di Teodorico da Castel San Pietro
L’articolo corrisponde alla voce «Ebrei, Epistola agli», in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948-1954, vol. V, coll. 17-25.
[È l’]ultima lettera dell’epistolario paolino canonico, indirizzata, secondo i più, a giudeo-cristiani. Sotto vari aspetti si distacca dalle altre, sollevando problemi non ancora risolti dalla critica.
1. Indole letteraria
L’Epistola agli Ebrei [Eb] ha una propria e inconfondibile fisionomia letteraria. È priva di certi elementi epistolari, quasi costanti nelle lettere paoline: indirizzo, saluto e benedizione augurali, presa di contatto con la comunità destinataria. Questa si delinea, a tinte piuttosto sfumate, soltanto nel corso dello scritto. I primi versetti (1,1-4), che vengono talvolta considerati come prologo, sono una decisa entrata nel vivo dell’argomento. Alla fine, pure non mancando un generico saluto (13,24) e auguri di prosperità spirituale (13,20 sg.) e di grazia (13,25), scarseggiano i segni d’intimità: poche le notizie personali (13,19.23); non saluti a o da persone determinate: le «guide» sono nominate in gruppo (13,24), come in gruppo salutano «quelli dell’Italia» (ibid.). Non si può dire, però, che lo scrivente non abbia davanti a sé una comunità determinata e che questa non gli sia sufficientemente nota nei suoi precedenti religiosi.
Eb segue uno schema: i singoli punti non vengono, in genere, toccati occasionalmente, ma secondo un ordine prestabilito; anche se non è sempre facile seguire il filo conduttore. Non c’è la consueta distinzione tra parte dogmatica e parte morale: le applicazioni pratiche seguono passo passo lo svolgimento del tema speculativo. Nel cap. 13 si ha una serie di brevi raccomandazioni morali, in mezzo alle quali appare il motivo dogmatico quale fondamento (13,9-15).
Ciò premesso, ci si domanda se Eb sia veramente una lettera o non piuttosto un trattato dogmatico o un’omelia. S’è pensato anche che la forma primitiva dello scritto sia stata alterata con un’aggiunta epistolare rappresentata dal cap. 13, o, almeno, da 13,18-25. Ma tutto il cap. 13 presenta uno spiccato carattere di unità e ha tono perfettamente epistolare. Esso, poi, per la lingua, per lo stile, per la teologia sacrificale (13,10-15), collima con il resto dello scritto, che ne è quasi il presupposto necessario. Così 13,2 sg. non è che il suggerimento di continuare nella condotta che la comunità tenne fino dai primi giorni (10,32 sgg.); 13,7 suppone 2,3; com’è palese l’allusione di 13,13 a 11,26; di 13,14 a 11,13-16 e 12,22. E cf. 13,4 e 12,16; 13,10 e 8,4 sg.; 13,20 e 12,14; 7,22; 9,12 (C. Spicq).
Ma anche fuori del cap. 13 si trovano formole come le apostrofi «fratelli» (3,12; 10,19), «fratelli santi» (3,1), «carissimi» (6,9), che non s’addicono a un trattato. Così pure 6,1 sg. ; 9,5 e 11,32 fanno pensare più a chi scrive una lettera, e cerca d’essere breve il più possibile (13,22), che a chi fa un’omelia. D’altra parte, di coloro a cui s’indirizza l’autore conosce le condizioni spirituali (5,11-14; 6,9-12), i pericoli a cui si trovano esposti (2,1 sgg.; 3,12 sg.; 4,1.11; 10,25 sgg.), e le buone azioni compiute (6,11; 10,32 sgg.).
E tuttavia, che Eb abbia qualcosa di più solenne e di meno epistolare lo dice lo scrittore stesso, definendola un «discorso d’esortazione» (13,22) e ricorrendo di frequente ad espressioni proprie dello stile oratorio: 2,5; 5,11 ; 6,9; 7,9; 8,1; 9,5; 11, 32. Si comprende, così, l’indecisa posizione di J. Moffatt (Introduction to the Literature of the New Testament, 3a ed., Edimburgo 1918, p. 428 sgg.), di O. Michel, di P. Feine e J. Behm (Einleitung in das Neue Test., 8a ed., Lipsia 1936, p. 215 sg.), di H. Windisch, di P. Bonnetain (Grâce, in DBs, III, col. 1060) e d’altri, che, con sfumature diverse, vedono in Eb un’omelia in veste di lettera o uno scritto che non è né lettera vera e propria né omelia. Ma queste tracce di stile oratorio nella veste epistolare non provano che si trattasse, originariamente, di un discorso, chiuso poi nel quadro di una lettera, potendosi il fenomeno spiegare per le abitudini dello scrittore alla parola viva.
