La giustificazione per mezzo della fede – 1

di Joachim Jeremias

Testo tratto da J. Jeremias, Il messaggio centrale del Nuovo Testamento, trad. it. Paideia, Brescia 1968 (ed. or. Stuttgart 1962), pp. 57-81.

1. Il significato della formula

Ci domandiamo: che cosa si intende con a) essere giustificati, b) dalla fede, c) per grazia? Come il verbo ebraico tzadhaq, il dikaioûn dei LXX appartiene alla terminologia legale. Nella forma attiva esso significa “far giustizia ad uno”, “dichiarare uno innocente”, “assolvere un imputato”. Conformemente, il significato passivo è “vincere in tribunale”, “esser dichiarato innocente”, “essere assolto”.

In questo senso dikaioûn è usato anche nel Nuovo Testamento, cf. Mt 12,37, che si riferisce al giudizio finale: «Poiché dalle tue parole sarai giustificato (dikaiōthēsē-i) e dalle tue parole sarai condannato». Lo stesso contrasto “assolvere” – “condannare” ricorre anche in Rm 8,33 s., che è una citazione da Is 50,8: «È Dio che giustifica (theòs ho dikaiôn): chi li condannerà?». Tutto ciò si può leggere in ogni lessico. Tuttavia, si deve notare che il verbo dikaioûn / dikaioûsthai aveva subito un’estensione del suo significato in particolare allorché veniva usato a proposito dell’azione di Dio. La nuova sfumatura di significato si trova per la prima volta nel Deutero-Isaia. Is 45,25 dice nei LXX:

Dal Signore saranno giustificati (dikaiōthēsetai)
e da Dio saranno glorificati
tutti i discendenti di Israele.

In questa frase, è chiaro che il Deutero-Isaia esce dai limiti dell’uso forense. Il parallelismo tra “essere giustificato” ed “essere glorificato” dimostra che dikaioûsthai qui assume il significato di “trovare salvezza”.

Per quanto ne so, non è ancor stato notato che quest’uso sopravvisse nell’ebraismo post-biblico. Almeno due esempi se ne possono addurre. Nelle Antichità Bibliche dello Pseudo-Filone (scritte dopo il 70 d.C.) “esser giustificati” appare come parallelo all’elezione di Dio (49,4) e similmente nel IV Esdra (scritto nel 94 d.C.) “trovare grazia”, “essere giustificati” e “essere esauditi nella preghiera” vengono usati come sinonimi (12,7). L’ultimo passo menzionato è l’inizio di una preghiera. Essa dice:

O altissimo Signore,
se io ho trovato grazia ai tuoi occhi
e se sono stato giustificato alla tua presenza dinanzi a molti
e se la mia preghiera sale sicuramente al tuo cospetto…

Le tre ultime linee sono in parallelismo. Nella prima e seconda “trovar grazia” si alterna con “essere giustificato” senza nessun mutamento apparente di significato. Quindi la traduzione letterale, “esser giustificato”, è troppo ristretta e non rivela il senso intimo dell’espressione. Piuttosto, ecco ciò che il testo intende:

Se io ho trovato grazia ai tuoi occhi
e se ho trovato benevolenza alla tua presenza dinanzi a molti…

Il punto importante, qui, è che l’idea di un giudizio in tribunale è stata abbandonata. “Essere giustificato”, come espressione applicata a un atto di Dio e parallela a “trovare grazia”, non ha il senso ristretto di “essere assolto”, ma piuttosto quello più esteso di “trovare benevolenza”. Questo è confermato dalla terza linea parallela, che indica come la grazia di Dio, la sua benevolenza, si esprime: essa consiste nell’esaudire la preghiera.

Tutto ciò ci conduce a un detto evangelico, e precisamente a Lc 18,14, in cui Gesù dice del pubblicano: «Io vi dico, quest’uomo se ne tornò giustificato a casa sua, e non quell’altro». Anche qui il riferimento forense è stato abbandonato. Anche qui “essere giustificato” ha piuttosto il significato di “trovare benevolenza presso Dio”. Anche qui questa benevolenza di Dio si manifesta nel fatto che egli ascolta le preghiere. Lc 18,14, quindi, dev’essere reso conseguentemente: «Io vi dico, quest’uomo se ne tornò a casa come chi ha trovato benevolenza presso Dio, e non quell’altro». Potremmo spingerci sino a tradurre: «Io vi dico, quest’uomo se ne tornò a casa come uno la cui preghiera è stata esaudita da Dio, e non quell’altro».

Ci siamo così imbattuti in un uso di dikaioûsthai in cui il riferimento forense sembra esser stato diluito od anche completamente abbandonato. Vorrei chiamare quest’uso, per distinguerlo da quello forense, “soteriologico”.

