di Teodorico da Castel San Pietro
L’articolo corrisponde alla voce «Romani, Epistola ai», in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948-1954, vol. X, coll. 1279-1282.
[Si tratta della] Prima lettera di s. Paolo nell’ordine della Volgata e del canone tridentino, la più importante per la teologia paolina.
1. L’origine
Paolo, in procinto di recarsi a Gerusalemme per portarvi le elemosine raccolte nelle chiese della Macedonia e dell’Acaia (15,25 sg.; cf. 1Cor 16,1 sgg.; 2Cor 8,1-6, ecc.), pensa ad un viaggio che, passando per Roma, l’avrebbe condotto fino alla Spagna (15,23-28); mantenendosi fedele alla sua norma di «non costruire sul fondamento altrui» (15,20).
Secondo la cronologia più comunemente accettata, Rm è opera dell’inverno 57/58, quando Paolo poteva dirsi tranquillo in rapporto alle questioni che avevano agitato la comunità di Corinto, mentre era preoccupato dell’accoglienza che avrebbe ricevuto a Gerusalemme.
2. I destinatari
La comunità di Roma, alla quale Paolo scriveva, risultava composta, in maggioranza, di etnico-cristiani. La minoranza di ebrei convertiti, se creava qualche difficoltà alla buona armonia tra le due parti (cf. specialmente 14,1-15; 13), non era faziosa come altrove.
Che al momento in cui venne scritta Rm la comunità cristiana di Roma fosse agitata da fazioni e da errori dottrinali, sembra contraddetto dal linguaggio sobrio della lettera nella questione dei «deboli» e dei «forti» (capp. 14 e 15), con avviso ai secondi di usare un caritatevole riguardo verso i primi, legati ancora da certe osservanze riguardanti i tempi, i cibi e simili. Non si trattava in ogni caso di giudaizzanti aggressivi e intransigenti come quelli di Galazia: è piuttosto agli etnico-cristiani che occorre raccomandare la carità verso l’altra parte che, nonostante la differente posizione di coscienza, non è per nulla appartata dal resto della comunità.
3. L’indole e lo scopo
La polemica di Rm conserva un tono moderato, e si rivolge più alle idee che agli uomini. Anche nei capp. 1-2 e 9-11, dove il linguaggio è più vivace, lo scrittore vede davanti a sé, più che una persona o un gruppo di persone reali, un giudeo o un pagano in astratto, quali rappresentanti di due situazioni spirituali.
Più ancora dell’indole polemica, sono accentuati in Rm i caratteri propri del trattato. Sintesi felice di un lato sostanziale della teologia paolina, non può però considerarsi come un compendio o come una esposizione sistematica della medesima. S. Paolo sembra quasi in dovere di scusarsi d’ardire di scrivere; pur insinuando il motivo del suo interesse per la comunità di Roma (15,17 sg.), che conosce solo indirettamente. Composta, in prevalenza, di elementi venuti dal paganesimo, essa rientra nel campo di lavoro affidatogli da Gesù (cf. At 22,18-21) e riconosciutogli dagli apostoli che erano le «colonne» (Gal 2,7 sgg.). Vuole preparare gli animi dei lettori a una sua visita alla loro comunità, che considera come il cuore della Chiesa di Cristo, porzione eletta del proprio apostolato, benché non vi abbia ancora lavorato personalmente. Più che cattivarsi la benevolenza dei Romani, intende stabilire i punti più salienti delle future comunicazioni orali. I fedeli di Roma, con i quali non ha potuto finora incontrarsi a causa degli ostacoli frapposti all’adempimento del suo ardente desiderio (1,13) di apostolo delle Genti, debbono entrare il più intimamente possibile in comunione con il pensiero e con il cuore di lui, approfondire il senso del messaggio di salvezza universale, che da Roma si propagherà sempre più largamente nel mondo.
Che Paolo abbia inteso anche sopire qualche non grave dissenso tra i due elementi che, in proporzioni assai diverse, costituivano la comunità di Roma, è suggerito soprattutto dai capp. 14 e 15. Ma è un motivo secondario.
4. Il contenuto
Dopo l’esordio (1,1-17), si distinguono comunemente una parte dottrinale o speculativa (1,18 – 11,36) e una morale o pratica (12,1 – 15,13). Il ricchissimo contenuto di Rm esigerebbe una analisi più ampia; eccone i temi dominanti.
