di Ernst E. Vardiman
Il testo è tratto da E.E. Vardiman, La grande svolta. La Giudea tra ellenismo e primo cristianesimo, tr. it. di A. Satirana, Garzanti, Milano 1987 (ed. or. Düsseldorf 1978), pp. 192-208.
Nel 332 a.C. il Sommo Sacerdote di Gerusalemme si presentò ad Alessandro Magno orgogliosamente abbigliato come un satrapo persiano. Portava tiara e turbante, indossava i pantaloni dei cavalieri persiani sotto una leggerissima gonna pieghettata, aveva un pettorale dorato tempestato di pietre preziose e il mantello trapuntato di stelle scintillanti. L’abito del sacerdote cercava chiaramente di imitare quello che si riteneva l’abito di Dio.
Secondo la leggenda quella figura così stranamente vestita impressionò a tal punto Alessandro Magno che questi scese da cavallo e si inginocchiò. Duecentosettanta anni più tardi, prima di occupare Gerusalemme, il romano Pompeo ricevette a Damasco una delegazione giudea di cui facevano parte anche alcuni giovani aristocratici che si erano proposti di fare colpo sul condottiero romano, famoso per il suo filoellenismo, presentandosi al suo cospetto abbigliati secondo l’ultima moda ellenistica.
Essi portavano un largo copricapo e un elegante chlamys, il mantello dei cavalieri macedoni che scendeva fino alle ginocchia. L’abbigliamento doveva sottolineare la loro elevata posizione sociale e culturale, ma suscitò anche la riprovazione del rigoroso cronista dei libri dei Maccabei, che ci ha tramandato la scena. Bastava la vista di un giovane elegante che portava il chlamys per irritare un contadino dell’Attica. Il Sommo Sacerdote aveva accolto Alessandro in abiti persiani, i giovani giudei accolsero il romano Pompeo vestiti secondo gli ultimi dettami della moda greca: così cambiano le mode e le convinzioni, a seconda delle necessità del tempo.
1. L’abbigliamento maschile
Allora la moda non mutava tanto rapidamente come accade ai giorni nostri. Ci vollero decenni perché anche gli ambienti più conservatori abbandonassero l’antico caffetano armeno frangiato per abbigliarsi esclusivamente alla greca. Nell’età arcaica erano le frange che pendevano dalle tuniche degli uomini a distinguere gli abiti maschili da quelli femminili. I vangeli affermano che anche Gesù portava una tunica frangiata, sebbene le frange non fossero lunghe come quelle di quanti volevano ostentare la loro fedeltà alla tradizione e la loro ortodossia. Scrive W.F. Albright:
«L’abbigliamento tradizionale giudaico si basava sostanzialmente sugli stessi indumenti che formavano quello greco. È sbagliatissimo rappresentare gli uomini dell’epoca avvolti nella tunica e nel mantello che oggigiorno indossano gli arabi. Il turbante, il fez e il keffije (un fazzoletto quadrato che gli arabi fermano intorno al capo con una fascia di lana) comparvero solo nel Medioevo».
La moda segue strane vie. Per quanto possa sembrare paradossale, il chitone, un caposaldo dell’abbigliamento greco, aveva origini semitico-babilonesi. Perlopiù era di lino e veniva cucito o annodato sulle spalle e lungo le braccia. I giovani e gli uomini del popolo portavano un chitone corto e sbracciato o, eventualmente, a maniche corte, mentre quello che indossavano gli anziani e i nobili scendeva fino alle caviglie. Il corrispondente ebraico del chitone era il kutonet, paragonabile a quella che noi oggi definiremmo una tunichetta.
