Osip Mandel’štam è un poeta difficile, ma che ripaga il lettore con versi luminosi e felici, come cristalli che emergono da un mare opaco (quello della Storia crudele che lo inghiottì):
Forse, più d’ogni cosa prediligo
l’esile croce e una via segreta.
Nacque a Varsavia, nella notte fra il 3 e il 4 gennaio del 1891, in una famiglia della buona borghesia ebraica, ormai secolarizzata e priva di interessi religiosi, con la quale si trasferì poi, in tenerissima infanzia, nella città più sontuosa ed europea di tutte le Russie: San Pietroburgo. Là cominciò il suo apprendistato di poeta, battezzato da Viaceslav Ivanov e dai circoli acmeisti, con frequenti incursioni all’estero (Helsinki, Heidelberg, Parigi, ma anche la Svizzera e l’amata Italia, la cui lingua gli sembrava «compagna del Petrarca… del tutto assurda… dolce-salata»).
Si convertì al cristianesimo nel 1911, entrando a far parte della chiesa metodista. Non fu una scelta facile, ma nemmeno casuale.
Come scrive Sergej S. Averincev, in un saggio denso e penetrante, «il poeta non rinnegò il proprio ebraismo, anche se aveva nei confronti di esso un atteggiamento di estrema ambivalenza… ma la sua religione, che in un primo tempo gli aveva ispirato rispetto come “monoteismo pratico”, a un certo punto venne respinta, una volta per tutte, come possibile cammino. Qualsiasi eccessiva vicinanza al “mondo uterino” del giudaismo, al “caos” materno, viene assimilato da Mandel’štam all’immagine dell’incesto: è il “sole nero di Fedra” – l’inversione della continuità storica» (Annunzio e destino di Osip Mandel’štam, trad. it. in Dieci poeti. Ritratti e destini, Milano 2001, pp. 157-222: cit. a p. 184).
Ci si può chiedere cos’abbia spinto il poeta, in particolare, verso la confessione metodista. Averincev rifiuta l’ipotesi di un motivo “grossolanamente pratico”: «se era per andare d’accordo con le autorità dell’Impero russo, sarebbe stato più semplice farsi ortodosso». Oltretutto, nell’intera produzione poetica di Mandel’štam, il tema del cristianesimo appare inestricabilmente legato a motivi cattolici (come del resto in Ivanov), mentre il protestantesimo viene genericamente presentato sotto una luce cattiva («Qui, i parrocchiani son figli della polvere, / e lavagne con numeri al posto delle immagini»), e questo anche dopo la conversione.
«Di fatto – spiega Averincev, abbozzando una soluzione all’enigma – egli venne a trovarsi non dentro il protestantesimo, ma in mezzo ad entrambe le altre confessioni religiose, quelle che veramente lo toccavano nell’anima e ispiravano la sua poesia. In rapporto all’ortodossia e al cattolicesimo, il battesimo presso i metodisti equivale a un’“opzione zero”», forse a un «rinvio della scelta», ma più probabilmente a un’adesione prima di tutto culturale, nel senso più vitale ed “oggettivo” della parola, dettata da un profondo e autentico amore per
Le eterne cattedrali della Sophia e di Pietro,
depositi dell’aria e della luce,
granai del bene universale
e aie del Nuovo Testamento.
È interessante pensare a questa condizione, così all’incrocio dei venti, come ad un segno: un’anticipazione profetica di quel che accadrà un giorno, se è vero quanto dice Paolo nei capitoli 9-11 della sua Lettera ai Romani (soprattutto 11,25-32). Non si tratta di un azzardo esegetico: quando un figlio di Israele si rivolge a Cristo, accadono sempre strane cose. A conferma di questo basta andare alle parole “penitenti” di Mandel’štam stesso, nella poesia Il bordone (Posoch):
Mio bordone, mia libertà,
cuore stesso dell’esistenza,
ma quando la mia verità
diventerà del popolo la stessa?
Mai mi sono inchinato alla terra
prima di ritrovare me stesso.
Ho preso il bordone, e tutto allegro
sono andato nella Roma lontana.
Mandel’štam è stato capace di “profezia” anche nel suo senso minore, come quando vide aleggiare «il cieco spirito del grosso / Lutero sulla cupola di Pietro». O come quando, in un discorso del 1915 su Puškin e Skrjabin, di cui restano frammenti, si riferì alla Nona sinfonia di Beethoven come all’incarnazione della “gioia cattolica”: un’osservazione che parrebbe inopinata, se non fosse che di lì a cinquant’anni esatti (fine 1915-fine 1965) proprio quella sinfonia sarebbe stata eseguita alla chiusura del Concilio Vaticano II.
Gli fa eco una gioia a caro prezzo, oltre le pieghe della Storia: quella segnalata con grazia dall’introduzione alle memorie di Nadežna Mandel’štam, moglie del poeta a lui fedelissima:
«Nadežna Jakovlevna, a un certo punto delle sue care memorie, lo definisce “infinitamente zizneradostnyi”, parola che di solito vien resa con “allegro” o “gioioso”, equivalenti piuttosto scialbi dell’originale che letteralmente significa “contento della vita”. Pecal’ moja svetla, scriveva Pushkin: “La mia tristezza è luminosa”; e Mandel’štam poteva usare, e di fatto usò, questo verso. L’ebreo convertito tentava di trovare la fonte della sua gioia in un contesto cristiano. L’arte cristiana è gioiosa perché è libera ed è libera perché Cristo è morto per redimere il mondo. Non è necessario servirsi dell’arte per morire o per salvare il mondo, perché sono faccende, per così dire, già in parte risolte».
Alcuni testimoni della Kolyma descriveranno il poeta nei suoi ultimi giorni, mentre «consolava i prigionieri cantando traduzioni di Petrarca». Leggende fiorite attorno a un poeta – si dirà. Ma forse dietro la sua tristezza luminosa agì davvero una gioia che non è di questo mondo.
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