2. Contenuto e caratteristica dottrinale
Benché Eb non distingua nettamente una parte dottrinale o speculativa e una morale o pratica, una preponderanza dell’esposizione dottrinale deve riconoscersi in 1,1 – 10,18, mentre da 10,19 alla fine prevale l’insegnamento pratico, che diviene quasi esclusivo nel cap. 13.
Nella prima parte (1,1 – 10,18) due sono i temi dominanti: quello cristologico e quello sacerdotale. Il primo si svolge in un confronto tra il Figlio e gli angeli e (meno spiccatamente) tra Mosè e Cristo; per finire poi in un parallelo tra le due economie, tra l’antico e il nuovo popolo di Dio (1,4 – 4,13). Il tema sacerdotale, introdotto in 4,14 sgg., viene sviluppato in 5,1 – 10,18, nel suo duplice aspetto, di sacerdozio considerato in se stesso (capp. 5-7) e di sacrificio (9,1 – 10,18). Nel cap. 8, che è quasi un intermezzo, il sacerdozio di Cristo è concepito in rapporto al tabernacolo vero e all’alleanza nuova. Nella seconda parte, in cui non mancano spunti dottrinali (per esempio, 12,18-29; 13,9-15), la grande esortazione alla perseveranza viene ancorata, prima (10,19-39), alla dottrina del sacerdozio e del sacrificio di Cristo; quindi, corroborata con gli esempi di fede dei giusti del Vecchio Testamento (cap. 11), con l’esempio di Cristo e le ragioni profonde della pedagogia divina (12,1-13). Segue ora un’analisi più particolareggiata.
Parte prima (1,1 – 10,18): superiorità della nuova economia, dedotta, particolarmente, dalla dignità del Figlio, inviato di Dio, mediatore e sacerdote che ha immolato se stesso. Dopo l’introduzione del tema (1, 1-3), si hanno 3 sezioni:
A) Prima sezione (1,4 – 2,18): il Figlio, per questo titolo, è infinitamente superiore agli angeli, che sono servi (1,4-14); onde il dovere d’accogliere con maggiore impegno la salute annunciata da lui (2,1-4); se egli per poco è apparso al di sotto degli angeli, per farsi in tutto simile ai fratelli, resta, però, che a lui, non agli angeli, tutto è stato assoggettato (2,5-18).
B) Seconda sezione (3,1 – 4,13): l’accenno a Mosè, servo, mentre Cristo è Figlio nella casa di Dio (3,1-6), prelude a una diffusa applicazione pratica, in cui si mettono l’uno di fronte all’altro il vecchio e il nuovo popolo di Dio: questo deve rispondere con docilità, mentre ancora perdura l’«oggi» della divina chiamata (3,7-14), per non venire, come il popolo ribelle del deserto, escluso dal riposo divino (3,15 – 4,10); viva, infatti, e operante è la parola di Dio, e a lei nulla può resistere o rimanere nascosto (4,11-13).
C) Terza sezione (4,14 – 10,18): il sacerdozio e il sacrificio di Cristo vengono paragonati con il sacerdozio e i sacrifici levitici:
a) Cristo si presenta con tutti i requisiti per un legittimo ed efficace sacerdozio, primo quello d’esservi stato chiamato da Dio (4,14 – 5,10);
b) nonostante l’immaturità dei lettori, non va abbandonato questo tema per tornare ai «primi elementi». La promessa giurata da Dio ad Abramo alimenta la speranza, che, quale àncora, penetra oltre il velo dove Cristo ci ha preceduti (5,11 – 6,20);
c) il misterioso Melchisedec, al quale anche Levi s’inchinò, per dir così, dai lombi d’Abramo, prefigurava Cristo, che è sacerdote, non per discendenza carnale, ma in virtù di un giuramento divino, e in eterno: sacerdote quale occorreva a noi, santo, incontaminato, non bisognoso, lui pure, d’espiazione (7,1-28);
d) Egli è ministro del tabernacolo vero, di cui quello mosaico era un’ombra, ed è mediatore di una migliore alleanza, che si sostituisce all’antica, inutile e sorpassata (8,1-13);
e) il tabernacolo mosaico, con le sue parti e i sacrifici che vi si offrivano, aveva il compito di preparare all’avvento di Cristo, che, come pontefice dei beni futuri, è entrato per sempre nel santuario celeste, in virtù del proprio sangue, con il quale le stesse cose celesti vengono purificate. Questo sacrificio, a motivo della sua efficacia, non ammette ripetizioni, mentre quelli levitici venivano incessantemente rinnovati, perché incapaci di purificare le coscienze (9,1 – 10,18).