Il mantello o sopraveste di lana, detto himation, è probabilmente l’indumento più antico dell’umanità. In origine era un panno di lana rettangolare che veniva utilizzato anche come coperta, non aveva bottoni e veniva fissato su una spalla da fibbie e fermagli di modo che una mano rimaneva libera mentre l’altra tratteneva la stoffa che ricadeva in morbide pieghe sul corpo. Il Talmud non chiama himation il tipo più semplice di mantello, quello che serviva a ripararsi dalla pioggia o dalle intemperie, ma pinas o palais (dal latino paenula o pallium). Se un uomo arrivava a vendere anche il suo himation non gli rimaneva davvero più nulla. Una novella ellenistica racconta di un figlio scapestrato che, dopo aver dilapidato l’eredità del padre, spinto dalla necessità, vendette da ultimo anche il suo mantello perché credeva erroneamente che fosse già primavera e morì assiderato.
La veste semplice che Gesù raccomandava ai suoi discepoli come segno di modestia – e che molto probabilmente egli stesso indossava – era solo una tunica di lino, un chitone appunto (Matteo 10,9 e segg.). Anche i seguaci della filosofia cinica vollero esprimere la loro protesta contro il lusso della Roma imperiale adottando un abbigliamento modestissimo. Nel Nuovo Testamento la semplice sopraveste dei pescatori viene detta ependytes (Giovanni 21,7), mentre il mantello da viaggio di Paolo è chiamato phelone. Il paenuk infine era l’ispido mantello di pelli o di lana dei pastori. Il Battista aveva un rozzo vestito di peli di cammello per dimostrare la sua appartenenza al deserto. Parlando alle folle che si recavano nel deserto per vedere Giovanni, Gesù disse:
«Cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna agitata dal vento? Ma cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito di morbide vesti? Ecco, quelli che portano morbide vesti sono nelle case dei re» (Matteo 11,7-8).
L’allusione è ai cortigiani effeminati e vestiti come tali. Gli abiti maschili rispecchiavano, in base a rigide norme sociali, la classe cui apparteneva chi li indossava. Dall’himation derivò la toga romana. Gli stranieri, gli esiliati e gli schiavi non potevano indossare la toga. Durante il regno di Nerone chi portava senza averne diritto la toga orlata di porpora, riservata a quanti ricoprivano cariche pubbliche, rischiava addirittura la condanna a morte. I pantaloni e la biancheria intima erano sconosciuti. L’imperatore Augusto, sempre freddoloso, portava tre toghe una sopra l’altra. Per entrare nel Tempio bisognava indossare solo il mantello, senza cintura, sandali né bastone.
Le antiche fonti israelitiche non mancano di sottolineare che i loro antenati, gli stessi re e sacerdoti, portavano solo grembiuli e semplici tuniche. Non tutti potevano permettersi i costosi abiti riservati ai giorni di festa, tanto che questi venivano tramandati di padre in figlio. In una commedia romana, un personaggio chiede all’altro quanti anni desidera ancora vivere e l’interpellato risponde: «Tanto quanto le vesti del sabato di un giudeo».
Ma com’erano vestiti i Giudei della fine del primo secolo a.C.? Esistono, è vero, numerose statuine ellenistiche che riproducono fedelmente la moda dell’epoca, ma non potrebbe essere che i Giudei avessero un costume particolare, come avvenne per esempio in Europa nel Medioevo?
Nel 1932, quando alcuni archeologi francesi portarono alla luce le rovine di Dura Europos, sul corso medio dell’Eufrate, in Siria, fu possibile scartare definitivamente questa ipotesi. Sulle pareti riccamente dipinte di una sinagoga sepolta sotto un cumulo di terra nel 256 d.C., sono raffigurate figure bibliche che indossano quasi esclusivamente abiti di foggia greca e romana completati da piccoli particolari di gusto asiatico.
Queste figure ieraticamente rigide sono cariche di una spiritualità e di una religiosità tipicamente giudaica, che nemmeno l’abbigliamento e l’aspetto greco sono riusciti a cancellare. Si credeva che i Giudei indossassero solo vesti non tinte, bianche come quelle degli Indiani (Luca 23,11). Si trattava però di un errore che ha potuto essere rettificato quando, tra il 1960 e il 1961, il professor Yadin riuscì a trovare nelle grotte del Mar Morto alcune vesti di lana ancora intatte. Scrive Yadin:
«Questi reperti sono particolarmente importanti perché sono gli unici esempi di vesti dell’epoca romana ancora perfettamente conservate e le uniche di cui sappiamo con certezza che appartenevano a Giudei».
