Nei primi capitoli della Lettera ai Galati (1,15 – 2,11), Paolo rievoca le principali tappe dei suoi primi quattordici anni di apostolato, fornendo una sorta di scaletta cronologica dei propri spostamenti, dal momento della “conversione”, avvenuta secondo gli Atti mentre si trovava in viaggio da Gerusalemme a Damasco, fino all’accordo sancito con le “colonne” della chiesa gerosolimitana:
- «E quando piacque a Colui che mi aveva scelto fin dal grembo materno, e mi aveva chiamato per mezzo della sua grazia, di rivelare il Figlio suo in me, affinché ne annunciassi la buona novella alle Genti, non mi volli consultare subito con carne e sangue, né volli salire a Gerusalemme, da quelli che erano apostoli prima di me, ma mi recai in Arabia e di nuovo raggiunsi Damasco» (1,15-17): per “Arabia”, Paolo intende probabilmente la regione di Damasco, o la Nabatea più a sud, la zona di Pella e di Gerasa. Di un ritorno a Damasco, dove l’apostolo sarebbe stato battezzato dal pio Anania (At 9,10-19), si parla anche in un altro passaggio autobiografico dell’epistolario (2Cor 11,32-33): stando ad esso, Paolo vi sarebbe rimasto fino a quando, probabilmente a causa di un’opposizione interna alle comunità ebraiche, venne costretto a fuggire di notte, calato avventurosamente all’interno di una cesta, lungo le mura della città (At 9,20-25): quest’ultima circostanza si sarebbe verificata sotto la reggenza di Areta re dei Nabatei (†39), come espressamente rievocato dall’apostolo.
- «In seguito (hépeita), dopo tre anni, salii a Gerusalemme per consultare (historēsai) Cefa, e mi trattenni presso di lui quindici giorni. Degli apostoli non vidi altri, ma soltanto Giacomo, il fratello del Signore [allora capo della comunità di Gerusalemme]» (Gal 1,18-19): i tre anni vengono conteggiati o dal suo ritorno a Damasco dopo il soggiorno in Arabia, oppure, più correttamente, dal momento del suo incontro col Cristo; da notare la menzione di Simon Pietro col suo soprannome aramaico Kepha.
- «In seguito (hépeita) mi recai nelle regioni della Siria e della Cilicia. Personalmente (tô-i prosôpô-i) ero sconosciuto dalle chiese della Giudea» (Gal 1,21-22): ciò conferma che il suo colloquio con Cefa/Pietro ebbe lo scopo primario di ottenere una sorta di riconoscimento ufficiale; il verbo historēsai, utilizzato al v. 18, allude del resto a molto più che a una semplice conversazione (una battuta fortunatissima tra i commentatori è che «Paolo e Pietro non s’intrattennero di certo a parlare del tempo»: il primo ad usarla pare sia stato Charles H. Dodd, ripreso da William D. Davies, Gerd Lüdemann, Jerome Murphy O’Connor, Bruce Malina e chi più ne ha più ne metta…).
- «Quindi, dopo quattordici anni, salii di nuovo a Gerusalemme con Barnaba, dopo aver preso con me anche Tito (…). E conosciuta la grazia che mi era stata data, Giacomo e Cefa e Giovanni, che erano considerati le “colonne”, diedero la destra a me e a Barnaba, in segno di unione: noi avremmo dovuto annunciare il Vangelo presso le Genti, mentre loro presso i circoncisi» (Gal 2,1.9): come puntualmente osservato da Hans D. Betz, il gesto di “dare la destra” implica la subordinazione di Paolo e Barnaba alle “colonne”: chi “dava la destra” si trovava infatti in una posizione superiore, e sanciva con questo gesto il superamento di un conflitto o la soluzione di una difficoltà (vd. Galatians: A Commentary on Paul’s Letter to the Churches in Galatia, Philadelphia 1979, p. 100: Betz si sofferma in particolare sulla ricorrenza di questa espressione, con significato analogo, nel primo e nel secondo libro dei Maccabei).