Parte seconda (10,19 – 13,25): l’alleanza nuova esige perseveranza nella fede e nella pratica delle altre virtù. Si distinguono 2 sezioni e l’epilogo:
A) Prima sezione (10,19 – 12,29): esortazione alla perseveranza:
a) Occorre perseverare per godere i vantaggi del sacrificio di Cristo; per chi ne calpesta il sangue non v’è più sacrificio d’espiazione, ma solo paurosa attesa del giudizio di Dio e del fuoco vendicatore. Rammentino i lettori la generosità dei primi giorni della loro illuminazione, per non venir meno ora che la meta è vicina (10,19-39);
b) la fede (11,1-3) fu attuata dai patriarchi (11,4-22), da Mose, da Giosuè e dai pochi che li seguirono con docilità (11,23-31), dagli eroi comparsi dal tempo dei Giudici ai Maccabei (11,32-38). Eppure i giusti del Vecchio Testamento non dovevano conseguire le promesse senza di noi (11,39 sg.);
c) più ancora deve stimolarci a perseverare l’esempio di Cristo e il carattere paterno della disciplina (o castigo) a cui Dio ci sottopone come un padre i propri figli (12,1-13);
d) fedeltà alla grazia nella concordia e nello studio del bene comune (12,14-17). Indole diversa e più impegnativa della nuova alleanza e dovere della docilità verso colui che ci parla dal cielo, offrendoci un regno che non vien meno (12,18-29).
B) Seconda sezione (13,1-17): carità fraterna, ospitalità, solidarietà con i perseguitati e i sofferenti, rispetto del matrimonio, fuga dell’avarizia e fiducia in Dio; ricordare gli esempi e gli insegnamenti delle «guide» (13,1-9). Del nostro altare non possono cibarsi «i cultori del tabernacolo», perché Gesù è vittima per il peccato. Andiamo a Gesù fuori dell’accampamento; ché non abbiamo una città permanente quaggiù, ma cerchiamo quella futura (13,10-15). Beneficenza, liberalità e obbedienza alle guide (13,16 sg.).
C) Epilogo (13,18-25): domanda di preghiere, augurio, dossologia, raccomandazione d’accogliere benevolmente la lettera, non lunga, progetto di viaggio con Timoteo, che è stato dimesso, saluti.
Da questa scheletrica esposizione si scorge l’importanza dottrinale di Eb. Essa ci porta in un campo nuovo, sotto molti aspetti, relativamente alle lettere di s. Paolo e al Nuovo Testamento in generale; quantunque coincidano le grandi linee e siano gli stessi i grandi fatti storici sui quali riposa la dottrina.
Si è considerata spesso questa lettera come una fredda speculazione sul sacerdozio e sul sacrificio di Cristo (concepiti a torto, da vari critici acattolici, come unicamente celesti), secondo i gusti di Filone Alessandrino. Talvolta s’è messo in prima linea il pensiero cristologico, sopravvalutando il tema del Figlio e degli angeli, che, al contrario, dopo il cap. 2 viene abbandonato.
Sembra piuttosto che l’idea centrale sia quella di alleanza nuova. Questa è confrontata sotto vari aspetti con l’antica, per uno scopo pratico: la perseveranza dei lettori nella vita di questa nuova economia religiosa. L’idea della superiorità del Nuovo Testamento corre per tutta la lettera, riducendo a unità i suoi vari aspetti dottrinali, come i singoli argomenti di una grande dimostrazione. In questo quadro vanno considerati il raffronto tra gli angeli, ministri dell’antica, e il Figlio, autore della nuova Rivelazione divina; l’antitesi tra Mose, servo, e Cristo, Figlio; l’analisi profonda della distanza tra il sacerdozio levitico e quello di Cristo, tra i sacrifici dell’uno – vari, materiali e inutilmente ripetuti – e quello dell’altro, che non ammette ripetizioni in forza della sua dignità e del suo valore infinito; il contrasto tra il Sinai mosaico e il Sion, la Gerusalemme celeste, il regno incrollabile di Dio; finalmente, l’insistenza sul dovere di una maggiore santità di vita nei favoriti di doni tanto meravigliosi.