Dalle analisi di laboratorio di alcuni frammenti degli abiti è emerso che erano tutti colorati. Esaminando i resti dei tessuti, i laboratori tessili europei e americani sono riusciti a distinguere trentaquattro tonalità diverse. I tre colori primari, il giallo, il rosso e il blu, venivano ottenuti con estratti vegetali distillati dal croco, dalle bacche, dalla reseda, dallo zafferano, dalla radice della quercia coccifera e dalla melagrana. Analizzando i tessuti, i chimici hanno constatato che tra i reperti delle grotte del Mar Morto c’erano anche stoffe miste di lana e seta o lana e lino che, secondo la Legge, avrebbero dovuto essere proibite.
Ognuna delle vesti ritrovate dal professor Yadin era formata da due teli di stoffa cuciti lungo il lato stretto, con un’apertura al centro per il collo come nelle tuniche romane. Vicino alla cimosa molti teli avevano una banda longitudinale in un altro colore destinata a ravvivare l’effetto finale delle vesti, che ricadevano in morbide pieghe sul corpo. In altri teli questa banda longitudinale era sostituita da brevi segmenti a gomito dalle estremità biforcute che ricordavano la terza lettera dell’alfabeto greco, la gamma, e venivano perciò detti fasce a gamma o gammadia. Molte delle figure dipinte sulle pareti dell’antica sinagoga di Dura Europos indossano abiti decorati da questi gammadia, che ritroviamo immutati anche sulle vesti del Cristo e dei suoi discepoli in un mosaico bizantino a Ravenna.
2. L’abbigliamento femminile
Agli inizi uomini e donne erano vestiti allo stesso modo, ma con il divieto di scambiarsi gli abiti le differenze divennero piuttosto evidenti. Altri particolari distinguevano poi le adolescenti dalle donne sposate, le prostitute dalle vedove, le donne dell’aristocrazia dalle popolane, le padrone dalle schiave. Le differenze tra le vesti semplici e quelle più sfarzose crebbero sempre più e si moltiplicarono le forme intermedie. Persino le donne che non sempre riuscivano ad avere di che mangiare non si accontentavano tanto facilmente quando si trattava di vestiario.
Oggigiorno, la moda femminile dell’Occidente industrializzato si è rapidamente diffusa anche fra le donne dei paesi in via di sviluppo. Lo abbiamo visto al Cairo dove, abbandonato l’uso del velo tradizionale e raggiunto un certo benessere, le ragazze dei ceti medio-alti indossano minigonne più audaci di quelle delle parigine, mentre le contadine dei villaggi attorno alla capitale egiziana hanno conservato il loro abbigliamento tradizionale. Lo stesso sarà accaduto in Giudea verso gli inizi dell’era cristiana. La descrizione che Giuseppe Flavio ci dà delle donne dei villaggi contadini contrasta nettamente con quella delle matrone di Gerusalemme, pronte a sfoggiare a teatro e in mille altre occasioni gli ultimissimi modelli della moda greca:
«Le contadine galilee, invece, ce le dobbiamo immaginare vestite di povere vesti che scendono fino alle caviglie».
Seguiamo brevemente le varie fasi dell’abbigliamento femminile dalla culla alla tomba. Le fasce stavano a indicare che il bimbo appena nato veniva accettato e riconosciuto (Luca 2,7.12), per questo i neonati indesiderati venivano abbandonati senza nulla indosso. La fascia era una benda lunga sei metri in cui il bambino veniva avvolto strettamente per i primi sette giorni di vita al fine di tendergli le membra. Il professor Yadin ha rinvenuto nella regione del Mar Morto un camicino di lino alle cui estremità erano cuciti sacchettini colmi di erbe, aromi e semi che servivano a scopi profilattici e curativi. Ha detto il rabbi Abaye:
«Mia madre mi raccontava che tre nodi scacciano qualsiasi malattia, cinque la guariscono e sette tengono lontani i sortilegi».
