“Chi vede me vede il Padre”

Non fraintendetemi: non mi capita sempre di dissentire da quel che scrive Giovanni Bazzana. E spero che non se la prenda neppure questa volta, se traggo spunto dal suo blog, in maniera “polemica”, per sviluppare alcune considerazioni paoline.

L’occasione è offerta, anche in questo caso, da un’osservazione di Benedetto XVI, che mercoledì scorso si è soffermato brevemente sulla preghiera di Gesù nell’Orto degli Ulivi:

«E diceva: Abbà, Padre! Tutto è possibile a te:
allontana da me questo calice!
Però non ciò che voglio io (sia fatto), ma ciò che vuoi tu»
(Mc 14,36: trad. CEI 2008).

Il commento del Papa che ha fatto sobbalzare lo studioso è il seguente:

«I tre testimoni hanno conservato – come appare nella Sacra Scrittura – la parola ebraica o aramaica con la quale il Signore ha parlato al Padre […]: “Abbà”, padre. Ma questa formula, “Abbà”, è una forma familiare del termine padre, una forma che si usa solo in famiglia, che non si è mai usata nei confronti di Dio».

«In quest’affermazione», osserva Bazzana, «praticamente tutto è sbagliato, a cominciare dalla menzione dei tre testimoni, visto che solo Marco ha la traslitterazione greca del semitico abbà, mentre i paralleli (Mt 26,42 e Lc 22,42) hanno solo pater. Inoltre, come si fa notare in questo post di WIT in cui si commenta l’ultimo libro papale, l’ipotesi secondo la quale l’uso di abbà sia unico di Gesù e sia un segno di particolare familiarità, oltre che puzzare non poco di anti-giudaismo, è stata totalmente confutata da ricerche nemmeno tanto recenti».

Ora, che il termine aramaico abbà potesse indicare l’autoritativo “padre”, e non il tenero “papà”, come spesso si afferma, è una cosa che in effetti è stata rilevata da tempo: per la prima volta, credo, dal semitista scozzese James Barr, in un articolo apparso negli anni ottanta del secolo scorso (Abba isn’t “Daddy”, “Journal of Theological Studies” 39 [1988], pp. 28-47: contro una tesi resa celebre dall’esegeta tedesco Joachim Jeremias).

Ma questo non giustifica la secca liquidazione degli argomenti del pontefice. Innanzitutto, con ogni probabilità, i “tre testimoni” cui fa riferimento Ratzinger non sono i paralleli sinottici citati da Bazzana, ma i passaggi di Marco e delle lettere di Paolo (gli unici, nel Nuovo Testamento) dove compare il termine abbà: Mc 14,36, Gal 4,6 e Rm 8,15.

Ed è evidente che se questi tre testi si son presi la briga di trasmettere una stessa espressione in aramaico, non lo hanno fatto per pura coincidenza. C’era qualcosa, nell’uso di abbà, che doveva suonare particolarmente significativo. Ma che cos’era? Le cosiderazioni di Bazzana, a mio parere, sviano l’attenzione da questo problema, anche se sono molto intriganti:

«Gesù prega affinché sia allontanato da lui un “calice”, ma cos’è questo “calice”? Per Ratzinger si tratta de “l’abisso della morte, il terrore del nulla, la minaccia della sofferenza”: la volontà del “padre”, che Gesù accetta, è che il figlio sprofondi in tutto questo. Ma quale “padre” può “volere” questo per suo figlio? Un “padre” a cui ci si rivolge chiamandolo “babbino”? […] Provo a pormi, come provocazione, una domanda fondamentale. Si potrebbe amare questo Dio? Certo. Quante donne dicono di amare i mariti che le picchiano? Quanti uomini dicono di amare i sovrani che li mandano a farsi macellare in guerra? Quanti oppressi hanno accettato in silenzio e per amore ingiustizie e violenze, magari dopo aver meditato la scena dell’orto dei Getsemani?».