È ovvio che in Paolo, pure, l’uso di “giustificare” (o “essere giustificato”) va molto oltre la sfera legale. Benché l’aspetto forense non manchi del tutto – abbiamo già menzionato il finale simile a un inno di Rm 8, in cui Paolo (nei vv. 33 s.) usa l’immagine del processo giudiziario, citando Is 50,8: «È Dio che assolve (dikaioûn); chi condannerà?» – il riferimento soteriologico domina il suo discorso. Per Paolo, l’attivo dikaioûn significa “concedere grazia e beneficio”, il passivo dikaioûsthai “trovare grazia e benevolenza”. Che l’immagine della procedura giudiziaria sia lontana appare particolarmente evidente là dove Paolo parla di una giustificazione appartenente al passato, come ad esempio in Rm 4,2: «Se Abramo trovò grazia (edikaiōthē) in virtù delle opere».

A proposito della storia della fede di Abramo non possiamo parlare di vicende giudiziarie, ma piuttosto di concessione di grazia divina. Lo stesso è vero a proposito di 5,1: «Così dunque, avendo trovato grazia (dikaiōthéntes) in virtù della fede, noi siamo in pace con Dio»; e di 5,9: «Poiché abbiamo trovato grazia (dikaiōthéntes) nel suo sangue». La giustificazione di Dio è un’effusione di grazia, che eccede di gran lunga la sfera legale.

Per quanto riguarda il sostantivo dikaiosynē (toû) theoû, l’aspetto soteriologico è stato notato molto tempo fa; il primo che lo rilevò fu, a mia conoscenza, James Hardy Ropes all’inizio di questo secolo [1]. Nei Salmi e nel Deutero-Isaia sidhqath Jahwe, “giustizia di Dio”, è usata alternativamente con “salvezza di Dio”, “grazia di Dio”. Questo è precisamente l’uso di Paolo (con l’eccezione di Rm 3,5, in cui, tuttavia, egli non sta parlando in proprio, bensì riporta un’obiezione). Così, per esempio, Rm 1,17 non dev’essere tradotto: «Nel Vangelo la giustizia di Dio è rivelata», ma «Nel Vangelo la salvezza di Dio è rivelata».

Riassumendo: come nelle epistole paoline dikaiosynē (toû) theoû dev’essere tradotto “la salvezza di Dio”, così dikaioûsthai dev’essere reso con “trovare grazia presso Dio”.

Ora possiamo rivolgerci alle parole pístei, ek písteōs, dià písteōs, “per fede”. Ogni volta che Paolo parla della dikaiosynē di Dio, della salvezza di Dio, e di dikaioûn di Dio, la concessione da parte di Dio della sua grazia, egli concentra tutta l’attenzione su Dio. Ogni cosa è concentrata sull’unica questione vitale se Dio sia benevolmente disposto o no, se egli conceda il suo beneplacito o no, se egli mi dica “Sì” oppure “No”. Quand’è che Iddio dice “Sì”?

Paolo risponde: un uomo è giustificato, trova grazia, mediante la fede […]. In tal modo la fede sostituisce le opere [della Legge]. Ma nasce la domanda: se la giustificazione è data per la fede, non ci troviamo nuovamente di fronte a una conquista che determina la benevolenza di Dio? La risposta qui è: sì! Noi stiamo di fatto di fronte ad una conquista. Dio concede effettivamente la sua grazia in base a una conquista. Ma qui non si tratta di una mia conquista, bensì dell’impresa compiuta da Cristo sulla croce. La fede non è in se stessa una conquista, ma è piuttosto la mano che afferra l’opera di Cristo e la porge a Dio. La fede dice: «Questa è la vera conquista: Cristo è morto per me sulla croce» (Gal 2,20). Questa fede è l’unico modo per ottenere la grazia di Dio.

Che Iddio conceda la sua benevolenza al credente è contro ogni regola della legge umana. Ciò diviene chiaro se si considera chi è giustificato: l’empio (Rm 4,5), che merita la morte perché porta la maledizione di Dio (Gal 3,10). A lui è offerta la benevolenza di Dio «per grazia» (Rm 4,4; 5,17), come dono gratuito (Rm 3,24). Questa grazia non conosce restrizioni; essendo indipendente dalla legge mosaica, essa può anche includere i Gentili.

In Rm 4,6-8 abbiamo in nuce ciò che comporta questo trovare benevolenza presso Dio sola gratia: «Davide pronuncia una benedizione sopra l’uomo al quale Iddio rende giustizia prescindendo dalle opere: “Benedetti sono coloro le cui iniquità sono perdonate, e i cui peccati sono coperti; benedetto è l’uomo cui il Signore non imputerà il suo peccato”».

La giustificazione è il perdono, null’altro che il perdono per amore di Cristo. Ma questa affermazione richiede di essere ulteriormente chiarita.

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Note

[1] J.H. Ropes, Righteousness in the Old Testament and in St. Paul, “Journal of Biblical Literature” 22 (1903), pp. 211-227.

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(1 – Continua)