GLI ESORDI E IL PRIMO VIAGGIO MISSIONARIO
Tra il primo incontro con Pietro e la seconda salita a Gerusalemme (in occasione del cosiddetto “concilio apostolico”), Paolo avrebbe trascorso secondo gli Atti un anno di formazione ad Antiochia di Siria (At 11,25-26), su espresso invito di Barnaba, il levita originario di Cipro (At 4,36) che evidentemente occupava già una posizione di rilievo nell’ambiente antiocheno.
Gli Atti riferiscono di una carestia «sotto Claudio» (imperatore dal 41 al 54), che avrebbe reso necessaria una colletta in soccorso delle comunità di Gerusalemme, e che sarebbe stata inviata «per mezzo di Barnaba e di Saulo» (At 11,28-30). I due, di ritorno ad Antiochia insieme a Giovanni detto Marco (At 12,25), tradizionalmente identificato con l’evangelista, sarebbero poi partiti per un primo viaggio missionario in Anatolia (At 13,1-14,28), probabilmente attorno al 46, e comunque dopo la morte di Erode Agrippa († 44). Da Fm 24 e da Col 4,10, apprendiamo che questo Marco (probabile soprannome latino) era cugino di Barnaba: nella casa di sua madre, a Gerusalemme, soleva riunirsi un gruppo di seguaci di Gesù (At 12,12).
Il percorso del primo viaggio si snoda via mare, da Seleucia – porto della metropoli siriaca – a Cipro (con tappa a Salamina e a Pafo, la capitale amministrativa dell’isola, dove Paolo avrebbe guadagnato alla fede il proconsole Sergio Paolo), indi in Asia Minore (sbarco ad Attalia, poi Perge di Panfilia, con la defezione di Marco, fino ad Antiochia di Pisidia, Iconio e le città della Licaonia, Listra e Derbe, e ancora Attalia), per far ritorno nuovamente ad Antiochia.
Tra questa missione e la successiva, va quindi collocato un secondo arrivo a Gerusalemme, con la partecipazione alla riunione apostolica che avrebbe deciso del ruolo di Ebrei e Gentili all’interno delle comunità proto-cristiane (vd. At 15,1-35, che riporta il discorso di Pietro sui Gentili convertiti, la proposta di Giacomo e le decisioni della “lettera apostolica”), e il cosiddetto “incidente di Antiochia”. Di quest’ultimo frangente, fonte d’infinite discussioni fra gli esegeti in quanto completamente taciuto dagli Atti, possediamo un resoconto di prima mano dell’apostolo, che ne parla all’interno della lettera ai Galati:
«…Quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui contrastandolo a viso aperto, perché si era messo dalla parte del torto. Infatti, prima che sopraggiungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva il pasto insieme ai Gentili; ma dopo il loro arrivo, cominciò a tirarsi indietro e ad appartarsi, per timore dei circoncisi. E insieme a lui fecero il doppio gioco altri Giudei, tanto che persino Barnaba si lasciò trascinare nella loro doppiezza (hypokrisis). Ma quando mi accorsi che non camminavano rettamente sulla via della verità del Vangelo, dissi davanti a tutti: “Se tu che sei giudeo, vivi da gentile e non da giudeo, come puoi costringere i Gentili a comportarsi da Giudei (ioudaizein)?» (Gal 2,11-14).
IL SECONDO VIAGGIO E LA MISTERIOSA MALATTIA DI PAOLO
Quello che secondo gli Atti (15,36-21,14) fu il secondo viaggio missionario di Paolo (dopo la scissione da Barnaba e Marco, i quali s’imbarcheranno da soli per Cipro) comportò tre lunghi anni di cammino, attraverso le comunità precedentemente visitate di Siria, Cilicia e Licaonia.
