verbi greci metanoein ed epistrephein:

a) il primo, corrispondente all’ebraico leshuv (donde teshuvah, “ritorno”), indica prevalentemente la conversione nel senso “interiore” di pentimento, di ritorno a Dio, nel contesto di una religione già accettata (ricorre con le sue derivazioni in 2Cor 7,9-10; 12,21; Rm 2,4; 2Tim 2,25);

b) il secondo, invece, qualifica generalmente il passaggio da una religione o da una forma di culto ad un’altra (ed è il senso più “esteriore”, presente in 1Ts 1,9; Gal 4,9; 2Cor 3,16).

Ora, che Paolo pensasse al messaggio di Cristo come ad un inveramento della religione d’Israele pare indubitabile: lo si evince dalle sue stesse affermazioni; ed è probabilissimo, se non proprio certo, ch’egli guardasse alla propria parabola personale come a una sorta di segno per Israele tutto, e specialmente per i correligionari che si rifiutavano di accogliere il Messia. Da questo punto di vista, parlare di una “conversione” dell’apostolo, facendone addirittura il fulcro di tutta la sua esperienza religiosa, è assolutamente corretto, e si rivela imprescindibile per afferrarne in profondità il messaggio.

Abbiamo già visto come, nel clima di generale sfiducia dominante fra gli studiosi riguardo alle informazioni su Paolo che si possono desumere dagli Atti, vi siano almeno due dati che pochissimi mettono in discussione: il suo nome schiettamente ebraico – Shaul, grecizzato in Saûlos – e la sua origine tarsiota. Avendo già parlato di quest’ultima, proveremo adesso a soffermarci sulla storicità del mutamento di nome dell’apostolo.

Ci si è spesso interrogati su quale fosse il vero nome di Paolo. Sappiamo che l’autore degli Atti lo menziona per la prima volta al capitolo 13 (v. 9) del suo scritto, in corrispondenza con l’incontro tra Saulo (che così viene chiamato fino a quel punto) e il proconsole di Cipro Sergio Paolo, da lui spettacolarmente condotto alla fede in Cristo (su questo episodio, e sull’identità storica del personaggio Sergio Paolo, rimando alle note di R. Riesner, Paul’s Early Period. Chronology, Mission Strategy, Theology, Grand Rapids 1998, pp. 137-143).

Numerosi commentatori, a partire dall’antichità (Origene e Gerolamo in testa), imputano il cambio di nome dell’apostolo, da Saulo a Paolo, proprio a questa circostanza. L’espressione utilizzata dagli Atti, tuttavia, è frequentemente attestata nei papiri dell’epoca, e serve a introdurre un doppio nome: il testo parla infatti di Saûlos ho kai Paûlos, dove il sintagma greco ho kai (lat. qui et), corrisponde approssimativamente a ho kaloumenos (“detto anche…”, “conosciuto come”). Tutto ciò lascia intendere che Paolo fosse noto anche in precedenza con quel nome, e che la sua prima menzione a questo punto della narrazione debba essere intesa come un espediente retorico, per sottolineare l’eccezionalità di quella illustre conversione.

Ma se Paolo portava questo nome già prima del suo incontro col Proconsole, come possiamo pensare che l’avesse acquisito? Pau(l)lus era infatti un nome romano, piuttosto insolito presso gli Ebrei. Qualcuno ipotizza pertanto una grecizzazione del nome ebraico Saul (gr. Saûlos o Saoûlos), anche se una traduzione letterale sarebbe stata preferibile (Etētos, “desiderato”). È più probabile, allora, che uno dei due nome valesse come supernomen.

La testimonianza della tradizione manoscritta è da questo punto di vista altamente significativa. P46, tra i più antichi papiri cristiani a noi noti, utilizza sempre per il Paolo pre-cristiano la forma semitica Saoúl, in luogo di Saûlos. Alcuni immaginano che quest’ultima forma, con la desinenza finale greca, sia quindi il risultato di un adattamento del nome Paûlos, che l’apostolo avrebbe avuto come cognomen.

