Abbiamo visto che tra le informazioni su Paolo che si possono desumere dal libro degli Atti degli apostoli vi sono almeno due dati che pochissimi mettono in discussione: il suo nome schiettamente ebraico – Shaul, grecizzato in Saulos – e la sua nascita a Tarso, in Cilicia (l’odierna Tarsus, in Turchia).
A favore della sostanziale attendibilità del testo lucano, sta il fatto che le due informazioni non risultano funzionali ad alcuna particolare impostazione “teologica”. L’autore di questo primo esempio di “storiografia cristiana” avrebbe potuto tranquillamente tacere quell’orgoglioso nome biblico-palestinese ch’è Shaul, e collocare altrove le origini dell’apostolo, ad esempio a Damasco, ad Antiochia o a Gerusalemme: tutte città che svolgono un ruolo di primo piano nell’economia narrativa degli Atti. Tarso, d’altronde, non viene neppure nominata da Paolo, a differenza delle citate Damasco (vd. 2Cor 11,22; Gal 1,17), Antiochia (Gal 2,11; 2Tim 3,11) e Gerusalemme (1Cor 16,3; Gal 1,17-18; 2,1; 4,25-26; Rm 15,19.25-26.31).
Una tradizione riportata da san Gerolamo, al principio del suo commentario alla lettera a Filemone, dà per certa a livello popolare – talem fabulam accepimus, egli scrive – la provenienza della famiglia di Paolo dal villaggio palestinese di Giscala (sul valore del termine fabula, col quale Gerolamo tramanda la notizia, si rimanda a un vecchio articolo di M. Adinolfi, Giscala e san Paolo, in Questioni bibliche di storia e storiografia, Brescia 1969, pp. 155-164). È una notizia che va presa con cautela, ma che può essere accostata ad altri indizi biografici, utili per ricostruire la genealogia dell’apostolo, la sua formazione religiosa, o i motivi che avrebbero condotto i suoi avi a un trasferimento in Cilicia.
Rampollo di una famiglia ebraica della diaspora (2Cor 11,22; Fil 3,5), «della tribù di Beniamino» (Rm 11,1), stando agli Atti Paolo si sarebbe potuto avvalere, fin dalla nascita, della cittadinanza romana (At 16,38; 22,25-28). Sarebbe stato educato a Gerusalemme, «ai piedi di Gamaliel, nella rigorosa osservanza della legge dei padri, pieno di zelo per Iddio» (At 22,3), e pertanto, in ossequio a una consuetudine diffusa presso i gruppi farisaici, avrebbe affiancato allo studio della Torah un’attività manuale, esercitando il mestiere di skēnopoiós (letteralmente: “fabbricante di tende”, lavoratore di cuoio: At 18,3), grazie al quale sarebbe stato in grado di mantenere se stesso (1Cor 4,12; 9,1-18; 2Cor 6,5; 11,23.27; 1Ts 2,9; cf. 2Ts 3,8) e i propri collaboratori (cf. At 20,34-35).
L’ideale orgogliosamente propugnato dall’apostolo era quindi quello dell’autárkeia (Fil 4,11), dell’indipendenza economica che gli consentiva la proclamazione gratuita – e dunque libera da vincoli clientelari – del vangelo, «lavorando notte e giorno per non essere di peso a nessuno» (1Ts 2,9; cf. 1Cor 9,18; 2Cor 11,7). Questa accettazione del lavoro manuale, a un primo sguardo, risulta in linea con l’etica farisaica, che non disgiungeva mai l’attività intellettuale da quella lavorativa, né svalutava quest’ultima a vantaggio della prima, come poteva accadere in ambito greco.
Aristotele, distinguendo tra i vari modi di vita, pensava infatti che l’operosità dell’artigiano o l’attività del mercante fossero più adatte a un’esistenza da schiavi che a un’esistenza orientata verso la contemplazione e la ricerca della sapienza. E il suo era un principio certamente conosciuto e apprezzato anche al tempo di Paolo. Negli scritti del giudaismo rabbinico, diversamente, troviamo attestato che
«…i rabbini di Javne [alla fine del I secolo] usavano dire: Io sono una creatura, il mio amico pure; io ho il mio lavoro in città, ed egli il suo in campagna; io mi alzo per il mio lavoro ed egli si alza per il suo; come egli non invade il mio lavoro io non invado il suo. E se tu volessi dire: Io faccio molto ed egli fa poco, abbiamo imparato (in proposito): sia che uno faccia molto, sia che faccia poco, basta che abbia rivolto il cuore verso il Cielo» (TB Ber. 17a).
Il fatto che Paolo non solo rivendicasse il proprio statuto lavorativo, ma addirittura rifiutasse qualunque mercede per l’attività missionaria, lo allontana immediatamente da certe concezioni del mondo antico, e in particolare dalle abitudini di molti filosofi itineranti dell’epoca (cf. At 20,33-35; 1Ts 1,5; 2,3-6; 1Cor 9,12), persino protocristiani, data la sua esplicita disapprovazione nei confronti di quanti «mercanteggiano (kapēleuontes) la parola di Dio» (2Cor 2,17).
Questo, tuttavia, non significa ch’egli si trovasse in linea in tutto e per tutto con l’etica che dai farisei avrebbe condotto agli autori rabbinici. È pur vero che questi, in seguito, avrebbero scongiurato dal «farsi una corona della Torah», cioè dall’acquisire meriti, anche in danaro, per l’insegnamento intorno alle Scritture: ma l’ideale “autarchico” di Paolo era il risultato di una prassi non insolita nel primo cristianesimo.
Sappiamo dalla Didachè che al predicatore itinerante era prescritto ad esempio di trovarsi un mestiere:
«Chiunque venga nel nome del Signore sia ricevuto; poi valutandolo lo conoscerete, avrete giudizio per la destra e la sinistra. Se chi è venuto è di passaggio, aiutatelo quanto potete; non rimarrà da voi se non due o tre giorni, se necessario. Se vuole fermarsi da voi, avendo un mestiere, lavori e mangi. Se non ha un mestiere provvedete secondo il vostro giudizio, perché un cristiano non viva tra voi ozioso. Se così non vuole è un mercante di Cristo: guardatevi da costoro» (Did., 12,1-5).
Il precetto del lavoro, in questo come in altri casi, obbediva in primo luogo a considerazioni pragmatiche e di buon senso: non implicava un’esaltazione incondizionata dell’attività lavorativa, né una sua parificazione rispetto all’attività “contemplativa”.
Lo stesso Gesù aveva esortato i discepoli a non preoccuparsi troppo del domani, elogiando l’amica Maria, che si era scelta la «parte migliore», di contro a Marta, che si affannava per mille cose trascurando «l’unica veramente necessaria»: l’uomo, secondo Gesù, era destinato a un bene più alto della mera sopravvivenza. Aristotele, in questo, gli avrebbe sicuramente dato ragione: ma non si sarebbe mai sognato di dire certe cose a una donna, né di additarla come esempio positivo per faccende di questo genere.