La disciplina dell’arcano

di Filippo Oppenheim

L’articolo corrisponde alla voce «Arcano, disciplina dell’», in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948-1954, vol. I, coll. 1793-1797.

Raffaello, La disputa del Santissimo Sacramento, dettaglio.

Con l’espressione disciplina arcani, adoperata per la prima volta dal teologo protestante Jean Daillé (Dallaeus, nell’opera De scriptis […] Dionysis Areopagitae, I, Ginevra 1666, p. 142), si suole designare, dal sec. XVII in poi, un uso vigente nella Chiesa antica, specialmente dal secolo III al V, di non parlare agli estranei dei riti sacri e dei dogmi della religione.

1. Sotto l’influsso delle controversie e l’impulso delle crescenti ricerche storiche sulla dottrina e sul culto dei primi tempi cristiani, fin dal sec. XVI si era notato che per vari dogmi, sacri riti, ecc., mancavano o erano assai scarse le testimonianze antiche. Alcuni scrittori cattolici spiegarono tale fatto con la tradizione orale che nella Chiesa, in ispecie per i sacri riti, sempre ha coesistito accanto alla tradizione scritta. Altri ricorsero, per spiegare tale fatto, a una legge esplicita del silenzio, già da s. Basilio (De Spiritu Sancto, 66) dichiarata una «tradizione apostolica», per cui i fedeli sarebbero stati costretti ad astenersi dal parlare, soprattutto dell’Eucaristia e della transustanziazione (cf. Dictionnaire de théologie catholique, I, Paris 1903, coll. 1738-1743).

Secondo Melchiorre Cano (De locis theologicis, Salamanca 1563, libro III, 3) gli Apostoli avrebbero dato il santo ai cani, «si quibus formis Sacramenta essent conficienda, quibusve ritibus administranda aliaque id genus religionis secreta passim vulgo tradidissent». Secondo s. Roberto Bellarmino (De controversiis christianae fidei, Lione 1599, I, 8 e II, 29) i Santi Padri «non loquebantur de eo [sacramento dell’Eucaristia] coram ethnicis et catechumenis nisi tecte, ut illis verbis: Norunt fideles» e rimanda a Tertulliano, Origene, s. Giovanni Crisostomo, s. Agostino, Teodoreto. G. Estius (In Lib. IV Sententiarum, Parigi 1680, dist. 1 e 19) estese la legge del silenzio a tutta la teologia sacramentaria.

Da altri si esagerò, come suole avvenire, di modo che l’anglicano J. Bingham (Originum sive antiquitatum ecclesiasticarum, IV, Halle 1727, p. 120) ironicamente poteva scrivere: «Hoc novo et admirabili instrumento, quod disciplinam arcani vocitant…, omnis dissimilitudo et repugnatia, quae inter antiquas Ecclesiae catholicae doctrinas consuetudinesque, et novellas praesentis Ecclesiae Romanae corruptiones apparet, illico evanescit et in ventos abit». I protestanti reagirono: I. Casaubonus (De rebus sacris et ecclesiasticis exercitationes XVI, Londra 1614, 4a ed., Ginevra 1686) vi vedeva l’influsso della legge del silenzio vigente negli antichi culti pagani; Jean Daillé (De usu Patrum…, Ginevra 1686) segnalava con esattezza l’età relativamente tarda (secc. IV-V) della presunta istituzione. Ne nacque così una violenta polemica fra il canonico E. de Schelstrate (Antiquitas illustrata circa concilia generalia et provincialia, Anversa 1678; Commentatio de s. Antiocheno concilio, ivi 1681) e il protestante W.E. Tentzel (Exercitationes selectae in duas partes distributae, quarum… posteriori disciplina arcani in apricum producitur, Lipsia-Francoforte 1692, contenente: Tentzel, Dissert. de discipl. arcani, Wittemberg 1683; Schelstrate, Dissert. apologetica: De discipl. arcani contra disput. Tentzel, 1685, e la risposta di Tentzel: Animadversiones…), non sopita ancora oggi (cf. Dictionnaire de théologie catholique, I, Paris 1903, col. 1741 con la bibliografia).

