di Joachim Jeremias
Testo tratto da J. Jeremias, Il messaggio centrale del Nuovo Testamento, trad. it. Paideia, Brescia 1968 (ed. or. Stuttgart 1962), pp. 57-81.
(3 – Continua da qui)
L’origine della dottrina paolina della giustificazione
La dottrina di Paolo sulla giustificazione è interamente nuova? Oppure ha radici più antiche? Questa dottrina per cui Iddio concede la sua benevolenza all’empio a causa della sua fede, puramente per grazia, si trova prima di Paolo?
Si è sostenuto recentemente che i testi di Qumran anticipano ciò che Paolo dirà poi sulla giustificazione [1]. Si è fatto riferimento in primo luogo alla sorprendente somiglianza con Paolo che si pretende riscontrare nel salmo finale del Manuale della Disciplina (1QS 11,2 ss.). Si è sostenuto che questo passo attesta la presenza della dottrina della giustificazione sola gratia in Qumran. Il testo è stato tradotto come segue:
Ma per me, la mia giustificazione (mišpati) appartiene a Dio,
e nella sua mano è l’irreprensibilità della mia condotta
insieme alla rettitudine del mio cuore,
e nella sua giustizia la mia trasgressione sarà cancellata (1QS 11,2 s.).
Dalla fonte della sua giustizia viene la mia giustificazione (mišpati),
una luce nel mio cuore dai suoi meravigliosi misteri (11,5).
Se io incespico in carne peccatrice,
la mia giustificazione (mišpati) rimarrà eternamente per la giustizia di Dio (11,12).
Per le sue grazie egli mi lasciò avvicinare
e dalle sue manifestazioni graziose viene la mia giustificazione (mišpati);
per la giustizia della sua verità egli mi ha giustificato (šephatani)
e nella sua grande bontà egli espierà per tutti i miei peccati,
e per la sua giustizia egli mi purificherà da ogni impurità umana
(11,13 s.).
Questo testo avalla la conclusione che ne è stata tratta? L’interpretazione dei versi citati dipende dalla parola mišpat, che nella traduzione qui sopra è stata resa con “giustificazione”. Ma tale traduzione non è esatta, perché né nell’Antico Testamento, né nella letteratura del tardo ebraismo, mišpat designa la giustificazione dell’empio, così come il verbo šaphat non significa giustificare l’empio.
La traduzione più sopra citata, per corrente che sia, non traduce con esattezza le intenzioni del testo. Piuttosto, un attento studio delle parole usate in parallelismo con mišpat dimostra che mišpat è la decisione gratuita di Dio sopra la condotta della vita di colui che prega [2].
Tale decisione viene realizzata da Dio col lasciare “avvicinare” (termine tecnico usato per l’ingresso nella comunità) il supplicante e col rendergli perciò stesso possibile la “condotta irreprensibile” in perfetta obbedienza alla Torah, condotta che l’uomo non è capace di raggiungere da solo. Se egli incespica su quel cammino, Iddio cancella i suoi peccati e mantiene la sua decisione, pur che il cuore del supplicante sia sincero. Così, mišpat non è iustificatio impii, la giustificazione dell’empio, ma piuttosto predestinazione al cammino della perfetta ubbidienza alla Torah.
Un esempio particolarmente istruttivo di quanto inammissibile sia il porre Paolo e Qumran sullo stesso livello ci è dato dall’interpretazione che il Commentario di Habacuc (1QpHab) ci dà di Ab 2,4, il testo-prova centrale per la dottrina paolina della giustificazione: «II giusto vivrà per la sua fede». 1QpHab dice: «L’interpretazione (di questo versetto) concerne tutti coloro che compiono la legge nella casa di Giuda (e) coloro che Iddio salverà dalla casa del giudizio (cioè, dal Giudizio finale) a motivo della loro fatica e della loro fedeltà al Maestro di Giustizia».
A Qumran si dice: Dio salverà colui che adempie la Legge, seguendo fedelmente la Torah com’è interpretata dal Maestro. Paolo interpreta Ab 2,4 del tutto diversamente: Iddio concede la vita all’empio che rinuncia ad ogni autoaffermazione e crede in Gesù Cristo.
No! Qumran non è una premessa a Paolo. Il testo di Qumran è consapevole della bontà e misericordia di Dio, ma esse sono valide soltanto per coloro che cercano di adempiere la Legge sino all’ultima oncia delle loro forze.