3. Autore
Negano generalmente la paternità paolina protestanti e razionalisti, mentre per i cattolici è questione soltanto del grado d’autenticità, con tendenza ad orientarsi sempre più verso la distinzione – peraltro assai antica – tra contenuto e forma, facendo una parte più o meno larga a un redattore.
Nell’antichità cristiana si trovano, accanto a decise affermazioni, anche dubbi e negazioni dell’autenticità paolina. Origene (in Eusebio, Hist. Eccl., VI, 25) proponeva di attribuire all’Apostolo il contenuto, ad altri la forma. Clemente Alessandrino (ibid., IV, 14) opinava che il greco dell’epistola fosse traduzione di un originale ebraico (aramaico). In occidente si è giunti più oltre, o tacendo di essa (Frammento Muratoriano, Ireneo [?], Ippolito di Roma [?]), o escludendola positivamente dal gruppo delle paoline (il prete romano Caio, in Eusebio, Hist. Eccl., VI, 20; Tertulliano, De Pudicitia, 20). Più tardi ignorano Eb il canone mommseniano (ca. il 360), il canone del cod. claromontano, s. Ottato di Milevi e qualche altro; non la commentano l’Ambrosiastro e Pelagio, mentre s. Girolamo afferma più volte che i Latini non ritengono Eb di s. Paolo, ma non esprime una decisa opinione personale (cf. L. Méchineau, L’epistola agli Ebrei secondo le risposte della Commissione Biblica, Roma 1917, pp. 103-121).
Contro queste incertezze o negazioni stanno molte testimonianze favorevoli delle chiese orientali e di parte delle occidentali. Già il papiro 46 (collezione Chester Beatty) pone Eb tra la lettera ai Romani e la prima ai Corinti. Le stesse ingegnose ipotesi di Panteno, Clemente Alessandrino, Origene per spiegare le peculiarità di essa dimostrano la convinzione loro e della loro scuola circa l’origine paolina, ritenuta pure dai Padri antiocheni, cappadoci, siri; onde può affermare s. Girolamo (Ep. 129 ad Dardanum, 3: PL 22, 1103) che tutto l’Oriente accetta Eb come di s. Paolo. Una Simile unanimità è mancata in Occidente; ma generalizza troppo s. Girolamo aggiungendo (ibid.): «Quod si eam Latinorum consuetudo non recipit inter Scripturas canonicas…»; il che investe non soltanto l’autenticità, ma anche la canonicità. Si pronunciano, invece, in favore dell’una e dell’altra s. Ilario, Lucifero di Cagliari, s. Ambrogio, Rufino, s. Padano, Priscilliano, Mario Vittorino. S. Agostino, dal 409 in poi, non cita più Eb sotto il nome di Paolo; ma nel 397 aveva enumerate, di proposito, 14 lettere di s. Paolo, né, in seguito, annetteva soverchia importanza alle negazioni di alcuni.
I Concili d’Ippona (393) e di Cartagine (397), ai quali partecipò s. Agostino, avevano accettato, con una formola di compromesso, l’autenticità paolina di Eb (Enchiridion biblicum, Roma 1927, nn. 12, 14); come fecero più decisamente Innocenzo I (loc cit., n. 16), il Concilio Cartaginese del 419 (loc. cit., n. 14). Nonostante qualche leggero strascico, i dubbi non ritornarono in campo fino al sec. XVI. Il Concilio di Trento. sess. IV, nel decreto De Canonicis Scripturis, non risolve la questione dell’autenticità.
Già gli alessandrini, attorno al 200, avevano ravvisato le differenze di forma contro l’autenticità paolina, riprese e amplificate dai moderni: assenza del nome e del preambolo epistolare, scarsezza delle notizie personali e laconicità della formola conclusiva, differenze di lingua e di stile. Poteva suggerire all’autore di mantenersi nella penombra, celando il nome e il resto, una saggia prudenza e tattica d’apostolato. S’aggiunga l’indole stessa del tema e forse la redazione da parte di altri.