Nell’esordio e nel e prologo (1,1-17), Paolo, dopo un saluto solenne (vv. 1-7), elogia la comunità destinataria per la sua fede, della quale si parla ovunque, ed esprime il desiderio, fino ad allora contrastato, di recarsi a Roma, verso la quale lo sospinge la sua vocazione di apostolo delle genti (vv. 8-15). Segue nei vv. 16-17 il tema della lettera: il Vangelo è forza divina per la salvezza di tutti, mediante la fede, fonte di giustificazione.
Questo tema è ampiamente sviluppato nella parte dogmatica (1,18 – 11,36), che può dividersi in due sezioni principali, completate ognuna da una dimostrazione ricavata dalla Scrittura.
La prima sezione (1,18 – 3,31) sviluppa il concetto che la giustificazione è opera della giustizia di Dio, e si raggiunge solo mediante la fede. Senza di questa sono peccatori tanto i Gentili (1,18-32) che i Giudei (2,1-11): orgogliosi, questi ultimi, di una propria fallace giustizia; mentre vera giustizia non si può conseguire né mediante la legge né mediante la circoncisione (2,12-29). Se i Giudei hanno una posizione di privilegio rispetto ai Gentili nel fatto che a loro è stata affidata la Scrittura divina, questo non toglie che essi pure siano peccatori, come dichiara la stessa Scrittura (3,1-20). Soltanto per la fede in Gesù Cristo, che venne immolato per la nostra salvezza, sia i Gentili sia i Giudei sono giustificati: ciò toglie agli uni e agli altri ogni motivo di vantarsi delle proprie opere (3,21-31). A conferma che la sola fede opera la giustificazione viene allegato, dalla Scrittura, l’esempio di Abramo, padre di tutti i credenti: questi fu giustificato per avere creduto a Dio prima della legge e della stessa circoncisione, e indipendentemente dall’una e dall’altra (4,1-25).
La seconda sezione afferma che la giustificazione è riconciliazione con Dio, per virtù dell’Incarnazione del Figlio e dell’effusione dello Spirito Santo (5,1-11). Per questi atti dell’amore divino viene distrutto il male operato da Adamo in noi (5,12-21), siamo liberati dalla schiavitù del peccato, per vivere di una nuova vita in Cristo (6,1-23), e siamo pure liberati dalla schiavitù della legge. Questa era occasione di peccato, in quanto lo indicava ma non dava di per sé la forza di combatterlo e di evitarlo (7,1-15). Giustificati, noi siamo figli di Dio e, conseguentemente, eredi della gloria celeste (8,1-30): dono che nessuna forza al mondo può sciuparci (8,31-39).
Ciò che segue circa la infedeltà di Israele (9,1 – 11,36) può sembrare, a prima vista, una digressione sul soggetto; ma è da considerarsi, tutt’al più, come appendice, o meglio ancora come applicazione pratica, della dottrina precedentemente esposta. L’infedeltà e la conseguente riprovazione d’Israele non smentiscono la «giustizia» (come causa di giustificazione) e la fedeltà di Dio, perché il vero Israele, quello spirituale, consegue di fatto l’oggetto delle promesse divine e la giustificazione (9,4-29). che l’Israele carnale non ha raggiunto a causa dell’orgogliosa fiducia nella propria «giustizia» (9,30 – 10,21). Anziché venire frustrato, il disegno dell’amore e della misericordia di Dio si adempie in maniera anche più ampia, in quanto che la defezione d’Israele apre la via della salvezza alle Genti (11,1-24); né mancherà di adempirsi la promessa divina circa la salvezza di un resto dello stesso Israele (11,25-32). All’uomo non rimane, quindi, che ammirare l’imperscrutabilità e la ricchezza dei disegni di Dio, dal quale tutto è governato (11,33-36).
Nella parte morale (12,1 – 15,13) non si trova la disposizione logica e l’unità del soggetto della parte dogmatica; ma si sente qua e là che tutta la forza della esortazione deriva dal fatto che il cristiano è stato giustificato per virtù della «giustizia» amorosa di Dio. Perciò egli deve servire Iddio (12,1 sg.): servirlo nella persona dei propri fratelli, mantenendo in ogni cosa la moderazione e la carità (12,3-21). Per riguardo a Dio deve ubbidire alle autorità legittimamente costituite (13,1-7).