A Listra, l’attuale Hatunsaray, situata nei pressi del celebre insediamento neolitico di Çatal Höyük, Paolo ebbe modo di conoscere colui che sarà tra i suoi più fedeli collaboratori: «Timoteo, figlio di una donna giudea credente e di padre greco [gentile]… assai stimato dai fratelli di Listra e di Iconio… Paolo volle che partisse con lui… e lo fece circoncidere per timore dei Giudei che abitavano in quelle regioni: tutti infatti sapevano che suo padre era greco» (At 16,1-3).
Affiancato da Silvano/Sila, come lui cittadino romano, Paolo cerca di guadagnare al messaggio di Cristo la provincia dell’Asia Proconsolare, con la sua capitale Efeso, ma una serie di «impedimenti dallo Spirito Santo» (At 16,6-7: forse difficoltà di vario genere interpretate profeticamente) spinge il gruppo verso nord, in Galazia, dove Paolo è costretto a fermarsi e predicare a causa di un’infermità fisica (cf. Gal 4,13).
Non è chiaro se, nel caso della Galazia (che deve il suo nome ad un insediamento gallico del III sec. a.C.), Luca e Paolo facciano riferimento alla ripartizione politica o etnica dell’Impero. L’omonima provincia romana, ridefinita da Augusto nel 25 a.C., comprendeva infatti la regione centro-settentrionale della penisola anatolica, ma anche parte della Frigia, della Licaonia, della Pisidia e dell’Isaurica, tutte regioni, queste ultime, teatro della prima missione. Gli Atti, tuttavia, non menzionano alcun impedimento fisico dell’apostolo, e questo fa collocare i riferimenti desumibili dalla lettera ai Galati nel contesto del secondo viaggio missionario.
Si sono spese molte pagine nel tentativo di decifrare la natura di questa misteriosa afflizione di Paolo. I pochi accenni – che parlano di una «sofferenza nella carne» (Gal 4,13), di un male tale da procurare ribrezzo o disagio, non sono certamente sufficienti per ricostruire una “cartella clinica”: «per quella che nella mia carne era una prova per voi, non dimostraste disprezzo, né nausea, ma anzi mi accoglieste come un inviato di Dio» (Gal 4,14).
I verbi usati sono molto forti: ekptýein, nella fattispecie, significa “sputare”, e lascia pensare a un gesto apotropaico: da qui, e dal collegamento con la “spina nella carne” di cui Paolo parlerà nella seconda lettera ai Corinzi (12,7), ha preso piede l’ipotesi ch’egli soffrisse di attacchi epilettici. Il confronto immediato sarebbe con Giulio Cesare, anche lui infaticabile camminatore (cf. quel che ne dice Plutarco, in riferimento all’epilessia: Vita di Cesare, §§ 17 e 53), e con la lunga schiera di illustri (e talora presunti) epilettici, fino a Fëdor Dostoevskij, che ne L’idiota diede un ritratto delle sensazioni procurategli dalla malattia attribuendole al principe Myškin.
Tra Ottocento e Novecento, com’era costume del tempo, cominciarono le prime fantasiose “diagnosi” dedicate all’apostolo: la più celebre, quella effettuata dal neurologo tedesco A. Seeligmüller nel 1910, escluse tuttavia l’ipotesi epilettica. Indagini psicopatologiche si erano concentrate in precedenza anche sulla figura di Gesù: ne diede conto per primo A. Schweitzer, in un articolo del 1913, intitolato Die psychiatrische Beurteilung Jesu. Si parlò allora, per l’apostolo, anche di malaria, di reumatismi e di sciatiche.
H. Schlier, nel suo commento alla lettera ai Galati, ha preferito basarsi su una frase dell’apostolo – «vi sareste cavati anche gli occhi per darmeli, se aveste potuto» (Gal 4,15) – per ipotizzare un disturbo di natura oftalmica: ma la frase, a meno che non venga in qualche modo collegata all’accenno degli Atti sulla temporanea cecità subita dall’apostolo dopo la visione sulla via di Damasco, potrebbe essere tranquillamente intesa in senso traslato. L’unica cosa certa che rimane al lettore è l’impressione che Paolo abbia sperimentato sofferenze di ogni genere, senza mai nasconderle: non parlò mai del dolore, come di tante altre realtà umane, in un modo astrattamente impersonale.