Le diversità di lingua e di stile perdono pressoché ogni forza, se si ammette, oltre la parte di Paolo, quella di un redattore al quale spetterebbe la veste letteraria di Eb. Essendo poi il contenuto notevolmente diverso da quello delle altre lettere paoline, occorrevano, per idee nuove, vocaboli nuovi, o, almeno, con nuovo significato. Non debbono, quindi, troppo impressionare i 168 hapax, i 292 vocaboli che non s’incontrerebbero altrove in s. Paolo, le peculiarità morfologiche e sintattiche, la preferenza data a Iēsoûs, Iēsoûs Christós, in luogo del paolino Christòs Iēsoûs. Altrettanto dicasi del possesso della frase e del periodo greco, per cui Eb eccelle tra gli scritti del Nuovo Testamento, compresi quelli di s. Luca. Non mancano d’altronde né difetti né somiglianze con le altre lettere di s. Paolo (cf. B. Heigl, Verfasser und Adresse des Briefes an die Hebräer, Friburgo in Br. 1905, pp. 51-92). Anche l’innegabile diversità delle formole introduttorie nelle citazioni bibliche (légei, p. es., in luogo del paolino gégraptai) può ascriversi a un redattore. L’attribuzione a Dio di ogni parola della Bibbia, tacendosi generalmente il nome degli autori umani, non importa una concezione diversa dell’ispirazione; ma, come l’imprecisa indicazione del luogo citato, si spiega per la condizione religiosa dei destinatari (giudeo-cristiani). Ammessa una maniera piuttosto alessandrina che palestinese di usare la Bibbia, non si può argomentare da ciò contro la sostanziale origine paolina dello scritto (W. Léonard, The Authorship of the Epistle to the Hebrews, Roma 1939, pp. 265-87).
Pretendere che Eb, per essere paolina, non possa rappresentare, sotto l’aspetto della dottrina, che una rielaborazione delle lettere precedenti, sarebbe costringere in limiti troppo angusti il genio religioso di Paolo, o, meglio, la Rivelazione divina. Così, non prova nulla il modo diverso di presentare la legge, la figura di Cristo, la Fede ecc. Nonché contraddirsi, questi aspetti diversi, nuovi anche, sono complementari e servono a integrare l’unico quadro della Rivelazione divina (E. Jacquier, Histoire des livres du Nouveau Test., I, 10a ed., Parigi 1924, pp. 471-476; J. Bonsirven, Hébreux, Parigi 1943, pp. 140-48).
La dottrina di Eb e la sua maniera di usare la Bibbia dimostrerebbero, secondo alcuni, la dipendenza da Filone. Da lui sarebbero derivati il gusto per l’allegoria, la personificazione della parola di Dio (vd. 4,12 sg.), la concezione della coscienza, la dottrina sul Figlio di Dio, sul sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedec, ecc. Ma in Filone l’allegoria è quasi fine a se stessa, o uno sforzo per adattare il testo biblico ad un sistema filosofico; mentre Eb considera persone e fatti del Vecchio Testamento, anzi il Vecchio Testamento nel suo complesso, in maniera quanto mai aderente alla vita religiosa, come tipi e figure della nuova economia. La verità storica, spesso dimenticata in Filone, è seguita nei suoi più minuti particolari, come fondamento della tipologia. Gli incontri tra Filone e Eb sono più di forma che di sostanza, essendo diversissimo lo spirito e il contenuto reale. Anche fuori del campo cattolico si delineano riserve, quando non addirittura una reazione contro il preteso filonismo di Eb, al quale aveva dato il via il lavoro di J.B. Carpzov, Sacrae exercitationes in s. Pauli Epistolam ad Hebraeos ex Philone Alexandrino (Helmstadt 1750; cf. W. Léonard, op. cit., pp. 188-215; J. Bonsirven, op. cit., pp. 148-55).
Non ci sono indizi interni decisivi pro o contro l’autenticità paolina. Troppo vaghi 1,1 sg.; 5,12 sgg.; 8,1-5; 9,1-10.26; 10,1 sgg.; e si riferiscono semmai alla data di composizione. Nemmeno l’oscuro accenno a Timoteo «dimesso» e il progetto di viaggio con lui (13,23) sono conclusivi per la paternità paolina. Né, viceversa, può invocarsi 2,3 come inconciliabile con la missione apostolica e l’indipendenza della predicazione di Paolo: l’associarsi, con il «noi» (qui e altrove) ai lettori, è una forma di modestia, oppure suggerisce l’idea del nuovo popolo di Dio in opposizione all’antico (cf. 1,2).