Riguardo al mutamento di Saûlos in Paûlos, e in opposizione a qualunque tentativo di ricostruire una supposta denominazione latina, c’è poi la suggestiva ipotesi recentemente avanzata dal filosofo Giorgio Agamben:

«Saûlos è un nome regale, e l’uomo che lo portava superava ogni altro israelita non solo per la sua bellezza, ma anche per la sua grandezza (1Sam 9,2; nel Corano, Saul è detto per questo Talut, il grande). La sostituzione del sigma col pi significa allora nulla di meno che il passaggio dal regale all’infimo, dalla grandezza alla piccolezza – paulus in latino vuol dire “piccolo, di poco conto” e in 1Cor 15,9 Paolo definisce se stesso “il più piccolo [eláchistos] degli apostoli”. Paolo è dunque il soprannome, il signum messianico (signum vale lo stesso che supernomen) che l’apostolo si dà nel momento in cui assume pienamente la vocazione messianica» (Il tempo che resta, Torino 200, p. 17).

Nulla conferma che si debba intendere Paûlos alla stregua del nome messianico Kepha (in aramaico: “pietra”), del quale venne investito l’apostolo Simone-Pietro da Gesù in persona, secondo il vangelo di Giovanni (1,40-42): si tratta di un’ipotesi che occorre mantenere a livello di pura congettura, ma che da un punto di vista psicologico può arricchire di molto la nostra comprensione della personalità dell’apostolo, e del modo in cui egli intese la propria conversione.

È assai probabile, infatti, che Saulo-Paolo fosse perfettamente cosciente della grandezza che investiva il proprio nome, un nome che lo accomunava direttamente alla figura del primo re d’Israele, quel Saul che peraltro apparteneva come lui alla tribù di Beniamino (cf. Rm 11,1: «Io sono un israelita… della tribù di Beniamino»), e che nel testo biblico, poco prima d’essere consacrato dal veggente Samuele, gli si rivolge in questi termini: «Non sono forse un Beniaminita, di una delle più piccole tribù d’Israele? La mia famiglia è la minore tra le famiglie della tribù di Beniamino…» (1Sam 9,21).

La congettura di Agamben trova un’utile integrazione nelle riflessioni che un altro filosofo, Pavel Florenskij, ha dedicate al nome di Pavel (Paolo), all’interno della sua opera su I nomi. La metafisica dei nomi secondo l’interpretazione storica, composta attorno al 1924. Tali riflessioni, anche per il loro carattere relativamente autobiografico, sono state recentemente offerte al lettore italiano in appendice al volume delle Memorie che il sacerdote e scienziato russo indirizzò ai propri figli.

La storia del nome Paolo, che padre Florenskij inquadra all’interno di una prospettiva più ampia (attraverso la convinzione di stampo platonico che ogni nome dischiuda una sfera metafisica, ideale-reale), inizia giustamente con l’apostolo:

«Con forza straordinaria egli lo coniò conformemente alla propria personalità, e tra tutti i nomi non è dato di trovarne un altro che abbia un legame tanto stretto con chi lo porta (…). Che il suo fosse il nome latino Paulus, come si è soliti ritenere, o che il nome latino fosse stato mutato per assonanza con un qualche nome ebraico; o ancora, che il nome Paolo fosse stato equiparato solo in seguito a quello latino, per un gioco di parole, senza che tale parentela fosse in esso contenuta in origine nell’idea dell’Apostolo, sta di fatto che tali complessi interrogativi storico-filologici – comunque vengano essi risolti – non sono in grado di modificare la sostanza della questione, e cioè che il nome Paolo, così come vive e agisce nel mondo cristiano e non cristiano, è un organismo spirituale ottenuto tramite innesto e che il suo principio generatore non deriva dal nome latino Paulus, ma dal nome originario dell’Apostolo stesso, cioè Saulo» (Pavel (Paolo), in Ai miei figli. Memorie di giorni passati, trad. it. Milano 2003, pp. 313-342: pp. 313-314).