Tornando all’itinerario descritto dagli Atti, il gruppo avrebbe proseguito per Troade, in Misia, dove a causa di una visione ricevuta da Paolo si sarebbe deciso di salpare alla volta della Macedonia (At 16,9-10), raggiungendo in breve tempo il porto di Neapolis e poi Filippi, in Tracia. A questo punto la narrazione di At passa alla prima persona plurale, dando il via alle cosiddette Wir-stücken (“sezioni-noi”, ossia scritte alla prima persona plurale). Nel terzo viaggio di Paolo troveremo a Troade una comunità cristiana già perfettamente organizzata: possibile dunque che il narratore (lo stesso Luca, o l’anonimo autore della fonte da lui impiegata) abbia incontrato Paolo proprio qui.
Quella di Filippi è una tappa importante: la comunità ebraica, molto ristretta, non dispone nemmeno di una sinagoga, e il sabato, per la preghiera, si riunisce presso un fiumicello; in questa occasione Paolo converte un gruppo di donne, fra le quali spicca Lidia, una commerciante di porpora originaria di Tiatira, definita come “timorata di Dio” (seboméne tòn theòn: una simpatizzante, diremmo noi, dell’ebraismo; At 16,14).
Sempre a Filippi, Paolo e Sila avrebbero subito la prima reazione negativa da parte di un ambiente non ebraico, venendo dapprima incarcerati, e successivamente espulsi dalla città, con l’accusa di aver “esorcizzato” una giovane schiava che arricchiva i padroni con i propri vaticini. I rapporti dell’apostolo coi Filippesi, tuttavia, risulteranno sempre improntati a una speciale cordialità (cf. 2Cor 8,3-4;11,9 e Fil 4,15-16).
Tra prediche e tumulti nelle sinagoghe, la missione sarebbe proseguita a Tessalonica, a Berea, ad Atene (ove Paolo avrebbe tenuto il proprio discorso all’Areopago, «ma quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo canzonarono, altri dicevano: “Su questo argomento ti sentiremo un’altra volta”»: At 17,32), e, finalmente, a Corinto, capoluogo della provincia romana dell’Acaia. Paolo vi sarebbe rimasto per un anno e sei mesi (At 18,11), ospite di una coppia di Giudei, Aquila e Priscilla, giunti dall’Italia per effetto dell’editto di espulsione di Claudio (datato al 49, e menzionato da Svetonio, Vita di Claudio, 25: Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantis Roma expulit).
L’apostolo, secondo gli Atti, venne convocato a giudizio presso il proconsole Lucio Giunio Anneo Gallione, fratello del filosofo Seneca: un’iscrizione rinvenuta a Delfi, che riproduce il testo di una lettera dell’imperatore, c’informa della presenza di Gallione a Corinto, in qualità di proconsole (carica di durata annuale), tra il 51 e il 52 (cf. anche Seneca, Epist. 104,1). Molto probabilmente, a Corinto Paolo scrisse la prima lettera ai Tessalonicesi, e forse pure la seconda (se la consideriamo autentica).
Nuovamente costretto dall’opposizione ebraica, sempre secondo la narrazione lucana, si sposterà ad Efeso, ove lascerà Aquila e Priscilla in compagnia di «un giudeo di nome Apollo, nativo di Alessandria, eloquente e ben ferrato nelle Scritture» (At 18,24-26; successivamente Apollo si spingerà a Corinto, cf. At 18,27-19,1; 1Cor 1,12; 3,22; 4,6; 16,12). Da lì raggiungerà Cesarea di Palestina e farà finalmente ritorno alla base antiochena.