Legge suprema, o piuttosto, compendio della legge che deve regolare la vita del giustificato è l’amore (13,8-10). «Uomo della luce», deve evitare tutte le opere tenebrose, per rivestirsi del Signore Gesù Cristo (13,11-14). La legge dell’amore, che deve regnare sovrana tra i giustificati, suggerirà la comprensione e il compatimento tra i «forti» e i «deboli», vale a dire tra coloro che si sentono liberi da certi vincoli di osservanze legali e quelli che vi si sentono ancora sottoposti, e stimano peccato il comportarsi altrimenti. Non giudicare, perché tutti siamo di Dio, unico giudice (14,1-13), e fare attenzione a non colpire la coscienza debole del fratello, per cui Cristo è morto, sacrificando per questo, se occorre, anche la propria libertà (14,14-23). Dimenticare se stessi, per usare riguardo ai propri fratelli, a imitazione di Cristo, è condizione necessaria per l’unione di tutti i cristiani, senza distinzione di provenienza dalla circoncisione o dal paganesimo (15,1-12).
Dopo l’augurio della gioia e della pace nel credere (15,13), Paolo esprime il motivo per cui ha scritto la lettera: la sua missione di apostolo delle Genti (15,14-21); espone, quindi, i suoi progetti di viaggio: Gerusalemme, Roma, Spagna (15,22-29). Preghino, intanto, i lettori, affinché sia liberato dagli increduli che sono in Giudea e gli riesca bene la missione di Gerusalemme, per giungere felicemente a Roma e riposarvisi (15,30-32).
Concludono la lettera un nuovo augurio di pace (15,33); la raccomandazione della diaconessa Febe, latrice della lettera, e i saluti ai vari membri della comunità di Roma (16,1-16); le ultime raccomandazioni e i saluti da parte dei compagni di Paolo (16,17-24); la dossologia finale (16,25-27).
5. L’autenticità e l’integrità
Che Rm sia veramente di s. Paolo è negato soltanto da un gruppetto sparuto di critici radicali, quali B. Bauer e la scuola olandese (A. Pierson, S.A. Naber, W.C. Manen), rimasti senza molto seguito. Molteplici e antiche sono, a favore dell’autenticità, le testimonianze della tradizione: allusione presso i Padri Apostolici, citazioni nella lettera delle Chiese di Lione e di Vienne e negli scrittori gnostici, attribuzioni esplicite in s. Ireneo, Clemente Alessandrino, Tertulliano, Frammento muratoriano, ecc. Per gli indizi interni ci si limita a notare le innumerevoli rispondenze con Gal, che porta i segni inconfondibili della personalità di s. Paolo.
I dubbi sulla integrità della lettera riguardano i capitoli 15 e 16, già rigettati da Marcione. Questi, però, non ebbe seguito; ed oggi ancora la grande maggioranza dei critici ammette, almeno per il capitolo 15, l’autenticità paolina e l’appartenenza fin dall’origine all’epistola. La tradizione diplomatica è decisiva, mancando i capp. 15 e 16 soltanto in alcuni pochi manoscritti latini. Che se la dossologia di 16,25-27 si trova talora dopo 14,23, ciò si spiega agevolmente per l’uso liturgico. Complemento del capitolo 14 è 15,1-13, mentre il resto del capitolo 15 ha una specie di controllo in 1,8-15. Che il capitolo 16 fosse, in origine, una lettera a sé, è ben poco probabile, dato che consterebbe di soli saluti; questo particolare, poi, spiega più facilmente qualche esitazione dei manoscritti nel riportare il testo.
La dossologia di 16,25-27 si trova ora dopo 14,23 (ca. 200 minuscoli greci, versioni sira harclense e gotica, s. Giovanni Cristomo, Teodoreto) – ciò che si spiega facilmente come un fenomeno dovuto all’uso liturgico, in cui si omettevano il cap. 15, che ha un contenuto di notizie personali, e 16,1-24, che è una sequela di saluti – ora dopo 15,33 (P46), ora dopo 14,23 oppure in fine (A, P, ecc.), manca in G (c’è lo spazio bianco dopo 14,23), g, F; S, B, C, D, E ed altri unciali, con le versioni latina, coptica, etiopica e la Pešitta, hanno questa dossologia alla fine del capitolo 16. In breve, la tradizione diplomatica è nettamente favorevole all’autenticità di questi tre versetti, che convengono poi così bene con la sostanza dell’epistola e della teologia paolina da potersi considerare una sintesi felice dell’una e dell’altra.
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