La purezza e la verginità, il patrimonio più prezioso di una ragazza, erano condizione indispensabile per il matrimonio. Per questo motivo le fanciulle portavano un abito bianco che simboleggiava la loro verginità e venivano date in sposa prima di aver raggiunto la pubertà (gli antichi ignoravano che l’imene può lacerarsi anche senza aver avuto rapporti sessuali).
Le fonti parlano anche di un ornamento detto adi, una sorta di cintura di castità per le vergini. Poiché in egiziano adi significa «parte inferiore», si trattava evidentemente di un ornamento da indossare dalla vita in giù.
Le adolescenti si avvolgevano intorno al corpo come un secondo chitone, una sopraveste sottilissima. Veste e sopraveste formavano un insieme molto piacevole a vedersi, che lasciava libere le braccia e le spalle, mentre la cintura annodata alta faceva risaltare le forme femminili. Il chitone delle adolescenti più che coprire scopriva, e l’imperatore Tiberio stabilì che le donne sposate che lo portavano in pubblico dovessero venir punite.
Quando la sposa bambina abbandonava la casa paterna ed entrava in quella del marito, tutti i demoni erano in agguato. Per questo era avvolta da un velo che la proteggeva dai pericoli. Con questo velo la sposa si consacrava ai numi della casa del marito cercando di conciliarseli. San Gerolamo ci documenta che le prime monache, in quanto spose di Cristo, indossavano lo stesso velo delle spose ma in un altro colore, bianco anziché rosso.
Lo sposo poteva togliere il velo che ricopriva il volto della sposa solo la notte delle nozze. È sbagliato immaginarsi le donne di quell’epoca velate come le arabe. Dalle fonti letterarie e archeologiche emerge chiaramente che godevano di maggiori libertà rispetto alle musulmane. Portavano orgogliosamente sul capo come segno della loro condizione di donne sposate una cuffia, un diadema o una corona. La notte delle nozze la sposa bambina sostituiva al velo il copricapo delle donne sposate. Dal primo giorno di matrimonio non poteva più uscire senza o mostrarsi a un estraneo, in casa propria, a capo scoperto. Se nutriva il minimo sospetto sulla sua condotta, il marito aveva il diritto di ripudiarla. Gallo, uno dei generali dell’imperatore Augusto, famoso per il suo rigore, ripudiò la moglie poiché era uscita senza copricapo.
Nell’antica Mesopotamia le donne che si mostravano in pubblico a capo scoperto venivano condannate al taglio delle orecchie oppure al supplizio della pece bollente (quest’ultima condanna prevedeva che venisse loro versata pece bollente sui capelli). Ad Atene un puritano pretese che fosse vietato di partecipare al rito alle donne che si presentavano al Tempio senza velo o senza copricapo. Il filosofo Plutarco (45-125 d.C.) gli obiettò:
«Così dunque vuoi vietare l’accesso al Tempio a un’etera che, a capo scoperto, fa uso della sua bellezza, ma non ti indigna vedere la statua di Apollo circondata da primizie e offerte che sono frutto di assassinii, guerre e saccheggi?».
Paolo scrive nella prima lettera ai Corinzi (11,5 e segg.):
«E ogni donna che prega (…) a capo scoperto disonora il suo capo perché è come se fosse rasata. (…) L’uomo non deve coprirsi la testa, perché è immagine e gloria di Dio, ma la donna è gloria dell’uomo. (…) Per questo la donna deve avere sulla testa il segno della sua dipendenza, per via degli angeli».
Con dipendenza si intende tanto la dipendenza dall’uomo quanto il velo che ne era espressione. Nel libro apocrifo di Enoc la frase «per via degli angeli» si riferisce agli angeli Shamshaesai e Azaele che, abbagliati dalla bellezza delle figlie di Eva, le sedussero e caddero in peccato (cfr. Genesi 6,2).

Donna che indossa un peplo.