Nel corso del sec. XIX si pensò che una disciplina arcani esistesse realmente, ma fosse qualche cosa di simile al segreto di cui si circondavano i culti pagani dei «misteri» ai quali solo gl’iniziati potevano accedere, e dei quali era vietato svelare sia il rito, come il mito (cf. N. Bonwetsch, “Wesen, Entstehung und Fortgang der Arkandisziplin”, in Zeitschrift für historische Theologie 43 [1873], pp. 203-299; E. Hatch, The Influence of Greek Ideas and Usages Upon the Christian Church, Londra 1890; G. Anrich, Das Antike Mysterienwesen in seinen Einfluss auf das Christentum, Gottinga 1894; G. Wobbermin, Religionsgeschichtliche Studien zur frage der beeinflussung des Urchristentums durch das antike mysterienwesen, Berlino 1896; O. Casel, “Antike und christliche Mysterien”, in Blätter für das bayerische Gymnasial-Schulwesen, 63 [1927], pp. 329-340; e “Alterchristlicher Kult und Antike”, in Jahrbuch für Liturgiewissenschaft, 3 [1923], p. 1 sgg.).

Ciò avveniva parallelamente ai tentativi di inquadrare storicamente il cristianesimo fra le correnti religiose contemporanee alle sue origini. Si tratta però di sole similitudini esterne: una diretta ed immediata accettazione dell’uso pagano non si può documentare e neppure supporre, data l’avversione degli antichi cristiani per gli usi pagani. G.C.L. Frommann (De disciplina arcani quae in vetera Ecclesia Christiana obtinuisse fertur, Jena 1833) pensò a un’imitazione delle pratiche giudaiche verso i proseliti e del segreto osservato dalla gnosi alessandrina.

2. La disciplina dell’arcano, che in un certo esisté di fatto, si sviluppò i) da una naturale tendenza alla riservatezza che impediva di svelare come che fosse i più sublimi e nobili riti e credenze della religione; ii) dall’istituto del catecumenato: i catecumeni dovevano essere iniziati, per ragioni pedagogiche, gradatamente nelle verità della rivelazione cristiana, eccitando la loro curiosità e il desiderio di conoscere ciò che si teneva segreto.

Benché i cristiani, specialmente durante le persecuzioni, non amassero in genere proclamarsi tali apertamente di fronte a chicchessia, sinora non si è trovato nei primi due secoli nessun documento che provi l’esistenza della disciplina dell’arcano: le confessioni dei cristiani interrogati da Plinio (Epist., 10, 96) e la franchezza con la quale s. Giustino e alcuni altri apologisti parlano, nelle loro opere indirizzate all’imperatore e al senato, del culto cristiano, dimostrano la sua inesistenza. Il pagano Celso, che scrisse contro i cristiani, conobbe molto bene i loro libri sacri. La Didaché, manualetto d’istruzione catechetica e primo rituale, non ha per nulla il carattere di libro segreto. Gli stessi simboli, usati nell’arte paleocristiana, non avevano altra funzione che di rappresentare graficamente, cioè concretamente, concetti astratti, quali i sacramenti, l’immortalità dell’anima, la vita eterna, ecc. Anzi, gli scrittori ortodossi rimproveravano, e talora acremente, il silenzio e il mistero ai gruppi ereticali. Si può concludere che la Chiesa, nei primi due secoli, non conobbe la disciplina dell’arcano, per quanto, a causa delle persecuzioni, vivesse talora clandestinamente.

Ci fu però un periodo, tra il sec. III e il V, in cui fiorì tale disciplina, richiesta dalle esigenze del catecumenato, istituito per preparare e meglio istruire i catecumeni al Battesimo. Comparve allora una distinzione nella predicazione e nella partecipazione alla Messa tra i catecumeni e i battezzati: ai primi si parlava del battesimo e dei principali dogmi soltanto, riservando l’istruzione completa, specialmente circa l’Eucaristia, a dopo che avessero ricevuto il Battesimo. Si ebbe quindi la Missa catechumenorum, cioè la prima parte della Messa fino all’Offertorio, e la Missa fidelium, cui i non battezzati non partecipavano.

I Padri di quest’epoca ripetono spesso che ai catecumeni non si devono spiegare i misteri sacri; ma sembra che ciò sia stato più per misura di prudenza che per virtù di legge. Le prime testimonianze risalgono alla fine del sec. II e al principio del sec. III, con l’iscrizione di Abercio e Tertulliano (Ad uxorem, 2, 5): «Non sciet maritus [sc. paganus] quid secreto onte omnem cibum gustes [sc. s. Eucharistiam]». Nello stesso tempo, a Roma, un altro chiaro argomento ci offre s. Ippolito (Traditio apostolica, 16, 28-31), supposto però che queste parole non siano un’aggiunta posteriore: «Ne sinas vero infideles scire, nisi prius baptismum accceperint»;  meno chiara è la testimonianza della Didascalia (3, 10, 7) per la Siria. Origene in diverse sue omelie (In Lev. hom., 9, 10; cf. In Num. hom., 5, 3; In Lev. hom., 13, 3; In Iud. hom., 5, 6; In Gen. hom., 17, 8) parla del sangue del Signore come mezzo di redenzione nostra e aggiunge: «Novit qui mysteriis imbutus est et carnem et sanguinem Verbi Dei: non immovemur in his quae scientibus nota sunt et ignorantibus patere non possunt».