IL TERZO VIAGGIO MISSIONARIO
Col suo terzo viaggio missionario (presentato in At 19,1 – 21,14 come prolungamento del precedente), l’apostolo ripercorre le regioni dell’altopiano anatolico, raggiungendo la tanto a lungo agognata Efeso e fermandovisi per più di due anni, insegnando (dialegómenos) «presso la scuola di Tiranno», «di modo che tutti gli abitanti dell’Asia, sia Giudei che Greci, ascoltarono la parola del Signore» (At 19,10). Come già abbiamo avuto modo di considerare (vd. l’articolo “Fino agli estremi confini della terra”), molte speculazioni sul valore paradigmatico della predicazione di Paolo all’Areopago di Atene, in quanto primo e decisivo luogo d’incontro col mondo “pagano”, potrebbero essere ridimensionate da un esame accurato delle circostanze di questo soggiorno efesino.
Il piglio anti-idolatrico della predicazione dell’apostolo (manifesto nel caso dei tempietti di Artemide: At 19,23-40; avvertibile anche in At 17,16) provoca tumulti; l’apostolo decide quindi di proseguire per la Macedonia [1] e di tornare a Corinto, ove soggiornerà per tre mesi (At 20,3), componendo probabilmente la lettera ai Romani, in cui manifesta il suo profondo desiderio di raggiungere al più presto l’Urbe (cf. At 19,21; Rm 1,11; cf. anche Rm 15,22-24; 16,1).
In Rm 16,1 Paolo menziona una certa Febe, «la nostra sorella che è anche attualmente diaconessa (diákonos) nella chiesa di Cencre» (Cencre è uno dei due porti sull’istmo di Corinto): si presume che Paolo, raccomandandola ai Romani, le avesse affidato l’incarico di consegnare la lettera da Corinto. In questo periodo va collocata anche la stesura della seconda lettera ai Corinzi e forse di quella ai Filippesi.
Ripercorrendo la Macedonia e l’Asia insieme a collaboratori designati (fra cui Luca? cf. At 20,5-6), per raccogliere e portare a destinazione la colletta per le chiese a Gerusalemme (1Cor 16,1-8; Rm 15,25-28), Paolo fa tappa a Filippi, durante la celebrazione della Pasqua (At 20,6), a Troade (At 20,6-12), ad Asso (At 20,13), e via mare a Mitilene, Chio, Samo, Mileto (dove avrebbe pronunciato il suo “testamento pastorale” di fronte ai presbiteri di Efeso: At 20,17-38), Cos, Rodi, Patara, Tiro, Tolemaide e infine Cesarea Marittima, donde raggiungerà Gerusalemme (in tempo per la festa di Pentecoste, cf. At 20,16), il luogo in cui lo attendono «catene e tribolazioni» (At 20,23).
Il bilancio di un’attività apostolica costellata da «viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di ladri, pericoli dai connazionali, pericoli dai Gentili, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli, fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, digiuno frequente, freddo e nudità» (2Cor 11,26-27), attende ora il suo supremo coronamento a Roma, nel cuore dell’Impero.
A Gerusalemme, del resto, il clima non è dei più favorevoli: Paolo è sgradito a quei fedeli che ricordano il suo passato di persecutore, e a quanti, ancorati alla Legge, lo disprezzano come apostata. Viene arrestato con l’accusa di aver condotto all’interno del Tempio un gentile (Trofimo di Efeso, nominato in At 20,24; 21,29 e in 2Tim 4,20): l’accesso al Tempio di Gerusalemme era assolutamente interdetto ai non Ebrei, cui veniva riservata l’area detta appunto “Atrio dei Gentili”.
Il narratore degli Atti sottolinea a più riprese le analogie tra quanto subisce l’apostolo e la Passione di Gesù, come pure la perizia retorica di Paolo, che si rivolge in greco al tribuno che lo scorta (At 21,37) [2], e in «lingua ebraica» (verosimilmente in aramaico) al popolo (At 21,40), rivendicando il proprio statuto di cittadino romano mediante un provvidenziale appello alla lex Porcia (At 22,22-29).