Ci sono, dunque, reali difficoltà contro la paternità paolina in senso assoluto. Per questo oggi la maggioranza dei critici cattolici, mantenendo la parte sostanziale di Paolo, inclina ad affiancargli un redattore. Questa soluzione è quasi insinuata nella risposta della Commissione biblica del 24 giugno 1914 (Enchiridion biblicum, nn. 429-31; cf. L. Pirot, Hébreux, in DBs, III, coll. 1436-1440). La difficoltà sta nell’individuare questo personaggio misterioso. La molteplicità stessa delle opinioni mostra quanto poco esse siano fondate: Apollo, Aristione, Aquila e Priscilla (secondo A. Harnack, questa particolarmente, per qualcosa di femminile diffuso nella lettera), Sila, il diacono Filippo, Pietro stesso, sono stati proposti dagli uni (non cattolici) come autori, dagli altri come redattori. Già Clemente e Origene fanno i nomi di Luca e di Clemente Romano, come traduttori o come redattori; mentre Barnaba fu ritenuto autore da Tertulliano e da qualche altro. Ma l’ipotesi di una traduzione è troppo in contrasto con il greco della lettera, quasi immune da tracce della pretesa lingua originale. D’altra parte, le affinità di forma con gli scritti di Luca e di Clemente sono troppo superficiali, e mancano con la lettera attribuita a Barnaba. Ma poiché questa non è sua, rimane la possibilità d’attribuirgli la redazione di Eb: Barnaba era giudeo ellenista, al corrente del rituale mosaico, perché levita; a conoscenza della letteratura alessandrina, come cipriota; ben visto, infine, nell’ambiente palestinese.
4. Canonicità
A torto il card. Gaetano ed Erasmo (L. Pirot, op. cit., col. 1424) vedevano un’interdipendenza tra l’autenticità paolina e la canonicità di Eb, di modo che questa non sarebbe canonica se non fosse di Paolo. Solo incidentalmente l’autorità divina di uno scritto dipende dalla sua autenticità umana. Non è questo il caso. S. Girolamo, insistendo sulle difficoltà dei Latini a riguardo di Eb, lascia capire che queste toccavano anche la sua canonicità (Epist. 129 ad Dardanum, 3: PL 22, 1103). Infatti Eb è rigettata dal prete romano Caio nella disputa con il montanista Proclo; è passata sotto silenzio da molti latini dei secc. II e III (cf. supra). Per contro, la lettera è conosciuta, probabilmente, da s. Ignazio, dallo Pseudo-Barnaba, da s. Policarpo, dalla Didaché, e certo da Clemente Romano. Vestigia di essa si hanno anche in Giustino e nel Pastore di Erma. In una lettera dello gnostico Tolomeo, conservataci da s. Epifanio (Haer., 33, 3-7: PG 41, 557-68, particolarmente 564c e 565b) vi sono probabili allusioni all’epistola. Che l’accettasse s. Ireneo come canonica si sa da Eusebio (Hist. Eccl., V, 26: PG 20, 509b) e da qualche allusione nelle opere di lui. A Roma è citata da s. Ippolito, che però non la crede di Paolo, al dire di Fozio. La citano i Tractatus Origenis de Libris SS. Scripturarum (ed. P. Batiffol – A. Wilmart, Parigi 1900, p. 108) tra due passi di s. Paolo, ma attribuendola a Barnaba. Dopo la metà del sec. IV c’è unanimità anche in Occidente, nonostante qualche lievissima traccia degli antichi dubbi, che scompare con il decreto tridentino.