Il punto culminante della disciplina dell’arcano fu raggiunto durante il sec. IV e nella prima parte del sec. V. Così per l’Egitto l’attestano Atanasio (Apol. sec., 11, 2; 44, 4; 72, 6: egli rimprovera gli ariani e i meleziani di aver portato in tribunale la causa circa una profanazione avvenuta in chiesa durante la Messa, per cui i sacerdoti avevano dovuto dare al giudice laico non battezzato delle spiegazioni rimaste poi nei verbali) e, benché meno chiaramente, l’Eucologio di Serapione (3,3; 4,2; 20, 1); per la Palestina Cirillo di Gerusalemme (Procatechesis, 4-6; 12; Catech., 18, 32 sg.; 19-23), Eteria (Peregrinatio, 46 sg.); per la Siria s. Giovanni Crisostomo (In I Cor. hom., 40, 1: «Vorrei parlar chiaramente, ma non oso a causa degli iniziati»; cf. ibid., 27, 3; 28, 1), Teodoreto (Eranistes, 2; Haereticorum fabularum compendium, 5, 18); per Cipro s. Epifanio (Anchor., 57, 3-6); per la Cappadocia s. Basilio (De Spiritu Sancto, 25; 27; 66), s. Gregorio Nazianzeno (Oratio, 36, 2; 45, 16), s. Gregorio Nisseno (De baptismo: PG 46, 421); per Costantinopoli s. Giovanni Crisostomo (Epist. ad Innocentium, I, 52, 533), Sozomeno (Hist. eccl., I, 20). Ottima fonte per dimostrare l’influsso della disciplina dell’arcano sulla liturgia sono poi le Constitutiones Apostolorum (VII, 25, 5-7; VIII, 2-12).

Nell’Occidente l’attestano s. Zenone di Verona (Tract., I, 4, 4; II, 5, 8), s. Ambrogio (De mysteriis, I, 2; Expositio in Evangelium S. Lucae, 7, 43; De excessu fratris sui Satyri, II, 43), s. Pietro Crisologo (Sermo 161 fin.) ed altri. Nel sec. V, si ricorda la cautela di papa Innocenzo I (Epist. ad Decentium): egli accenna a riguardi e reticenze circa l’Eucaristia, parla di «quelle cose che non debbo manifestare» e termina: «le altre cose non è lecito scriverle, te le spiegherò quando verrai a Roma». Agostino pure osserva pienamente la legge del silenzio (Serm., 4, 28.31; 5, 7; 132, 1; 234, 2; 272; In Io. tract., 22, 5; 45, 9, ecc.); in altri luoghi manifesta una maggiore libertà, il che indica forse uno svigorimento della disciplina, che presto scomparve.

La disciplina dell’arcano comprendeva in ispecie questi oggetti:

a) i riti e le formole relative al Battesimo e alla Cresima o in rapporto con essi, come il testo del simbolo battesimale che conteneva la professione di fede nella S.ma Trinità, del Pater noster, preghiera della famiglia cristiana, poi in genere i dogmi principali della fede (cf. Traditio apost., 16, 23; 28 sg.; Cirillo di Gerusalemme, Catech., 18, 32 sg.; 19-23; Ambrogio, De myst., I, 2; 9,55; Epifanio, Anchor., 56, 3-6; ecc.). Per il simbolo: Cirillo, Catech., 1, 18; 6, 29; Eteria, Peregr., 46, 2-6; Ambrogio, De Cain. et Abel, I, 9; Agostino, Serm., 212-215; 228, 3; Sacramentario gelasiano, I, 35; ecc.; cf. F. Kattenbusch, Das Apostolische Symbol, I, Lipsia 1891, pp. 39-55. Per il Pater noster: Tertulliano, De baptismo, 20; Cipriano, De oratione dominica, 10; Cirillo di Gerusalemme, Catech., 23, 11-18; Const. Apost., VII, 44-45; Giovanni Crisostomo, In Col. hom. 6, 4; Agostino, Serm., 56-59; Ildefonso di Toledo, De cognitione Baptismi, 132; cf. F.J. Dölger, “Das erste Gebet der Täuflinge in der Gemeinschaft der Brüder”, in Antike und Christentum 2 [1930], 142-155).