Dopo aver sventato una congiura ordita da alcuni oppositori (At 23,12-22), Paolo sarebbe stato tradotto a Cesarea con un’imponente scorta armata (470 uomini secondo At 23,23!) [3], per rispondere delle accuse formulate dal Sinedrio – rappresentato dal Sommo Sacerdote Anania (eletto attorno al 47-48: secondo alcuni, all’epoca del procuratore Felice era già stato deposto), da alcuni anziani e da un avvocato a nome Tertullo – dinanzi a Marco Antonio Felice, procuratore della Giudea (dal 52 al 59-60; di lui parla Tacito, in Hist. V,9 e Ann. XII,54). A ben poco sarebbe valso il tentativo di difesa messo in atto da Paolo:
«Non mi hanno trovato nel Tempio in disputa con alcuno, o a provocare subbuglio tra la folla, né dentro le sinagoghe né per la città. Non [ti] possono portare le prove di ciò di cui ora mi accusano. Anzi [ti] confesso che io rendo culto al Dio dei miei padri, secondo la “via” che essi chiamano “setta”, credendo a tutto ciò che è conforme alla Legge e che è scritto nei profeti… è a motivo della resurrezione dei morti che io sono oggi in giudizio di fronte a voi» (At 24,12-14.21b).
Rimarrà in attesa di una sentenza definitiva per due anni, sino alla successione alla carica di procuratore di Porcio Festo (At 24,27), nel 59, allorquando il precipitare degli eventi gli imporrà la decisione di appellarsi a Cesare (in quel momento Nerone, imperatore dal 54 al 68), senza la quale, se diamo credito alle reazioni tutto sommato bonarie attribuite a Festo stesso e al re Agrippa II (regnante fra il 49 e il 91), figlio di Erode Agrippa, «quest’uomo avrebbe potuto essere rilasciato» (At 26,32).
GLI ULTIMI VIAGGI E IL MARTIRIO
L’ultimo viaggio dell’apostolo riferito dagli Atti, non meno avventuroso dei precedenti e descritto con la consueta minuzia (anche qui con “sezioni-noi”), è occasionato dal trasferimento sotto scorta alla volta di Roma (At 27,1-28,14): l’imbarco avviene a Cesarea, la rotta costeggia Sidone e l’isola di Cipro, con trasbordo su una nave alessandrina a Mira, in Licia, e uno sbarco a Creta.
L’approssimarsi della stagione invernale, col mare clausum, non impedisce al gruppo di tentare l’approdo della costa meridionale italiana, ma una rovinosa tempesta sospinge la nave a naufragare a Malta, e a sostarvi per tre mesi, fino all’arrivo della primavera. Da lì, in un tempo relativamente breve, facendo tappa a Siracusa, Reggio e Pozzuoli (ove è attestata la presenza di una comunità proto-cristiana), l’apostolo raggiunge a Roma «i fratelli che avevano sentito delle nostre peripezie» (At 28,15), e gli viene concesso di dimorare per conto proprio, fruendo del regime di custodia militaris. Ciò sarebbe accaduto al più tardi nel 60: lo si deduce dal fatto che il prefectus praetorio al quale Paolo viene affidato è citato al singolare; probabilmente si trattò di Burro, dato che, a quanto ne riferisce Tacito (Ann. XIV, 51), alla morte di questi invalse l’uso di nominarne due, invece di uno. Burro fu amico di Seneca: elemento in più per riconsiderare l’ipotesi di una conoscenza tra l’apostolo e il filosofo, testimoniata dall’epistolario apocrifo.
A questo punto la narrazione degli Atti s’interrompe: Paolo – si dice – «rimase due anni interi in un ambiente preso a pigione, e riceveva tutti quelli che andavano a visitarlo, annunciando il Vangelo del regno e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo con piena libertà e senza ostacoli» (At 28,30-31). A questo lungo periodo di detenzione, tra Cesarea e Roma, la maggior parte degli studiosi fa risalire le cosiddette lettere della prigionia (quelle a Filippesi, Colossesi, Efesini, e a Filemone).