Quella che, a prima vista, sembrerebbe un’epoca estremamente puritana non lo era poi affatto. Stabilendo che le donne potevano spendere parte della dote o delle entrate familiari in vesti e cosmetici, il legislatore suggeriva loro di fatto di valorizzare la propria persona. Nei contratti matrimoniali l’elenco dei doni del marito alla sposa comprendeva sempre abiti e gioielli. In un documento di Elefantina si legge che una certa Demetra portò in dote al marito vesti e gioielli per un valore di mille dramme! Molto più significativo da un punto di vista storico culturale è un contratto matrimoniale rinvenuto nella regione del Mar Morto, datato 5 aprile del 128 a.C, che destinava alla dote di una giovane di nome Selampsione (Salomè-Sion) oro, argento e vesti per la somma considerevole di duecento denari d’argento.
La bellezza femminile era un dovere nazionale. Anche a rischio di mettere a repentaglio il bilancio dello stato, si preferivano le vesti fabbricate con stoffe d’importazione acquistate a cifre da capogiro. Le matrone alla moda vestivano di bisso egiziano, di trasparenti tessuti di cotone importati dall’India, di stoffe persiane dai variopinti ricami ad ago, di porpore di Tiro, sete naturali cinesi, damaschi di Damasco e mussolina leggera che, a Roma, veniva chiamata «aria tessuta». Esortando i Romani ad abbandonare questo malvezzo e a ritornare alle semplici vesti da contadini dei loro avi, il filosofo Seneca osservava ironicamente:
«Il malcostume dilaga! Trionfano gli eccessi della moda! Virtù e decoro sono morti! L’umanità peggiora sempre più! Così si diceva all’epoca dei nostri padri e così noi ripetiamo oggi, e domani saranno i nostri figli a dirlo».
L’arte ellenistica ci ha lasciato numerose rappresentazioni degli abiti delle vedove e di quelli da lutto in genere. È impossibile rimanere indifferenti davanti alle prefiche velate raffigurate sul sarcofago di Alessandro, del quarto secolo a.C., rinvenuto a Sidone e oggi esposto al Museo di Istanbul. Ognuna delle prefiche che compongono il corteo esprime il proprio dolore con gesti diversi, tutti psicologicamente differenziati. Non è possibile distinguere il colore delle loro lunghe vesti di veli, ma sappiamo che nel mondo antico il colore del lutto era il bianco.
3. Le calzature
Le calzature erano costose, e in casa si girava scalzi, ma uscire senza calzari era considerato un gesto che offendeva il buon gusto e la morale. Andavano scalzi solo gli schiavi e quanti portavano il lutto. Un rabbi, che era anche ciabattino, spiegava:
«Chi porta un paio di sandali calpesta le spine, chi non li porta deve soccombere ai rovi. Il re cavalca un cavallo, il nobile cavalca un asinello e la cavalcatura dell’uomo libero sono i suoi sandali, solo i morti girano scalzi!».
Un altro detto popolare affermava: «Un figlio si ricorda della casa del padre solo quando è costretto a girare scalzo». In una parabola di Luca, il figlio ritorna scalzo alla casa del padre e questi ordina immediatamente a un servo di portargli i calzari (Luca 15,22). Indossare nuovamente i calzari significava venir riammesso nella comunità degli uomini liberi; sfilare i sandali a un altro o sciogliergli i lacci dei calzari era considerato compito degli schiavi (Luca 3,16). Era uno schiavo, o lo stesso padrone di casa, che sfilava i sandali degli ospiti e lavava loro i piedi.
Di quest’usanza diffusa anche nell’antica Grecia troviamo testimonianza già in Omero (le strade dell’Ellade erano polverose come quelle della Giudea). In Toscana è stato rinvenuto un vaso greco su cui è raffigurata la balia Antipata mentre lava i piedi di Odisseo, l’eterno errante, in una catinella ovale con due impugnature. In Israele sono state scoperte numerose bacinelle mobili poggiate su un treppiede centrale adibite alla lavanda dei piedi. Nelle case patrizie di Gerusalemme c’erano vasche di pietra con appositi poggiapiedi che avevano due o tre fori sul fondo in modo da far defluire l’acqua sporca in una buca sottostante. Prima di entrare in una casa, tutti erano tenuti a lavarsi i piedi così come si usa fare ancora oggi prima di entrare nelle moschee musulmane.