b) I riti e le formole relative all’Eucaristia (Tertulliano, Ad uxorem, 2, 5; Cipriano, De lapsis, 26; meglio Ambrogio, De excessu fratris sui Satyri, I, 43).

c) I libri concernenti i sacri misteri (Cirillo, Procatech., fin.).

d) Il luogo: durante la spiegazione del simbolo, durante l’amministrazione del Battesimo e la celebrazione eucaristica le porte dovevano essere chiuse per i non iniziati (Giovanni Crisostomo, In Matth. hom., 23, 3; Eteria, Peregr., 47, 2 ; cf. Ambrogio, De mysteriis, 2, 5), anzi custodite (Didascalia, II, 57, 6; Const. Apost., VIII, 11, 11).

e) Il tempo: la solenne iniziazione avveniva, come spesso presso i pagani, nel silenzio della notte (cf. Clemente di Alessandria, Protrept., 2, 22, 1; Cirillo di Gerusalemme, Procatech., 15; Firmico Materno, De errore prophanarum religionum, 22; Gregorio di Nazianzo, Oratio, 39, 4).

Era interdetto agli iniziati di parlare di queste cose anche nelle istruttorie giudiziarie (Atanasio, Apol. sec., 11, 44, 72) e ai non iniziati di ascoltarle (Sozomeno, Hist. eccl., I, 20); erano permesse solo oscure allusioni e «sono una specie di silenzio» (Basilio, De Spiritu Sancto, 66; Cirillo di Gerusalemme, Catech., 6, 29; Giovanni Crisostomo, In I Cor. hom., 40, 1); in casi di gravissima necessità, se ne poteva anche parlare (Giovanni Crisostomo, In I Cor. hom., 27, 3; 28, 1; Atanasio, Apol. sec., 11,2; Trad. apost., 16, 31); spesso gli autori per non interrompono l’argomento con un «norunt fideles» e simili espressioni (Origene, In Lev. hom., 9, 10; 13, 3; Agostino, In Ioh. tract., 22, 5; 45, 9; Serm., 4, 28.31; 5, 7; 132, 1; 232, 7; 234, 2; ecc.). La legge del silenzio però fu osservata diversamente, come lo dimostrano, ad esempio nei riguardi dell’Eucaristia, Epifanio (Anchor., 57, 3-6) contra Teodoreto (Eranistes, 2); del simbolo, Sozomeno (Hist. eccl., I, 20) contra Socrate (Hist. eccl., I, 8, 21 sg.). Era pure proibito l’accesso ai sacri misteri e il solo vederli (Basilio, De Spiritu Sancto, 66; Zenone, Tract., II, 5, 8; Ambrogio, De excessu fratris sui Satyri, I, 43); così pure la consegna dei libri sacri e liturgici (Cirillo di Gerusalemme, Procatechesis, fin. ad lectorem); Basilio (loc. cit.) ne proibisce ogni descrizione (cf. Sacramentario gelasiano, I, 35).

Nessun autore però riferisce esservi una legge speciale che imponga tale silenzio ai neofiti; nessuno li costringe con giuramento o con promessa giurata all’osservanza della legge dell’arcano. S. Ambrogio (De mysteriis) la impone insieme alla conservazione della fede e della purezza dei costumi («silentii integritas»); secondo Zenone di Verona (Tract., I, 5, 8), la violazione del segreto è un sacrilegio; secondo le Constitutiones Apostolorum (VII, 25, 6) è un delitto che merita castigo.

L’iniziazione avveniva gradatamente: si cominciava con la spiegazione del simbolo, poi seguiva la vera iniziazione, infine, nell’Ottava del Battesimo, la spiegazione dei riti (cf. Eteria, Peregr., 46 sg.; Cirillo di Gerusalemme, Catecheses; Ambrogio, De mysteriis; De sacramentis; Zenone, Tract., II, 30-77; Agostino, Serm., 212 e 260).

Dopo il sec. V si trovano nei Padri solo rapidi accenni al segreto o al silenzio sui dogmi. Alcune tracce però ne rimasero nelle varie liturgie; così presso gli orientali l’ammonizione del diacono ai catecumeni di andarsene prima dell’Offertorio, di velare l’altare durante il Canone della Messa; nella liturgia latina, ad esempio, l’uso di recitare il Canone della Messa a bassa voce, di non tradurre in lingua volgare le parole della consacrazione eucaristica, il che dura fino ai nostri giorni [1948].

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Questa voce fa parte del Progetto Enciclopedia Cattolica

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