Rileggendo queste frasi, mi sono subito venute alla mente le riflessioni di Ernst Bloch, e in particolare il suo richiamo alla frase che Gesù pronuncia nel Vangelo di Giovanni: «Chi vede me vede il Padre» (Gv 14,9).

È su questa frase, come molti ricorderanno, che il filosofo marxista (ma come si può definire “marxista” chi fu in realtà un teosofo?) imbastisce la sua proposta di “ateismo nel cristianesimo”. Alla religione del Padre-Padrone YHWH, del Desposta Metafisico, del Demiurgo malvagio, l’ebreo Bloch oppone la religione del Figlio-Ribelle, dell’Uomo Primordiale, del Gesù Messia nonostante la croce (non Deus homo factus est, ma Homo deus factus sit!).

La cosa, da un punto di vista squisitamente teologico, si presenta come una formidabile bestemmia. Temo che Gesù l’avrebbe interpretata addirittura come un “peccato contro lo Spirito”, cioè come un mancato riconoscimento dell’agire di Dio, e del senso dell’agire di Dio: come una deliberata alterazione della “realtà”.

Se l’accettazione della sofferenza da parte del “figlio” viene messa in rapporto con la presunta volontà sanguinaria del “padre”, è proprio il senso dell’invocazione abbà che sfugge immediatamente. Perché è vero che il Padre “vuole” che il Figlio muoia, ma questa volontà non è una volontà di morte: è l’accettazione di un rifiuto, di una tremenda libertà di rifiuto. La dottrina dell’“agnello sacrificato”, che Bloch disdegna con forza, non è il risultato di una logica violenta o puramente passiva, ma il suo definitivo rovesciamento: dove la possibilità dell’amore per il nemico (fino alla morte) fa saltare la misura che lo rende nemico.

Non è un caso, allora, che l’invocazione abbà, oltre che sulle labbra di Gesù, ricompaia in un contesto che grazie a Paolo possiamo intuire come pasquale e battesimale, cioè di trionfo paradossale della vita sulla morte:

«Poiché siete figli, Dio ha inviato lo spirito del suo figlio nei nostri cuori, il quale grida: Abbà, Padre!» (Gal 4,6).

«Infatti non avete ricevuto uno spirito di schiavitù, per ricadere nel timore (della morte), ma uno spirito che vi rende figli, col quale gridiamo: Abba, Padre!» (Rm 8,15).

Nel primo di questi passaggi, in maniera piuttosto insolita, Paolo si riferisce all’invio, da parte del Padre, di uno “spirito del figlio”: e questo è realmente un accostamento inedito, per il giudaismo dell’epoca. Ma che cosa lo rende possibile, se non l’ancoraggio all’esperienza concreta, e forse pure alla predicazione, dello stesso Gesù?

Ancor più singolare, a ben vedere, è infatti la nota per cui i credenti, tramite questo spirito presente nei loro cuori, possono “gridare” l’appellativo “padre”, rivolgendosi a Dio.

L’uso del verbo “gridare” sembra rimandare a un contesto liturgico, nel quale i credenti rievocavano alcuni episodi della vita di Gesù, molto probabilmente della sua passione. E il rito del battesimo, con il suo carattere di “immersione” nella morte (e nella risurrezione) di Gesù, è sicuramente il contesto più adeguato per immaginare una rievocazione di questo tipo.

Come ha scritto James D.G. Dunn, «fu proprio la prassi di Gesù che impresse al termine aramaico abbà il sigillo di una forma di orazione quasi sacra, e fu probabilmente il ricordo di Gesù, che in questa maniera santificava l’invocazione, a preservare il termine aramaico nell’uso delle chiese di lingua greca» (La teologia dell’apostolo Paolo, trad. it. Paideia, Brescia, 1999, p. 207).

È davvero difficile, su queste basi, pensare che Gesù intendesse riferirsi a un “Padre-Padrone”, chiamandolo col termine abbà.