Per riassumere, Qumran e Paolo appartengono a due mondi diversi: Qumran è completamente nella linea della Legge, Paolo sta nella linea della buona novella.
Ma se Qumran non rappresenta uno stadio preliminare della dottrina paolina della giustificazione, di fatto troviamo una prefigurazione in un’altra direzione. Possiamo riscontrare l’insegnamento che l’osservanza della Legge e le opere pie non contano per Dio, che egli non vuole aver a che fare con il giusto bensì con il peccatore. Un altro prima di Paolo l’aveva già detto: Gesù.
Precisamente questo messaggio di Gesù concernente il Dio che vuole avere a che fare con i peccatori è ripreso e spiegato da Paolo nella sua dottrina della giustificazione dalla fede. Tale messaggio, unico e senza precedenti, era il centro della predicazione di Gesù. Ciò è dimostrato da tutte quelle parabole in cui Iddio abbraccia quanti sono perduti e si rivela come il Dio dei poveri e bisognosi, così come dalla comunanza di mensa da parte di Gesù con i pubblicani e i peccatori.
Il fatto che Paolo abbia accolto questo messaggio di Gesù può essere facilmente trascurato se ci si limita alla concordanza verbale. È vero che molti dei più importanti termini adoperati da Paolo – come fede, grazia, chiesa – ricorrono soltanto in pochi punti nei detti di Gesù. Ciononostante la sostanza di tutti quei termini vi è presente. Ad esempio, Gesù di solito non dice “chiesa” (ekklēsía) ma parla del gregge di Dio, della famiglia di Dio, della vigna di Dio. Paolo traduce costantemente in linguaggio teologico ciò che Gesù aveva espresso in immagini e parabole prese dalla vita di tutti i giorni.
Questo è dunque ciò che conta quanto alla dottrina della giustificazione. Tale dottrina non è nient’altro che il messaggio di Gesù sul Dio che vuole trattare con i peccatori, espresso in termini teologici. Gesù dice: «Io non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori»; Paolo dice: «L’uomo empio è giustificato». Gesù dice: «Beati i poveri»; Paolo dice: «Noi siamo giustificati per grazia». Gesù dice: «Lasciate che i morti seppelliscano i morti» (parola forte, significante che fuori del regno non si trova altro che morte); Paolo dice: «Colui che è giustificato per fede, avrà la vita».
Il vocabolario è diverso, ma il contenuto è lo stesso. Secondo Luca, Gesù in certe circostanze usò anche la terminologia giuridica della giustificazione per descrivere Dio che accorda la sua benevolenza all’uomo perduto. Abbiamo citato più sopra Lc 18,14: «Quest’uomo, vi dico, andò a casa giustificato, e non l’altro». Per motivi linguistici riteniamo che qui Luca non dipenda da Paolo; egli infatti usa una costruzione semitica e non greca, che Paolo evita [3]. Dobbiamo quindi concludere che non solo il contenuto della dottrina paolina sulla giustificazione, ma anche la terminologia di un perdono escatologico antedonato risale a Gesù.
La grandezza di Paolo consiste nell’aver compreso il messaggio di Gesù come nessun altro scrittore del Nuovo Testamento. Egli fu l’interprete fedele di Gesù. Ciò è vero specialmente della sua dottrina sulla giustificazione. Essa non è una sua invenzione, ma nella sua sostanza trasmette il messaggio centrale di Gesù così come esso è condensato nella prima beatitudine: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20).
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Note
[1] S. Schulz, Zur Rechtfertigung aus Gnaden in Qumran und bei Paulus, “Zeitschrift für Theologie und Kirche” 56 (1959), pp. 155-185; G. Klein, Rechtfertingung I, in Die Geschichte und Gegenwart, Tübingen 1961, coll. 825-828.
[2] Devo ringraziare mio figlio Gert Jeremias per avermi fatto notare ciò. Di più, egli mi rimandò al parallelo quasi letterale a 1QS 11,10 s. che ricorre nel rotolo degli inni 1QS 15,12 s., dove invece di mišpat leggiamo: “l’inclinazione di ogni spirito”.
[3] Cf. il mio libro Le parabole di Gesù, trad. it. Paideia, Brescia 1967, pp. 168 s.