L’Epistola a Filemone

di Teodorico da Castel San Pietro

L’articolo corrisponde alla voce «Filemone, Epistola a», in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948-1954, vol. V, coll. 1294-1295.

[Si tratta di una] Lettera indirizzata da s. Paolo al discepolo e amico Filemone, a favore dello schiavo fuggitivo Onesimo.

Questo scritto, denominato spesso «biglietto», presenta tutti gli elementi protocollari di una vera lettera: indirizzo, augurio di grazia e di pace, elogio del destinatario (vv. 1-7), argomento trattato con relativa ampiezza (vv. 8-21), notizie, augurio finale (v. 22 sgg.). Il tono affettuoso e confidenziale avvicina questa, che è la più breve delle lettere paoline (più lunga, tuttavia, della Seconda e della Terza epistola di Giovanni, e di molti scritti dell’antichità che vanno sotto il nome di lettera), particolarmente all’Epistola ai Filippesi: saggio ambedue della delicatezza e della nobiltà di Paolo, che sa coltivare le amicizie senza abdicare alla propria autorità.

Onesimo, schiavo di un facoltoso cristiano di Colosse, convertito da Paolo probabilmente durante il ministero efesino (anni 53-56 circa), era fuggito dalla casa del suo padrone. Il nome di Onesimo («utile, fruttuoso»; cf. v. 11) era smentito dal fatto che egli aveva in più maniere, forse anche con il furto, danneggiato il proprio padrone. Mentre nella città dove s’era rifugiato (Roma, con maggiore probabilità) trepidava per le possibili ricerche della polizia, seppe che ivi era Paolo, l’amico del suo padrone. Non è escluso che Onesimo si sia, nella fuga, diretto appositamente dove sapeva di trovare l’Apostolo.

Questi lo tenne presso di sé, istruendolo intorno a quella religione nuova che poneva su uno stesso piano divino liberi e schiavi, affratellandoli in Cristo. La conquista non dovette riuscire difficile, data la bellezza (soprattutto per uno schiavo) di questo ideale, la bontà del predicatore, l’esperienza già fatta da Onesimo della mitezza del suo padrone, cristiano. Né va esclusa, in Onesimo, una segreta speranza che l’abbracciare la religione di Paolo e di Filemone fosse la via buona per uscire dalla sua umiliante condizione sociale.

Paolo pensò, in un primo tempo, di tenere Onesimo presso di sé (v. 13); ma ciò gli parve poco delicato verso l’amico; al quale voleva, invece, offrire l’occasione non solo di compiere un atto di clemenza, quale poteva fare anche un pagano, ma di attuare nella maniera più generosa i principi della morale cristiana nella vita sociale, accogliendo Onesimo, non più come schiavo, ma come fratello in Cristo. Paolo poi se ne rendeva garante e argutamente si dichiarava anche pronto a pagare i danni che lo schiavo aveva arrecato, se non bastava il fatto che Filemone gli doveva se stesso, ossia il suo essere di cristiano (vv. 18 sg.). Non domandava, in termini espliciti, l’affrancamento dello schiavo; ma dicendo di ritenersi sicuro che Filemone avrebbe fatto assai più di quello che gli veniva richiesto, lasciava capire chiaramente quale fosse la meta a cui tendeva il cristianesimo in rapporto alla schiavitù, pur senza propugnare mezzi violenti e rivoluzionari. L’abolizione della schiavitù doveva essere il frutto di una lenta ma profonda trasformazione della coscienza collettiva.

L’affinità dell’argomento ha suggerito il confronto di Fm con due lettere indirizzate da Plinio il Giovane a Sabiniano (Opera, ed. A.M. Guillemin, vol. III, Parigi 1928, pp. 114 sg. e 118). Nella prima, Plinio s’interpone a favore di un liberto fuggito dalla casa di Sabiniano; nella seconda, ringrazia costui per avere aderito alla sua preghiera. Il caso riguarda, dunque, non uno schiavo, ma un affrancato. Inoltre, Plinio lascia capire che a una ricaduta la punizione potrà venire applicata: ciò esula dalla prospettiva di Fm, che contempla rapporti del tutto nuovi tra padrone e schiavo, ispirati da amore reciproco. La distanza tra il servo e il padrone resta intatta nelle lettere di Plinio; né poteva consentire di accorciarla quella virtù fondamentale per uno stoico che era il culto di ciò che conviene (tò prépon).

Anche sotto l’aspetto dell’abilità nel trattare l’argomento, della spontaneità e dell’arguzia, Fm supera lo scritto pagano, restando un capolavoro d’arte epistolare (E. Renan, L’Antéchrist, Parigi 1873, p. 96), e soprattutto di dignità e di nobiltà cristiana, fondata sui saldissimi motivi della partecipazione alla vita divina in Cristo. Fm doveva offrire alle future generazioni un esempio pratico dell’applicazione di questi princìpi.

L’autenticità paolina è stata messa in dubbio solo da qualche seguace della critica più radicale, come F.C. Baur, C. Weiszaecker, B. Steck; mentre gli altri sono d’accordo nel riconoscere che Fm porta in sé le migliori garanzie della propria origine (cf. P. Feine – J. Behm, Einleitung in das Neue Test., VIII ed., Lipsia 1936, p. 195). Che essa sia stata poco citata nell’antichità non può recare meraviglia, tenuto conto della sua brevità, della destinazione a un privato e del fatto che il suo substrato dottrinale si raccoglieva, anche più chiaramente, da altre lettere paoline. S. Girolamo parla in termini generici di qualche dubbio sorto circa l’autenticità paolina, con riflessi sul carattere sacro dello scritto: ciò che non impediva, però, il consenso della Chiesa sull’uno o sull’altro punto (In Epist. ad Philem.: PL 26, 635-638). Espliciti riconoscimenti si hanno nel Frammento Muratoriano (Enchiridion biblicum, Roma 1927, n. 4), in Origene (In Ier., 19, 2: PG 13, 501) e in Tertulliano (Adv. Marcionem, 5, 21: PL 2, 524 [556]).

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Questa voce fa parte del Progetto Enciclopedia Cattolica.

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