La Didascalia siriaca

di Erik Peterson

L’articolo corrisponde alla voce «Didascalia», in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948-1954, vol. IV, coll. 1565-1566.

Questo scritto apocrifo vuol essere «la dottrina cattolica» dei Dodici Apostoli e pretende di essere stato scritto a Gerusalemme dopo il «decreto» apostolico di At 15,23 sg.: come il decreto, così anche la Didascalia dei Dodici Apostoli ha l’intenzione di impedire l’infiltrazione di usanze giudaiche nella Chiesa dei Gentili. Per questa ragione il centro teorico del libro è una discussione sul valore della Legge ebraica.

L’autore distingue fra il decalogo e la legge cerimoniale. Quest’ultima fu data dopo il peccato del vitello d’oro (Es 32,4) ed è chiamata deutérōsis, lat. «secundatio», cioè mišnāh nel significato di tradizione giudaica. La prima legge è uno «iugum» (iugum suave: Mt 11,30), la seconda un «vinculum». Cristo è venuto per abolire la seconda legge: «secundationem destruxit» (p. 227, II ed., a cura di R.H. Connolly).

Uno dei compiti principali del vescovo è di distinguere la seconda legislazione dalla prima (p. 34). I sacrifici non erano chiesti da Dio, e così si spiega il fatto che Abele fu ucciso durante un sacrificio e che Noè non ricevette una lode da Dio quando sacrificava dopo il diluvio (citazione di un apocrifo: v. p. 221, 7 sg.). Invece dei sacrifici Dio voleva «orationes et precationes et gratiarum actiones» (p. 87, 10). Questa valutazione della legge non viene, come si è detto, da Giustino ed Ireneo, ma ha molto in comune con le idee dei giudeo-cristiani e della letteratura pseudo-clementina (cf. C. Schmidt, Studien zu den Pseudo-Clementinen, Lipsia 1929, p. 263).

L’autore della Didascalia, che scrive per gentili-cristiani (citazione dalla Sibilla, p. 173), ha conosciuto gli Atti apocrifi degli apostoli (Pietro, Paolo, forse anche Tommaso), il Vangelo di Pietro (vd. L. Vaganay, L’Évangile de Pierre, Parigi 1930, pp. 167 sg., 184 sg.) e quello degli Ebrei (L. Vaganay, op. cit., p. 186; R.H. Connolly, parte I, p. XXVII sg.) e l’orazione di re Manasse. La letteratura pseudo-clementina non è citata, ma tradizioni giudaiche sono venute all’autore (p. 100, 15 sg.: interpretazione giudaica di Dt 6,5: vd. H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, I, Monaco 1922, pp. 100 e 110; i pagani ed il lato sinistro di Dio: vd. Apocalisse di Abramo, p. 36, 16, ed. Bonwetsch), forse per mezzo di tradizioni giudeo-cristiane. Coincidenze con la Didaché, l’Epistola di Barnaba ed Erma possono spiegarsi anche senza l’ipotesi di una dipendenza letteraria, ma le epistole di s. Ignazio erano certamente conosciute all’autore della Didascalia, e con Ignazio s’incontra nell’importanza che dà all’episcopato e alla sua attività (distribuzione delle oblazioni).

Sul servizio liturgico poche notizie, ma interessanti, quelle sul digiuno (strana cronologia della Settimana Santa), sulle vedove, sui martiri e sull’ordine nella chiesa durante il servizio religioso (orientazione della preghiera).

L’opera originale, conservata in traduzioni siriache e in parte in latino (manoscritto di Verona), era scritta in greco (piccolo frammento pubblicato da V. Bartlet, The Didaché reconsidered, in “Journal of Theological Studies”, 13 [1917], pp. 303 sg.). La traduzione greca nelle Costituzioni apostoliche è una rielaborazione. L’opera fu scritta probabilmente in Siria nella prima metà del secolo II. Da Epifanio, Haer. 70, 10, si sa che la Didascalia fu letta presso gli Audiani. Pare che Afraate l’abbia conosciuta; lo stesso vale per Epifanio. Presso i cristiani orientali la Didascalia è inserita spesso tra gli scritti canonici.

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