I sandali ritrovati nelle grotte del Mar Morto e a Masada erano di fattura semplicissima. Il modello tipo era un pezzo di legno non lavorato, senza tacco, con legacci che passando intorno all’alluce arrivavano fino al collo del piede e venivano annodati alla caviglia o al polpaccio. In una grotta del Nahal Heber, cinque chilometri a nord di Masada, il professor Yadin ha rinvenuto anche sandali ortopedici:
«Un cofanetto di gioielli fu il primo segno che mi indicò che avevo scoperto il rifugio di una donna. Poi vidi un paio di sandali femminili incredibilmente in buono stato. Uno di essi sembrava un sandalo ortopedico, e in effetti l’ortopedico che lo esaminò mi disse che chi lo portava doveva avere una leggera zoppìa. In seguito scoprimmo molte altre cose su questa donna. Si chiamava Batata, e ci ha lasciato un archivio di tre dozzine di manoscritti, senza dubbio i documenti più significativi per la storia del costume dell’epoca».
Le calzature erano un indice di ricchezza. C’erano raffinati sandali bianchi o tinti di rosso, dorati o ricamati, ornati di perle e altre pietre preziose. Eleganti e pratiche erano le calzature babilonesi dalla punta rivolta all’insù, che proteggevano più efficacemente le dita dei piedi nelle regioni montuose. I morbidi sandali di marocchino venivano dalla Laodicea. L’alto, rozzo calzare di stringhe veniva detto pero. Il nome dell’imperatore Caligola veniva dagli stivali chiodati e semiaperti dei soldati romani, i caliga. I benestanti portavano infine il colceus di morbido cuoio rosso che arrivava fino agli stinchi.
Un paio di caligae.
Lo scrittore latino Marco V. Marziale (40 circa – 100 d.C.), fanatico collezionista di calzature, raggiunse a Roma fama e ricchezza ma, dimenticato da tutti e caduto in ristrettezze, invecchiando dovette abituarsi a girare scalzo e ritirarsi a vivere in campagna. Marziale ammette di aver appreso dal suo ciabattino – quasi un prototipo dell’Hans Sachs tedesco – l’arte dell’epigramma conciso e pungente e ribadisce anche che è stato il suo furbo ciabattino, con i suoi prezzi elevati, a fare di lui un uomo povero:
«Qui l’appetito (a Roma) richiede troppa spesa e il mercato ti manda in rovina (…); qui quattro toghe o più si consumano in una sola estate, lì (in campagna) una sola mi ricopre per quattro lunghi autunni».
Anche in Giudea non mancavano i saggi ciabattini. Molti scribi, il rabbi Johanan ha-Sandelar, il rabbi Jose, il rabbi Chaninja e il rabbi Oshaja erano ciabattini. I poveri laboratori degli ultimi due si trovavano nelle viuzze tortuose del quartiere delle prostitute. Quando provavano loro le calzature, infilando e sfilando i sandali, i ciabattini mormoravano salmi e voltavano il capo per non perdersi nell’ammirare la grazia di quelle gambe affusolate. A contatto con le etere e lavorando come schiavi per esse, furono presto in grado di «plasmare le anime mentre muovevano abilmente le mani».
4. L’acconciatura delle donne
C’era un tempo un uomo ricco di nome Kalba Sabua che possedeva molte greggi. Rachele, la sua unica figlia, incontrò un pastore chiamato Aqiba. La fanciulla vestita di sete, affascinata da quell’uomo di aspetto selvatico ricoperto di ispide pelli, supplicò il padre di farglielo sposare. «Mai e poi mai», fu la risposta del vecchio, che scacciò di casa la figliola. Rachele e Aqiba fuggirono di nascosto e trascorsero la loro notte di nozze in una capanna abbandonata, su un giaciglio di paglia. Al mattino il pastore raccolse i fili di paglia infilatisi fra i capelli della donna amata, la baciò e le disse: «Un giorno, invece di una corona di paglia, ti porrò sul capo un diadema d’oro».