5. Destinatari, scopo e data di composizione
L’opinione che Eb fosse destinata ad etnico-cristiani, emessa da E.M. Röth nel 1836 e ripresa più tardi da E. Schürer, quindi da H. von Soden, E. Pfleiderer, R. Perdelwitz, M. Dibelius, J. Moffatt ed altri, tra i non cattolici; prospettata come possibile dai cattolici J. Quentel e A.M. Dubarle, è in contrasto con il largo uso della Bibbia, con le allusioni a persone, cose e fatti del Vecchio Testamento, con i raffronti minuziosi tra la vecchia e la nuova economia, con la mancanza d’accenni ad una conversione dal paganesimo, infine con il pericolo, combattuto dalla lettera, di un ritorno al giudaismo. Destinazione giudeo-cristiana importano positivamente l’accenno ai «Padri» (1,1), la nozione di popolo di Dio (2,17; 5,3; 7,27; 9,7; 11,25; 13,12), il diffuso parallelo con il popolo incredulo del deserto (3,7 – 4,13), la formola caratteristica spérma Abraám (2,16; cf. 11,11.18).
L’antichità cristiana non ha esitato sulla destinazione di Eb a fedeli venuti dal giudaismo, e ritenne pure che luogo di destinazione fosse la Palestina, anzi, più precisamente, Gerusalemme. Per questo secondo punto molti nomi sono stati fatti nei tempi moderni, perfino quello di Ravenna; ma due soli, oltre Gerusalemme, con una certa fondatezza: Alessandria e Roma. Per Alessandria il fondamento è assai labile: il colorito alessandrino della lettera. Per Roma si preme sull’accenno a precedenti persecuzioni (10,32 sgg.), sul saluto di «quelli dell’Italia» (13,24). Th. Zahn pensa a una minoranza della comunità di Roma, a cui si riferirebbe anche Rm 14,1.
Accettando la destinazione gerosolimitana, si spiega meglio l’uso continuo e minuzioso del Vecchio Testamento, l’allusione a particolari del culto giudaico, la laconica espressione che Gesù «patì fuori della porta» (13,12) e l’invito ad andargli «incontro fuori dell’accampamento» (13,13), il persistente pericolo di ricaduta nel giudaismo, le pressioni dei non convertiti che giungono talvolta alla violenza. La comunità destinataria ha già avuto dei martiri nella persona delle «guide» (10,32 sgg. e 13,7); mentre i fedeli non hanno ancora «lottato fino al sangue» (12,4), ma hanno subito spoliazione di beni e molteplici vessazioni (10,32 sgg.).
K. Bornhauser ritiene che Eb non sia indirizzata a tutta la comunità di Gerusalemme, bensì al gruppo di sacerdoti convertiti, di cui in At 6,7. La sua argomentazione, per quanto ingegnosa, non convince. Che la lettera sia indirizzata a tutta una comunità risulta dal cap. 13, che suppone varie categorie di persone, tra le quali anche le «guide» (vv. 7.17.24), distinte dalla massa dei lettori e superiori ad essa.
Scopo della lettera è quello, dunque, d’impedire un ripiegamento verso il giudaismo e rinfrancare nella fedeltà alla nuova alleanza, della quale si esaltano la dignità, il carattere definitivo e i vantaggi.
Quanto alla data di composizione pochi critici oltrepassano il 90, per la ragione che s. Clemente Romano (tra il 93 e il 97) usa quasi certamente Eb. Né manca, anche tra gli acattolici, chi resta entra il limite del 70. La maggioranza dei critici cattolici non va oltre il 66-67. Allo scoppiare, infatti, della guerra giudaica le condizioni dei giudeo-cristiani cambiarono radicalmente in Palestina: la comunità di Gerusalemme avrebbe cercato scampo altrove (a Pella, secondo Eusebio, Hist. Eccl., III, 5: PG 20, 221 sg.; ed Epifanio, Haer., 29, 7: PG 41, 401 sg.; 30, 2: PG 41, 408; De mensuris et ponderibus, 15: PG 43, 261). Inoltre, Eb suppone il culto giudaico praticato (9,25; 8,3 sgg., ecc.), in modo da costituire ancora un pericolo di seduzione. Che l’occasione sia stato il martirio di Giacomo fratello del Signore (62 ca.) non è senza fondamento, ma non si può dimostrare. Ci sarebbe stata, allora, una crisi nella comunità di Gerusalemme per fattori esterni e per discordie intestine. Le «guide» (13,17.24) potrebbero essere una specie di governo collegiale, nella vacanza (sembra parlarne Eusebio, Hist. Eccl., III, 11: PG 20, 245) tra la morte di Giacomo e l’elezione del successore Simeone. Ma siamo nel campo delle ipotesi; come quando si tenta di stabilire il luogo donde Eb sarebbe stata scritta partendo da 13,24, testo ambiguo anche grammaticalmente.
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