Anch’egli, dunque, riconduce il significato di Paolo ad una cosciente mutazione semantica di Shaul. Di fatto, il nome Shaul è il participio passato del verbo sh’l (desiderare, domandare, chiedere, impetrare: cf. l’etimologia in 1Sam 1,27). Curiosamente, se privato di segni vocalici, può esser letto come sheol: termine che indicava gli inferi, reso dai LXX col greco ades. Florenskij osserva che quasi tutti i significati ascritti al nome Shaul sono legati ai concetti di desiderio, aspirazione, passione, tanto che Saulo può significare sia colui che desidera che colui che è desiderato.

Saulo rischiò di perdersi nell’abisso della propria esaltazione, di quella che Florenskij stesso definisce altrove come “auto-affermazione inospitale”, principio del Peccato: ma non l’ha fatto, mutandosi invece da Saulo in Paolo, e facendosi piccolo per il Regno.

Varrebbe la pena di notare come, nelle parole che Cristo rivolge a Paolo sulla strada di Damasco, secondo At 26,14 («Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Ti è duro recalcitrare contro i pungoli»), molti abbiano ravvisato una citazione diretta di Euripide (Baccanti, vv. 794 sgg.): il fatto curioso è ch’essa viene posta sulle labbra dello stesso Gesù, il quale peraltro – lo puntualizza Paolo nel suo resoconto – gli si era rivolto «in lingua ebraica» (v. 14)!

Ora, pròs kentron laktìzein (“recalcitrare contro il pungolo”) era già espressione d’uso popolare al tempo di Paolo. Resta il dubbio se l’autore di Atti – o Paolo in persona, se pensiamo che il narratore ne abbia riportato fedelmente le parole – abbia inteso rendere in greco un’espressione analoga a quella udita, oppure se il suo sia un riferimento mirato, tenendo conto del contesto (Paolo sta parlando dinanzi al greco Agrippa). A favore di quest’ultima ipotesi giocherebbe il plurale (è detto infatti “recalcitrare contro i pungoli”), che appare nei versi euripidei per esigenze metriche. Ma l’espressione potrebbe aver acquistato valore idiomatico proprio grazie alla forma utilizzata da Euripide. Se fossimo in presenza d’una cripto-citazione, Luca o chi per lui avrebbe inscenato un parallelo elegante e degno di nota dell’incontro fra Dioniso, divinità straniera e braccata, e lo sfortunato re di Tebe Penteo:

Dioniso – Non mi dai retta, non ascolti i miei suggerimenti, Penteo. Anche se mi maltratti, pure ti dico che non devi alzare le armi contro un dio, ma devi stare tranquillo. Bromo non potrà sopportare che tu scacci le baccanti dai monti che echeggiano di “evoè”.

Penteo – Non darmi consigli: sei sfuggito alle mie catene, accontentati. O ti devo punire un’altra volta?

Dioniso – Meglio sarebbe offrire sacrifici, piuttosto di recalcitrare contro i pungoli, un mortale contro un dio.

Parafrasando un commento a queste righe di Euripide, potremmo allora dire che Saulo, alla stregua di Penteo, fu una “vittima” ideale del Dio, perché lottava col Dio (Isra-el), perché portava con sé e dentro di sé le contraddizioni e le lacerazioni di chi cerca Dio, o la sua splendente epifania. Per scoprire queste contraddizioni, come Edipo e tanti altri personaggi della tragedia greca, Paolo ha dovuto “de-regalizzarsi” (mutarsi da Saûlos in Paûlos), perdere il potere che faceva la sua parola indomabile. Ha dovuto farsi debole, àtopos, privo di luogo e di ruolo per affacciarsi al Mistero che lo ha invincibilmente sedotto, perché noi «nulla possiamo contro la verità, ma solo a favore di essa» (2Cor 13,8).

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