Le tre lettere pastorali (due a Timoteo e una a Tito) presuppongono la liberazione da una prima prigionia romana, un probabile viaggio in Spagna (secondo le intenzioni espresse in Rm 15,24.28) e altri viaggi in Oriente, durante i quali l’apostolo avrebbe lasciato Timoteo alla guida della comunità di Efeso e Tito alla guida di quella di Creta.
Alcune testimonianze non canoniche, indipendenti fra loro, segnalano un viaggio dell’apostolo fino agli estremi confini dell’Occidente: tra queste, oltre al canone Muratori (linee 35-39), c’è la prima lettera di Clemente Romano ai Corinzi (1Clem 5,7). Gli Atti di Pietro, databili alla fine del II secolo, riferiscono di un imbarco di Paolo tra il pianto e le suppliche dei fratelli, che lo avrebbero accompagnato al porto di Ostia (3,1-2). Tra i personaggi della folla – donne, cavalieri romani, uomini nobili – l’apocrifo inserisce alcuni nomi della “casa di Cesare”, che troviamo menzionata nella lettera ai Filippesi (Fil 4,22). Poco dopo, all’arrivo a Roma di Simon Mago – «un uomo di Ariccia» (località sulla via Appia, a pochi chilometri dall’Urbe, ove trovò dimora un altro grande taumaturgo, Apollonio di Tiana) che si presenta «come la grande potenza di Dio», con segni e prodigi – e prima della lotta ingaggiata da Pietro contro di lui, lo scompiglio dei fedeli è grande, «anche perché a Roma non c’era Paolo e neppure Timoteo e Barnaba, mandati in Macedonia da Paolo»: notizia che parrebbe concordare col quadro offerto dalle pastorali (ma è tipico procedimento di questa letteratura lo sviluppo e l’integrazione di quei particolari che le testimonianze canoniche lasciano aperti o irrisolti).
Tradizioni di chiese locali, non di rado dettate dalla volontà di conferirsi prestigio, contemplano l’ipotesi di un approdo di Paolo a Tarragona (il cui primo vescovo, Prospero, sarebbe stato investito della carica dall’apostolo in persona) o a Cadice (ma la fonte, non documentata prima del XVI sec., è oltremodo inattendibile), e di un arrivo a Tortosa, con la consacrazione a vescovo di Rufo, forse lo stesso che viene citato da Mc 15,21 come figlio di Simone il Cireneo – quello «che costrinsero… a portare la croce» – e/o da Rm 16,13 («Salutate Rufo, questo eletto nel Signore, e la madre sua, che è anche mia»).
La seconda lettera a Timoteo, sempre che sia di mano paolina, potrebbe essere stata scritta da Roma, durante una seconda prigionia, e comunque dopo un ulteriore soggiorno a Troade, Corinto e Mileto (2Tim 4,13.20). Il passo di 2Tim 4,13 fa pensare che proprio a Troade l’apostolo sia stato arrestato, come un «malfattore» (2Tim 2,9), e di lì condotto ad Efeso per il processo e successivamente a Roma (2Tim 1,16-18).
Fonti tarde, probabilmente leggendarie, assoceranno questa prigionia di Paolo a quella di Pietro presso il carcere Mamertino (noto allora come Tulliano) a Roma, ai piedi del Campidoglio. Il Martirio di san Paolo apostolo comincia dicendo che «Luca, giunto dalla Galazia [4] e Tito dalla Dalmazia, attendevano Paolo a Roma», il che fa pensare non soltanto a 2Tim 4,10 (un tale Crescenzio parte per la Galazia e Tito per la Dalmazia), ma anche ad un secondo soggiorno romano, non essendovi alcuna allusione a scorte militari.
