Testo tratto da F. Parazzoli, Indagine sulla crocifissione, Rusconi, Milano 1982, pp. 73-84.
«Quando si cade in un agguato, o si fugge o si affronta l’avversario: più spesso, si fa fronte mentre si fugge. In un primo momento credetti che l’agguato fosse stato teso a me soltanto e mi dibattevo e me ne lagnavo: mi pareva ingiusto che io, e io soltanto, o pochi altri a me sconosciuti, fossimo stati designati per questo tranello mortale. Mi resi presto conto che non era così, che l’agguato era stato teso a ciascuno di noi e che cadervi era solo questione di tempo. I segni dell’agguato sono molteplici e diversi, ma si somigliano tutti: tutti comunque sono tesi ad un unico scopo: privarci delle nostre abitudini, delle nostre difese. Allora comincia la resistenza e la fuga.
Chi tende l’agguato è Dio. Cosa si intenda per Dio ognuno lo decida per sé. Non ho trovato altro modo di chiamarlo che non fosse ridicolo. È l’energia che ci scalza dalle nostre radici vuote, che soffoca le piccole paure con un’unica grande e decisiva paura: non poter vivere oltre, neppure per un istante, senza rispondere per il sì o per il no. Ho scoperto che quanto avevo scambiato per una questione personale è invece un’epidemia, anche se nessuno osa parlarne come di una malattia umiliante…
È necessario scoprire ogni possibile probabilità di sopravvivenza. Si tratta di dividere la gabbia con il leone eppure comportarsi ogni giorno così come nulla fosse avvenuto. Profondamente diversi, ma apparentemente simili a se stessi: tale è la condizione dell’uomo chiuso nello stesso cerchio con Dio. Quando si è caduti nell’agguato, il primo scampo è la fuga. Ma la sola salvezza è nella convivenza con l’inseguitore. Appena siamo costretti a cercare la convivenza con Dio, siamo anche costretti a ricatalogare quello stesso universo che un istante prima davamo per scontato, che ci era parso così inesorabilmente banale da giurare addirittura che non avesse alcun senso. Il nostro castello di carte è a terra. Si tratta di ricatalogarne i pezzi e ricostruirlo secondo una forma del tutto nuova. Ogni minimo avvenimento della vita quotidiana, invece di offuscarla, conferma la drammaticità della nuova condizione, l’assurdità di ricreare, anche solo parzialmente, i vecchi equilibri. Ad ogni tentativo di fuga, ad ogni esitazione, il castello crolla, le carte sono nuovamente a terra…
Quando il mondo ci appare frantumato in una serie di immagini schizoidi di violenza e stupidità, allora veniamo sospinti nella gola di Dio. In questo consiste la nostra fuga: nel corrergli addosso. Non esiste speranza di vita. Esiste la vita o niente. Caduti nell’agguato di Dio non c’è più storia: le nostre mani vuote passano sulle cose del mondo e, come ciechi, seguiamo il battito di un cuore lontano. Spesso il segnale si interrompe e, quell’ordigno sprofondato dentro di noi, torna a dare il suo ticchettio allarmante. Chi dà gli scossoni e perché? E chi intoppa la sveglia a forza di caricarla con due dita micidiali?
La ricerca del colpevole: nella dozzinale letteratura poliziesca si tratta, infine, di rintracciare l’assassino. Le storie mediocri si riconoscono a prima vista: chi le scrive non ha il minimo sospetto che, dietro il fatto più banale, esista, comunque, un Responsabile. Allora la storia non ha centro, si riduce ad un inutile pettegolezzo. Ma ogni storia che si rispetti è una teologia, è una ricerca del Responsabile. Cosa accade realmente dietro l’apparente assurdità dei fatti? Il problema di fondo non è quello dell’esistenza di Dio, problemino da manuale se messo in mano a degli sciocchi. Il vero e unico problema è come Dio esista e cosa provoca la sua presenza in visibilibus et invisibilibus.
È ridicolo: la gente, quando hai un dolore grave, ti fa gli occhi dolci e osa dirti: hai la fede. La discriminazione dei buoni. La bontà, quando viene troppo facilmente riconosciuta, è un odore eccessivamente dolce, sgradevole, un ostacolo insormontabile che tiene separati dal mondo. Costui è un uomo buono: la condanna è inappellabile. Come si muove, come sorride, come apre la bocca, tutti sono disposti a riconoscere in lui, fin dalla prima occhiata, un uomo decisamente e irrimediabilmente buono. Un uomo che non serve al gioco. Quell’uomo ha la fede, cosa pretende di più? “Avere la fede” dicono stupidamente, ne parlano come di un premio di consolazione. Hanno ucciso qualcuno in mezzo alla strada, hanno violentato un bambino, hanno accoppato a calci un omosessuale: l’uomo di fede non può scandalizzarsi; l’uomo di fede è sempre simile a se stesso, è un uomo senza storia. Così vorrebbero gli stolti. Che nausea gli occhi dolci delle persone adulte. Lasciaci lavorare, noi che abbiamo rifiutato ogni consolazione. Credono di farla franca: di poter tornare alla chetichella alle loro chiacchiere. Non sanno che la fede è un macigno tenuto in bilico sulla testa: basta il minimo scossone perché ti cada addosso e ti schiacci, invece i falsi consolatori ti consolano gratis, rubano sul tuo.
Non esiste, dunque, alcuna soluzione? È forse per questo che Cristo ha detto: “Io sono la vita”? La vita non è alcuna soluzione, ma è soltanto la vita, un modo di essere o di non essere. Ma cosa intendeva davvero Cristo? Intendeva soltanto quello che generazioni di esegeti si sono sforzati di fargli dire: io sono il modello da seguire? O non forse che egli, come appunto la vita, è contraddizione, è il bambino morto per gioco nel frigorifero e i gigli del campo?
Il rapporto con Dio non è un rapporto di reciproche gentilezze. Non è un rapporto fondato sulla pietas. La pietas fa nascere la religione, si identifica con il legame del dare e dell’avere di ogni religione. Il rapporto con Dio precede e supera ogni religione così come l’amore e l’odio superano ogni convenienza sociale: non si fanno chiacchiere con chi si odia, non si fa conversazione con chi si ama. La religione è soltanto un modo di intrattenere un rapporto indolore con Dio, di riempire decorosamente quei vuoti che sono terribili e sconcertanti in ogni storia di odio e di amore. Per questo siamo religiosi: per l’impossibilità di vivere costantemente alla presenza di Dio. Cristo non era un uomo religioso, Cristo non era soltanto la perfetta imitazione di Dio. Ogni religiosa “imitazione” di Cristo è vana. Cristo nasce e vive dolcemente dentro di noi, non c’è alcuna gara da fare con lui, nessuna affannosa sequela, si tratta semplicemente di vivere. Ancora dunque: “Io sono la vita”: non il modello, non l’archetipo, ma la vita. Nessuno assomiglierà mai a Cristo. Ma ciascuno vivrà come una briciola di Cristo, infima eppure perfetta. Vi sono vari livelli di perfezione, cioè di completezza. Un cocomero, quando è completo, occorrono due mani per sollevarlo; due dita bastano per una ciliegia.
È chiaro come in fondo ad ogni vita vi sia la ricerca della santità. Sembra assurdo a prima vista, inconcepibile; eppure, appena mi fermo e osservo il senso della vita di ciascuno, anche il più oscuro e incerto, ecco lo ritrovo, magari sfigurato, distorto, inconsapevole, nella ricerca assidua della santità. Un immenso silenzio pacificatore, l’estremo finale di ogni storia. Il totale fallimento della nostra demoniaca pietà».