Adriana DESTRO – Mauro PESCE, L’uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita, Mondadori, Milano 2008, pp. 258, euro 18.
«Sono dapprima in quattro a scrivere su di lui. Quando scrivono hanno sessant’anni di ritardo sull’evento del suo passaggio. Noi ne abbiamo molti di più: duemila. Tutto quanto può essere detto su quest’uomo è in ritardo rispetto a lui. Conserva una falcata di vantaggio e la sua parola è come lui…
Duemila anni dopo di lui è come sessanta. È appena passato e i giardini di Israele fremono ancora per il suo passaggio, come dopo una bomba, onde infuocate di un soffio. Se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più di un vento di sabbia. Che vivere è come il suo cammino: senza fine…
Proviene da una famiglia in cui si lavora il legno. Lui lavora i cuori, diversi e più duri del legno. Alcuni si associano al suo lavoro. Con fatica li forma ai principi di una nuova economia: non si fa nulla in serie e si va dall’unico all’unico. Non si vende, si dona…
Qualcosa prima della sua venuta lo intuisce. Qualcosa dopo la sua venuta si ricorda di lui. Questo qualcosa è la bellezza sulla terra. La bellezza del vivere è composta dall’invisibile fremito degli atomi spostati dal suo corpo in cammino».
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Sono alcuni passaggi di un piccolo libro dello scrittore e poeta francese Christian Bobin, L’uomo che cammina. E vengono subito alla mente, leggendo quello ch’è sicuramente il più bel capitolo dell’ultimo lavoro scritto in coppia da Adriana Destro (antropologa) e Mauro Pesce (esegeta e storico del cristianesimo), L’uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita.
Il volume, come precisano gli stessi autori (“12 tesi per orientarsi nel libro”), si propone di «mettere in primo piano la pratica di vita di Gesù», d’indagarne lo stile di vita, secondo quanto è storicamente ricavabile dalla testimonianza dei vangeli e della prima letteratura cristiana su di lui. Il capitolo in questione, sul quale ci soffermeremo ora, è quello relativo al “camminare” di Gesù (pp. 42-58). Vale la pena di considerarne attentamente i punti essenziali.
Si parte da una semplicissima constatazione: «Gesù non è un uomo di città, ma nemmeno un abitante di villaggio. Frequenta i piccoli centri, ma nessuno di essi diventa la sua sede stabile. Sceglie di vivere solo provvisoriamente e brevemente in ogni posto, spostandosi da luogo a luogo». Questa continua mobilità, spiegano gli autori, costituisce di fatto «lo scenario fondamentale per comprendere tutto il suo comportamento», e si può dare di essa un’interpretazione che muova dalle categorie degli studi antropologici.
Il riferimento, in particolare, è alle riflessioni sul rapporto tra uomo e spazialità elaborate da Marc Augé e da Michel De Certeau. L’identità di Gesù viene così definita in termini di “spaesamento” e di “riposizionamento”: il suo rifiuto di una sede stabile implica la creazione di una rete di rapporti sociali che sfuggono ai normali criteri di riferimento (e di riconoscimento), forniti da una provenienza geografica, dall’appartenenza a una famiglia, dallo svolgimento di una precisa funzione sociale.
Non si tratta, però, di un ripudio indiscriminato dei luoghi, delle persone e delle attività familiari e lavorative: «per Gesù, come i vangeli ce lo rappresentano, l’abbandono [di questi criteri] può essere visto come un atto liberatorio, che consente di avvicinarsi meglio alla onnipresente concretezza delle persone. […] Solo una persona che è distaccata dal proprio gruppo domestico non rappresenta gli interessi parziali di cerchie, di ceti e di strati. Gesù si sottrae alla responsabilità e al rischio di rappresentare poteri e interessi di questo o quell’altro tipo. Se l’annuncio del regno di Dio provenisse da una famiglia, da un ceto o da un luogo, non sarebbe più espressione della volontà di Dio che egli vuole concretizzare» (pp. 51-52).
Tutto questo, al contempo, permette a Gesù di presentare il proprio messaggio senza che il destinatario lo possa inquadrare all’interno di relazioni pre-definite: o si è con lui, o si è contro di lui. Non ci sono finalità nascoste. Da questo punto di vista, il suo non essere voce di alcuna realtà istituzionale, ma solo di se stesso, non può che spingere la gente ch’egli incontra a un confronto diretto con la verità o la falsità del suo messaggio: «è inevitabile che nascano discussioni e contrasti a proposito della fondatezza e attendibilità delle sue parole».
Gesù, secondo Destro e Pesce, non è un nomade, non è un viaggiatore e non è neppure un pellegrino. Il suo profilo è straordinariamente singolare, e sfugge alle consuete classificazioni che gli storici utilizzano per le attività itineranti del suo tempo.
Non è un nomade, perché spezza il legame tra abitazione e habitat. La vita nomade si differenzia dalla vita sedentaria non per l’assenza di un’abitazione, ma per il fatto che questa è mobile. Il rapporto con l’habitat circostante, tuttavia, risulta strutturalmente identico. Gesù e i suoi discepoli, al contrario, «non hanno un’abitazione, neppure mobile, che costituisca il centro delle loro relazioni con l’ambiente» (p. 47).
Non è un viaggiatore, perché la sua dislocazione non prelude a una reintegrazione. Nel viaggio, l’allontanamento è sempre provvisorio, è una sospensione della vita ordinaria. Possono cambiare i motivi per cui ci si sposta: gli affari, la politica, un’insoddisfazione o un disagio, la volontà di esplorare nuove realtà. Ma si viaggia per tornare a casa, o per trovarne una nuova. Gesù invece si sposta con un altro obiettivo, quello di raggiungere la gente: «non attende che le persone vadano da lui. È lui che si mette in cammino per incontrarle» (p. 49).
Infine, non è un pellegrino, perché «ritiene di essere portatore e autore di atti che procurano una “salvezza” che comporta scampo dal male, dalla disperazione, dal bisogno. Questa salvezza è legata alla sua parola, non è qualcosa che sta in luoghi da raggiungere». Anche in questo caso la testimonianza dei vangeli, soprattutto dei sinottici e di Giovanni, conferma la sofisticatezza della sua operazione culturale e religiosa: egli non rifiuta la presenza del sacro in uno spazio (egli infatti va a Gerusalemme, e dimostra di accettare la realtà del Tempio), ma cerca di trasformarne il senso, per così dire, dall’interno.
Un ulteriore aspetto della sua esistenza itinerante, che gli autori sottolineano puntualmente, è il ritmo che s’instaura tra preghiera e azione, tra isolamento e vita sociale. Prendendo spunto dal vangelo di Marco, che si dimostra molto attento nei confronti di questa particolare dimensione della vicenda terrena del Maestro, i due autori notano che «la preghiera precede sempre l’azione (Mc 1,36-38). Prima di spostarsi, Gesù rifugge la compagnia dei suoi e si isola per pregare. Se vogliono trovarlo, essi devono scoprire il luogo in cui si è ritirato in solitudine […]. È il sintomo del suo bisogno di collocarsi in uno spazio e in un tempo propri» (p. 56).
Ma qui la comprensione dello storico si ferma, ammutolisce, resta rispettosamente sulla soglia: per chi crede, è l’inizio di un mistero.