Gli ultimi giorni di Paolo, per quel che possiamo desumerne dai brevi cenni delle pastorali, sarebbero stati desolanti: durante la prigionia l’apostolo avrebbe potuto saggiare amaramente la fedeltà di pochi (2Tim 1,16: «Onesiforo… non ha arrossito delle mie catene»; 2Tim 4,11: «Luca soltanto è con me. Prendi anche Marco e conducilo con te, perché mi è utile per il ministero») e l’infedeltà di molti (2Tim 1,15: «tutti quelli dell’Asia… mi hanno abbandonato»; cf. 2Tim 4,10a.14-16), in attesa del martirio, secondo il toccante testamento di 2Tim 4,6-8:
«Quanto a me, io sono già versato in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho mantenuto la fede. Per il resto, è già in serbo per me la corona della giustizia, che mi consegnerà in quel giorno il Signore, Lui, il giusto giudice; e non soltanto a me, ma anche a tutti quelli che hanno amato la sua manifestazione».
La tradizione colloca il martirio per decapitazione (cf. Tertulliano, De praescr. haer. 36,3) ad Aquas Salvias – nella località sull’antica via Laurentina chiamata oggi Tre Fontane, vicino ad Ostia – , al più tardi durante la persecuzione neroniana (64-67). La leggenda secondo la quale la testa di Paolo, staccata dal busto, rotolò per tre volte facendo zampillare dal suolo altrettante sorgenti (donde il nome della località), è comunque registrata in fonti scritte (pseudo Marcello, Atti di Pietro e Paolo) molto tardi, a partire dal V secolo.
Il luogo della sepoltura, non ancora totalmente confermato dalla ricerca archeologica, è indicato da Eusebio di Cesarea sulla via Ostiense, nel punto in cui sorge oggi la monumentale basilica romana di San Paolo fuori le mura.
***
Note
[1] Passando per Filippi, Tessalonica, e, forse, lungo la via Egnazia, per l’Illirico, secondo un versetto assai discusso: Rm 15,19; cf. At 20,2; stando ad Eusebio, Hist. Eccl. II,18.9, Paolo avrebbe raggiunto l’Illirico mentre Claudio, a Roma, emetteva il suo editto di espulsione dei “Giudei”.
[2] Secondo At 21,37-38, Paolo venne scambiato dal tribuno per un egiziano che giorni prima aveva «provocato una sommossa e condotto nel deserto quattromila sicari». Una sommossa organizzata da uno “pseudoprofeta” egiziano è ricordata da Giuseppe Flavio (Ant. Iud. XX,8,6, §§ 167-172), sotto Felice: forse a riprova di una possibile valutazione di Paolo, da parte delle autorità romane, come oppositore politico. Sui movimenti di liberazione sociale all’epoca dell’apostolo, e sulla differenza tra sicari e zeloti, cf. almeno M. Hengel, Gli zeloti. Ricerche sul movimento di liberazione giudaico dai tempi di Erode I al 70 d.C., trad. it. Brescia 1996; G. Jossa, Gesù e i movimenti di liberazione della Palestina, Brescia 1980; R. A. Horsley – J. S. Hanson, Banditi, profeti e messia, trad. it. Brescia 1995.
[3] Un numero davvero impressionante: si tratta di un’esagerazione di Luca? Forse no, considerando la tumultuosità delle simpatie e delle antipatie popolari. Tacito (Ann. 15,44) riporta un caso occorso nel 61 d.C., allorquando si decise di condannare a morte l’intera servitù di un certo Pedanio, assassinato da uno degli schiavi: l’esecuzione venne ostacolata con tale impeto da richiedere l’intervento dell’esercito.
[4] Ma la variante più attestata dai codici è «dalle Gallie»: particolare degno di nota, perché la zona della Gallia meridionale costituì uno dei principali centri di irradiazione della cultura asiatica (dell’Asia Minore). Si pensi solo al trasferimento a Lione, nel II secolo, del vescovo Ireneo, originario di Smirne.
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