In quel momento bussò alla porta della capanna il profeta Elia che, fingendosi un mendicante, chiese un po’ di paglia per la moglie, presa dalle doglie mentre erano in cammino in aperta campagna. «Vedi, mia cara», disse il pastore alla sua sposa mentre il finto mendicante si profondeva in mille ringraziamenti per la paglia ricevuta, «anche una corona di paglia è molto, perché c’è gente ancora più povera di noi che non possiede nemmeno questo». Il pastore dallo sguardo penetrante divenne su desiderio di Rachele un famoso dotto con una propria scuola e ventimila discepoli.
Questa leggenda ben si adatta al famoso rabbi che riuscì a far accogliere nel Canone il Cantico dei Cantici, questo ardente canto d’amore, affermando che l’amore celeste altro non è che una sublimazione di quello terreno.
Fin qui la leggenda. Prima che si diffondesse l’uso del velo e di altri copricapi, le donne solevano legarsi intorno al capo una semplice corda di lino, lana o cotone per evitare che i lunghi capelli ricadessero loro sulla fronte. Da questa semplice cordicella derivò in seguito il diadema delle ricche matrone e delle principesse. «Gerusalemme dorata» era il nome di una corona muraria ornata di perle, oro, monete d’argento e porpora. Anche il capo della dea siriaca Iside era adornato da una corona muraria. Più belli della corona e del velo erano i lunghi, folti, vaporosi capelli femminili. Nella prima lettera ai Corinzi leggiamo:
«Non vi insegna la natura stessa che è disonorevole per l’uomo portare i capelli lunghi? Per la donna invece la capigliatura è gloria! Perché la chioma a lei è stata data in luogo del velo» (1Corinzi 11,14).
Accanto all’abbigliamento o, piuttosto, unitamente a esso, le acconciature sono sempre state espressione delle varie civiltà. Da questo punto di vista l’epoca di cui ci stiamo occupando fu una delle più creative dell’antichità. Sulle terracotte alessandrine così come sugli affreschi e i dipinti delle tombe romane, si vedono le acconciature più particolari e originali, che vanno dall’ostentata semplicità di un semplice nodo o di una treccia alle forme più raffinate ed elaborate.
Ovidio descrive dettagliatamente come le eleganti dame romane sfoggiassero in ogni occasione una pettinatura diversa, sempre più raffinata e «carica» di riccioli. In epoca imperiale ci si affidava all’arte di un onatrix, un abile acconciatore, che sapeva raccogliere sapientemente i capelli della cliente sulla sommità del capo lasciando ricadere mille riccioli sulla fronte e sulle tempie. Per renderli lucidi si utilizzava grasso di capra, cenere di legno di betulla e olio d’oliva, mentre per fissare la pettinatura si ricorreva allo sterco bovino, all’argilla, alla cera o al burro. Infine si spruzzava sui capelli acqua fortemente profumata.
Per dare un riflesso ramato ai riccioli che incorniciavano il volto Plinio consigliava il fiore del cipero, che cresceva a Gerico. Fra i reperti archeologici sono stati rinvenuti anche nastri e reticelle (di cui alcune in metallo), forcine, catenelle, spirali, pomate profumate, tinture, pettini d’avorio e non, ma soprattutto specchi. Nella maggior parte dei casi si tratta di specchi con impugnatura o di specchi da viaggio montati su cerniere e racchiusi in cofanetti. Fra gli specchi con impugnatura vi sono alcune delle più belle creazioni dell’artigianato dell’epoca. Dice il testo di un grazioso indovinello che ha per oggetto appunto lo specchio:
«Se mi guardi ti guardo. Tu mi vedi con gli occhi, io ti vedo senz’occhi. Se lo vuoi posso parlare senza voce, perché la voce appartiene a te, e le mie labbra si aprono senza emettere suono».
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